
Forse la canzone più cruda e triste mai scritta, ma sopra ogni cosa, eseguita.
Quando lavoravo per una rete musicale che non esiste più da molto tempo, ricordo che il lunedì era il giorno destinato alla visione dei video. Ai tempi non esisteva il web cui tramite ricevere in digitale i video in un attimo; avevamo una navetta che da Milano portava in mezzo ai monti scatoloni di cose che dovevamo vedere per giudicarne l’utilizzo. A quella sessione di presa di coscienza cercavo di far partecipare altri, perché sapevo di esser facilmente condizionabile da certe tendenze che tutt’ora non sopporto. Ad esempio, quando vedevo un gruppo iniziare a ballare con i calzoni alle ginocchia muovendo le mani a ritmi tutti uguali tenendo medio e anulare chiusi, sarei passato immediatamente oltre. E invece il rap, per certe etichette era importante; non tanto perché avesse dati di vendita rilevanti, quanto perché dai paesi d’origine si facevano pressioni affinché venisse distribuito e promosso anche in Italia. Deve essere così, temo, che si è giunti alle attuali nefandezze all’italiana per cui pare che molti perdano la testa. Deve esserci stata una responsabilità da parte nostra, ho paura. E me ne vergogno.
Quando vidi, però, per la prima volta un video in particolare non ero più lì. Ero sempre in una rete musicale, ma lì non esisteva la democrazia che vigeva in Toscana : lì, a priori, si sceglieva in base alla musica proposta, il lato visivo contava poco o nulla. E quello che io stavo vedendo era stato, logicamente, scartato. Proprio per questo lo stavo osservando con attenzione. Il video era di un anziano, famosissimo ed estremamente popolare cantante americano, da noi poco ricordato. La canzone non era sua. La avevo conosciuta nella versione originale di un gruppo chiamato Nine Inch Nails. E devo dire che mi aveva colpito sia per il testo che per la forza che diffondeva. Ma vedere quel video di Johnny Cash mi devastò, letteralmente.
Il brano era Hurt, una storia cruda, estremamente realistica, sugli effetti della droga. Ma qui non c’era quella sorta di compiaciuto pietismo della Heroin di Reed, né l’amichevole pacca sulla spalla di Sister Morphine o Brown Sugar degli Stones : qui si faceva una sorta di radiografia dell’essere umano devastato dalla droga e oramai privo di speranza di poterne uscire. Con poche immagini crude, secche, si descriveva la larva che restava di quell’uomo che vedeva cambiare tutto intorno a sé , restando lui immobile a vedere il mondo che andava avanti.
Ma quello che trovavo, e trovo ancora oggi rivedendo quelle immagini, è la consapevolezza della fine, prossima, l’abbandono di una coscienza lucidamente conscia di poter solo abbandonarsi a una nuova vita per poter redimere quella gettata via.
E in tutta franchezza, a mio parere, la versione di Cash rende immortale e tragico il brano di Raznor che, a confronto, non rende la tensione emotiva che Cash e Rubin hanno saputo donargli.


Tutto questo, cantato da un uomo vecchio, ma con una voce miracolosa, con la bocca piegata dall’età e forse da precedenti paresi, che ti guardava, senza vederti, ammettendo le proprie colpe. Una esperienza fortissima, a tratti lacerante, che non poteva non scuotere emotivamente chi seguisse le immagini e fosse consapevole della vita dissoluta, ai confini della legge e oltre che il Cash aveva condotto. L’Uomo in Nero, the Man in Black, così lo chiamavano, era molto, ma molto più metallico e duro di qualsiasi metallaro dal nord Europa.
Tutto questo avveniva solo un anno scarso prima della morte di Cash che seguiva di quattro mesi quella di June Carter, moglie tanto amata quanto tradita dall’uomo e dal Mito del medesimo. Il produttore di questa stilettata alle nostre coscienze assopite era Rick Rubin, uno che difficilmente sbagliava una avventura e che aveva riportato in auge la fama del cantante servendogli su di un piatto d’argento una sequenza di cover che sembravano esser state scritte solo per lui.
Se Trent Raznor nel 1994 aveva sperato che ci fosse un seguito, un barlume di speranza in coda alle sue parole, Cash cantava la propria fine, affrontava la morte sapendo di averla seduta davanti a sé. Quasi impossibile non commuoversi davanti alla decomposizione fisica e morale descritta dalle parole di quel pezzo. Tutto incredibilmente, tristemente bellissimo.
Proprio per questo, quando sentii utilizzare quel brano come sottofondo di uno spot pubblicitario, mi domandai immediatamente chi fosse il pazzo che non aveva nemmeno provato a capire COSA si stesse dicendo mentre loro pubblicizzavano un qualsivoglia prodotto ! Oddio… il marketing gronda sorprese del genere… ricordo una Walk on the wild side che parla di transessuali e fellatio mentre si vendeva una nuova macchina, oppure Paranoid sempre per una macchina e altre nefandezze del genere, ma utilizzare la canzone più cruda, con l’interpretazione più devastante che possa ricordare, mi fece capire che chi vende qualcosa, non necessariamente pensa alle parole di contorno.
Vorrei suggerirvi di cercarvi e portare a casa Unhearted, box postumo che contiene il meglio della produzione di Cash rivista da Rubin, un oggetto che vi avvicinerà a una voce unica come quella di un Elvis o di un Sinatra, ma senza la loro americana volontà di trasmettere il lieto fine. Che non a caso, in America, pare obbligatorio.
HURT - Testo originale
I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that’s real
The needle tears a hole
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything
What have I become
My sweetest friend ?
Everyone I know goes away
In the end
And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt
I wear this crown of thorns
Upon my liar’s chair
Full of broken thoughts
I cannot repair
Beneath the stains of time
The feelings disappear
You are someone else
I am still right here
What have I become
My sweetest friend ?
Everyone I know goes away
In the end
And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt
If I could start again
A million miles away
I will keep myself
I would find a way
Oggi mi sono ferito
Per vedere se provavo ancora qualcosa
Mi concentro sul dolore
L’unica cosa che è reale
L’ago pratica il buco
La vecchia puntura familiare
Mentre provo a eliminare ogni cosa
Ma ricordo tutto
Cosa sono diventato
Mio amico dolcissimo
Tutti quelli che conosco se ne vanno
Alla fine
E tu potresti avere tutto
Il mio impero di immondizia
Ma io ti deluderò
Io ti farò male
Porto questa corona di spine
Sul trono delle mie bugie
Pieno di pensieri spezzati
Che non posso riparare
Sotto le macchie del tempo
I sentimenti scompaiono
Tu sei qualcun altro
Io sono ancora qui
Cosa sono diventato
Mio amico adorato
Tutti quelli che conosco se ne vanno
Alla fine
E tu potresti avere
Il mio impero di immondizia
Ma io ti deluderò
Io ti farò male
Se potessi ricominciare
Un milione di miglia da qui
Mi tratterrei
Troverei un modo
Versione bellissima e devastante, come il video. Per quel che vale, sottoscrivo ogni parola.