A New York, sul grattacielo dell'AOR
Difficilmente i mezzi di diffusione del rock pubblicitario insistono su un personaggio come Robert J. “Bob” Kulick, soprattutto se schierato nella grande arena dell’hard americano, dagli anni ’80 in poi.
In un’epoca in cui i lunghi capelli e le facce pulite catturavano le luci della notorietà, il chitarrista di Brooklyn, New York, si presentava in modo del tutto atipico, calvo e con vistosi mustacchi. Così era immortalato nella sessione fotografica dei Balance di “In For The Count” (1982), un album destinato a rappresentare un’autentica pietra miliare dell’AOR, nella sua miglior combinazione possibile di energia, accenti melodici e sofisticazione. La storia dei Balance è sintomatica della carriera del suo chitarrista, che senza mai raggiungere un successo di massa, ha tracciato un solco profondo nell’epoca aurea del rock che ci ha appassionato.
Ad annunciare mestamente il suo decesso (29 maggio 2020, a settant’anni) è stato il fratello minore Bruce, ancora attivo in una stravagante riunione dei Grand Funk Railroad, dove sostituisce il “faro” storico Mark Farner. Quotato ma senz’altro meno virtuoso di Bob come chitarrista, Bruce è pero entrato ufficialmente nei Kiss già “smascherati” di “Asylum” (1985), perdurando fino al ritorno del quartetto originario in “Psycho Circus”.
Bob ci aveva provato prima dell’esordio (circa 1972), quando Paul, Gene e Pete erano alla ricerca di un solista, ruolo nel quale gli fu preferito il più appariscente Ace Frehley.
I Kiss non dimenticarono però il talento del Kulick calvo, che registrerà in varie occasioni (pur non accreditato), specie nei brani di studio inediti di “Alive II” e “Killers”, oltre al suonare nell’eccellente “solo” di Stanley del ’78 ed esser convocato oltre dieci anni dopo per il tour dello stesso Paul.
Spesso il destino l’ha confinato nell’ombra di artisti famosi, basti ricordare le collaborazioni con Lou Reed (“Coney Island Baby”), Diana Ross (“Mirror Mirror”), oltre a suonare in tour ed in studio con Meat Loaf.
La sua carriera era iniziata addirittura nel 1966, quando sedicenne debuttò con la Random Blues Band nell’album “Winchester Cathedral”. Suonando con loro in un club del Greenwich Village, Bob fu colpito dall’esibizione di un gruppo chiamato Jimmy James And The Blue Flames; dichiarò che “gli avrebbe cambiato la vita”… J. James altri non era che Jimi Hendrix, affiancato da Randy California, poi famoso negli Spirit.
All’inizio dei 70, Kulick suonò occasionalmente negli Hookfoot, ricordati soprattutto come musicisti di studio con Elton John, ma è solo formando i Balance che l’itinerario musicale del chitarrista sembra decollare.
Balance: "Balance" (1981)
I Balance nascono dal sodalizio di Bob con un altro veterano di New York, il vocalist Peppy Castro. Con il vero nome Emil Thielhelm, “Peppy” è stato il fulcro dei Blues Magoos, leggendario gruppo del Bronx celebrato nell’antologia della prima era psichedelica americana, “Nuggets”, dove esibivano una memorabile versione del classico “Tobacco Road”. Prima dei Balance, aveva figurato anche nei Barnaby Bye e nei Wiggy Bits (proto-AOR band con omonimo LP del ’76).
Il trio iniziale era completato dal tastierista Doug Katsaros, con un curriculum che spaziava dagli studi classici a Broadway. Scritturati dalla Portrait-CBS, a livello manageriale finiscono nell’orbita di Louis Levin, della potente organizzazione Leber/Krebs, che gestiva titani come Aerosmith, AC/DC ed in seguito, gli ascendenti Def Leppard.
Coadiuvati da session players per i ruoli vacanti, Balance accedevano allo studio Power Station di NY con uno dei proprietari in qualità di co-produttore, Tony Bongiovi, cugino della futura stella Jon Bon Jovi.
Ne scaturisce l’eponima opera prima che non riscuote un successo proporzionale al rilevante schieramento di forze, complice un suono pop-rock da FM ancora debitore verso i canoni seventies di quello stile. Si tratta di un rilievo “estetico” più che di contenuto musicale. Una palese vena commerciale si evidenzia solo nel singolo “Breaking Away”, con il ritmo scandito dal battimano nel raro filmato reperibile su YouTube e firmato da Peppy, più incline verso questa formula.
Ottiene un buon riscontro nelle classifiche radiofoniche, ma più sostanziali appaiono “(Looking For The) Magic”, che in apertura risponde a raffinatezze dei Toto, oppure il tocco pomp à la Styx di “I’m Through Loving You”. Il neo-classicismo pianistico di “Fly Through The Night” svela la formazione musicale di Katsaros, conferendo un’aura incantevole al suadente canto di Peppy, ed “Haunting” mette finalmente in luce il destreggiarsi di Kulick fra accompagnamento acustico ed un riff risolutamente rock, che incombe sull’arrangiamento orchestrale (ristampa CD su Rock Candy, 2006).
Balance: "In For The Count" (1982)
Il gruppo assume un assetto stabile in occasione del secondo album, ingaggiando il bassista Dennis Feldman (già negli Speedway Blvd con Jordan Rudess di futura fama Dream Theater) ed il batterista Chuck Burgi, che più notoriamente aveva sostituito Phil Collins nei Brand X. Non cambia invece il team di produzione nello studio Power Station, sempre diretto da Bongiovi con tre membri originali del gruppo. Le tastiere di Katsaros saranno invece aggiunte ai Criteria di Miami, ma soprattutto si intuisce una decisa svolta verso l’hard rock all’incrocio con l’AOR degli anni ’80, la formula magica distillata dagli stessi Journey di “Frontiers” (1983).
Il rinnovato stile dei Balance sembra impartito dallo stesso Bob Kulick, il più convinto assertore della teoria evoluzionistica verso il rock ultra-sofisticato in seno al quintetto, che a livello iconografico è ben rappresentato dal design modernista della copertina. Nel rompere ogni indugio, l’impatto della title-track è devastante: un tripudio di tastiere apre la strada al riff sorprendentemente metallico di Kulick, ed il refrain declamato da Peppy rimane a tutt’oggi uno dei più riconoscibili della storia del rock melodico. E che dire del bridge strumentale, che sembra espandersi verso spazi siderali presieduti dagli Alieni? Un brano pazzesco, un classico fra i più imponenti della storia AOR.
Con un taglio aggressivo di rara e seminale eleganza gli fa seguito “It’s Over”, mentre il miglior Peppy Castro si ritrova nelle stralunate armonie vocali di “Slow Motion”, avvolte dall’eco. Anticipatrice di qualsiasi rotta verso il metal di classe è “Undercover Man”, altro portentoso showcase delle qualità di Kulick. Non è un caso che questo sia il brano più recente fra quelli selezionati dalla fondamentale compilation della Music For Nations, “Striktly For Konnoisseurs”, che si prefiggeva di rilanciare all’attenzione del pubblico l’heavy melodico americano e canadese (1976-1982) trascurato in Europa. I Balance rappresentavano una cerniera ideale fra quella tradizione ed il rock dello stesso genere, negli anni a venire.
A conferma della sua statura di classico sottostimato, allego la mia recensione della reliquia “In For The Count” su Metal Shock (n.8-1987) e quella di assoluto prestigio di Derek Oliver, che in Mega-Metal Kerrang! (1989) lo includeva fra i Top 10 dell’AOR. “Sottostimato” ovviamente in termini di vendite; purtroppo l’album non ricevette le adeguate attenzioni da un management troppo affaccendato nelle proprie priorità; a causa di una serie di licenziamenti decisi dalla casa-madre CBS, il gruppo newyorkese aveva perso anche il supporto dei discografici che credevano nelle sue risorse. Per consolarsi, Kulick e compagni si erano rivolti al benevolo mercato giapponese, dove incidevano un fortunato singolo a fini pubblicitari, “Ride The Wave”/”She’s Alone Tonight”. La copertina li ritraeva in improbabili tute dorate, ma la facciata A, rilancia piacevolmente lo stereotipo di “IFTC”.
Sarà l’ultimo atto degli originali Balance; potete riascoltare entrambi i brani sull’unica ristampa consigliata, artefice Rock Candy nel 2006. Davvero sorprendente che manchi all’appello proprio una riedizione degli onnipresenti nipponici.
BALANCE: “Equilibrium” (2009)
L’etichetta napoletana Frontiers, fortezza del rock melodico specializzata nel rilancio sia di campioni di vendite (Toto, Journey, Survivor, Whitesnake) sia di formazioni da culto (House Of Lords, Drive She Said, Diving For Pearls, Fortune) degli anni ’80, si incarica di pubblicare anche il terzo album dei Balance, “Equilibrium”, nel 2009.
Eccoli riallineati attorno alla triade ormai storica, Kulick/Castro/Katsaros, mentre al basso si alternano i primi due oltre al fratello di Bob, l’ex Blackjack e Kiss, Bruce. Completa i ranghi un session-man, il batterista Brett Chassen.
Quello dei Balance è un ritorno “in stile”, fedele alla durevole personalità dei musicisti, ma con un’inevitabile ridimensionamento della produzione, computerizzata in omaggio alle tecnologie attuali; appare un po’ carente della profondità tipica dei suoni perfezionati in studio negli anni d’oro.
La dinamica e le armonie vocali di “Twist Of Fate”, il riff cesellato che risuona sull’insistente scandire di “Liar” ed il mood d’atmosfera che lascia spazio ai bagliori della solista in “Who You Gonna Love”, dimostrano che i Balance sono ancora maestri nel loro gioco preferito, anche se le prospettive di un tempo sono ormai tramontate.
Questa provvisoria riunione porterà anche anche ad occasionali eventi live, come le tre esibizioni in Svezia dell’estate 2014 (documentate su YouTube), dove la voce di Peppy è purtroppo ben lontana dalle timbriche che ci avevano ammaliato in origine.
Da gregario di lusso a leader di stelle hard rock
Lo scioglimento dei Balance non coglie impreparato Kulick, che contribuisce all’esordio solista di Michael Bolton – un altro classico AOR, 1983 – ed è il valore aggiunto nel secondo, meraviglioso album, “Behind The Enemy Lines” (sempre 1983) degli Spys, formati da ex-Foreigner, Ed Gagliardi e Al Greenwood . Si è parlato di un ulteriore progetto di Bob con gli stessi musicisti, che non ha trovato sbocchi. Finalmente gli viene invece riconosciuto un ruolo “ufficiale” nel gruppo di Meat Loaf, che realizza “Bad Attitude” dell’84.
Per ritrovarlo responsabile di un proprio gruppo, bisognerà attendere gli anni 90, generalmente avari di soddisfazioni per devoti del classic metal et similia. Porterà infatti all’esordio gli Skull di “No Bones About It” (1991) a cui faranno seguito altre formazioni all star da lui guidate, Blackthorne e Murderer’s Row (vedi approfondimenti), nel decennio dominato dal grunge. Nel frattempo confermerà la sua predilezione per il rock a tinte forti, suonando nell’album più maturo e qualitativo dei WASP, “The Crimson Idol” (1992) e nel successivo “Still Not Black Enough”. Collaborazioni in questo ambito proseguiranno negli anni, fiancheggiando la “guerriera” Doro Pesch in “Calling The Wild” ed il cantante Tim Ripper Owens, reduce dai Judas Priest.
Per un artista non avvezzo ad onorificenze personali, Kulick si appuntò una stelletta vincendo il Grammy in qualità di produttore di “Whiplash”, cover incisa dai Motorhead per l’album tributo ai Metallica, fantasiosamente intitolato…”Metallic Attack”.
Dal 2000 in poi, Kulick fu particolarmente impegnato su questo fronte, producendo innumerevoli “Tributi”: ai Queen, Aerosmith, Kiss, Alice Cooper, Cher.
Solo nel settembre 2017, trascorsi oltre cinquant’anni di carriera, Bob realizzava un album da esclusivo titolare, “Skeletons In The Closet” (Vanity). Presentato da una mediocre illustrazione di copertina, certo non adeguata alla rilevanza del chitarrista, il CD oltre agli inediti e ad una tenebrosa versione di “Goldfinger” (cantata a suo tempo con molto pathos da Shirley Bassey nel film di 007), ripropone quattro brani già registrati con gli Skull ed i Murderer’s Row, fra i quali la title-track.
Lo stile dei nuovi pezzi è lo stesso dei gruppi citati, melodico ma dal notevole “carico” heavy: da segnalare “Not Before You”, cantata da Robin McAuley (ex MSG e Far Corporation) con toni più aspri del solito e “London”, ispirata alla vicenda di Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Fleet Street, nel film di Tim Burton interpretato da Johnny Depp; gli dà voce il teatrale Dee Snider, ben calato nel fosco contesto. Oltre ai numerosi nomi noti, già coinvolti nei precedenti lavori di Kulick, partecipano anche Rudy Sarzo, Vinnie Appice ed Eric Singer.
E’ questo il canto del cigno del valoroso chitarrista, a cui dedichiamo con questo scritto il nostro sentito omaggio, per chi non vuole dimenticare.
Skull: "No Bones About It" (1991)
Già nel 1987 si parlava degli Skull, ma l’unico album, “No Bones About It”, uscirà solo nel ’91 (Music For Nations), proprio nell’anno fatale di “Nevermind” dei Nirvana, strategicamente sfavorevole.
Fin dall’ascolto di “Eyes Of The Stranger” e “Breaking The Chains”, avviate sulla gloriosa strada lastricata d’acciaio dei classici Montrose e Van Halen, realizziamo perché…Oltre a Kulick, il plotone degli Skull schierava Dennis St. James (alias Dennis Feldman, il bassista dei Balance riconvertito in cantante), il nuovo bassista Kjell Benner ed il drummer Bobby Rock (ex Vinnie Vincent Invasion, poi con i gemelli Nelson ed in futuro negli Hardline).
Il metallico hard rock del quartetto avrebbe ottenuto ben altra risonanza se fosse uscito intorno ai mid-Eighties, essendo specializzato in ogni genere di perversione allora gradita: dallo stile anthemico affine ai Kiss di “I Like My Music Loud” e “King Of The Night”, alla potenza dei riffs à la Ted Nugent che non prende prigionieri in “Guitar Commandos”, dove Bruce dà man forte al fratello, fino alla seducente ballata “This Side Of Paradise”, che cullerebbe qualsiasi sogno AOR.
Probabilmente gli Skull sono il team meno prestigioso fra quelli proposti da Kulick negli anni 90, ma di certo esibiscono il repertorio più versatile e di miglior qualità complessiva.
Nel 2018, la Hear No Evil/Cherry Red assemblerà un doppio CD, “Skull II: Now More Than Ever”, che include i demo originali di “NBAI” registrati prima dell’esordio ufficiale, ed un intero “Lost Album” successivo. Non solo, anche “No Bones About It” viene ristampato dalla stessa etichetta e nello stesso anno in edizione “expanded” (2 CD) con una versione alternativa dello stesso disco.
C’è insomma il rischio di un’indigestione di “Cranio ed Ossa”…
Blackthorne: "Afterlife" (1993)
Sepolti gli Skull, Kulick allestisce una nuovo quintetto con individualità dal rimarchevole pedigree; in primo piano il cantante inglese Graham Bonnet, già al fianco di eroi della chitarra come Ritchie Blackmore, Michael Schenker oltre ad Yngwie Malmsteen (negli Alcatrazz di cui Bonnet era leader).
Gli altri sono il tastierista Jimmy Waldo, che ricordiamo soprattutto per i mitici trascorsi con i New England (oltre ad Alcatrazz e Quiet Riot), il bassista Chuck Wright (Giuffria, House Of Lords), che con Frankie Banali (ex Hughes/Thrall) ricomponeva una sezione ritmica già collaudata nei Quiet Riot.
Anche “Afterlife” esce su MFN; l’immediata sensazione è che in veste di produttore, Kulick spinga sempre di più il pedale del metal, inducendo lo stesso Bonnet a sfoderare le sue interpretazioni più graffianti di sempre.
La nuova versione di “Breaking The Chains”, già apparsa sull’album degli Skull, è palesemente più tirata, inoltre i Blackthorne osano gettare il guanto di sfida ai Rainbow, rifacendo a loro volta “All Night Long”, con Bonnet e lo stesso Kulick che ne estremizzano le possibilità espressive. Non posso sostenere che la loro cover sia migliore, ma di certo è sfacciatamente sfidante e rumorosa.
Il gruppo aveva subito messo in chiaro gli intenti con l’intimidatoria title-track (qui però trovate il link di una loro esibizione unplugged); poi Kulick sembra rifarsi all’Angus Young di “Thunderstruck” in apertura dell’inno “We Won’t Be Forgotten”. Qualche variazione d’atmosfera la riscontriamo in “Baby You’re The Blood”, dove le tastiere di Jimmy Waldo colgono lo spunto per non farsi sovrastare dal dominio e dal volume della chitarra-leader.
Nonostante questo spiegamento di forze, il disco non si impone ed in America un’edizione tardiva esce solo l’anno successivo…Bonnet ne ha abbastanza ed il gruppo non andrà oltre.
Anche ai Blackthorne, Hear No Evil/Cherry Red riserverà particolare attenzione: la ristampa di “Afterlife” con tre bonus ed inoltre un doppio CD postumo, “Don’t Kill The Thrill” ricco di inediti (l’ipotetico secondo album registrato nel ’94, più brani dal vivo)…Il tutto nel 2016.
Nell’autunno 2019, H.N.E. completa l’opera con il cofanetto di 3 CD, “We Won’t Be Forgotten”.
Murderer's Row: "Murderer's Row" (1996)
Murderer’s Row è il soprannome attribuito ad una delle squadre di baseball più forti della storia, i New York Yankees degli anni Venti. Forse della loro leggenda era consapevole un cittadino della Grande Mela come Bob, che ha voluto così battezzare l’ultimo supergruppo da lui creato. Assolutamente da non confondere con la banda punk dallo stesso nome, responsabile dell’album “The Bully Breed” del 2010.
I “nostri” M’sR riunivano invece attorno a Bob, il vocalist David Glen Eisley ed il bassista Chuck Wright (di entrambi abbiamo diffusamente parlato nell’articolo sui Giuffria/House Of Lords); inoltre il tastierista Jimmy Waldo, reduce dai Blackthorne ed il drummer Jay Schellen (Hurricane, Asia).
L’unico album, uscito in Germania su etichetta A2Z-Milestone, esibisce le interpretazioni più aggressive di Eisley, che si adatta alla forza d’urto di “Blood On Fire” e al clima elettro-acustico di “Red Rain’ Fallin”, cantando con un timbro esacerbato più affine a Blackie Lawless che allo stile melodico dei Giuffria. Ancora una volta Waldo deve rinunciare ai suoi trascorsi pomp-rock per adattarsi al clima decisamente heavy del disco. I brani più differenziati sono “India”, con il dirompente drumming di Schellen che guida l’offensiva, caratterizzata dai policromi interventi di Kulick al sitar, e “Raven’s Eye”, dal cupo arrangiamento simili-orchestrale.
“Murderer’s Row ” è stato oggetto di ristampa de luxe estesa a 2 CD nel 2018 (H.N.E./Cherry Red) con aggiunta una versione alternativa dell’intero album.
Kulick ed Eisley hanno collaborato insieme anche nel singolo “Sweet Victory”, stavolta più incline all’AOR, incluso nella compilation “SpongeBob…The Yellow Album”, del 2005.
In For The Count, il disco AOR perfetto: title-track da Olimpo del genere. Ciao Beppe.
Negli anni 80 era un cult-classic. Oggi quanti se lo ricordano? Ciao…
Artista colpevolmente messo in secondo piano dalla stampa musicale (look?) che non solo ha lavorato con artisti di livello stellare ma che ha contribuito a rendere immortale uno degli album che più ho amato in gioventu’: The Crimson Idol.
Ciao Beppe
L’immagine di un gruppo o di un artista può fare la loro fortuna oppure nuocere. Spesso comunque divide il pubblico a riguardo. Ad esempio chi a suo tempo aveva liquidato i WASP come un gruppo dal look trasgressivo e…basta, può non aver considerato le qualità che stavano alla base di loro dischi più curati, da “The Headless Children” a “The Crimson Idol”. Ciao Andrea
Bravo Beppe. Puntuale e preciso da sempre, non hai perso la voglia di muoverti “Behind Enemy Lines” per riportare in superficie piccoli tesori e artisti che, pur valorosi, hanno sempre dovuto galleggiare ai confini dell’anonimato. Penso che il buon Bob seduto sulla sua nuvoletta nel paradiso degli eroi del rock più fulgido e scintillante avrà certamente gradito.
Tiziano, amico mio, abbiamo condiviso anni di divertimento, non solo sulle pagine di Rockerilla e Metal Shock, ed è un piacere risentirti. Il tuo pensiero un pò mi conforta dopo la delusione che puoi immaginare subita in campo extra-musicale, ma purtroppo ci siamo abituati. Ciao, a presto.
Finalmente il maestro torna a parlare di AOR,anche se purtroppo,per un’occasione così triste.
Bella retrospettiva
Ciao, vedrai che tornerò presto a parlare di AOR anche senza occasioni di questo tipo. Se vuoi, puoi seguire il blog…grazie
Volentieri.Rock on!
Enorme plauso a Beppe per aver ricordato ed omaggiato in tal misura un personaggio considerato ” minore” solo da quelli che di rock han forse solo il giubbotto di pelle! Un artista che ha percorso musicalmente oltre mezzo secolo sempre con grande dignità e professionalità a differenza di molte rockstar più reclamizzate. Dubito che il buon Bob abbia mai avuto tanto spazio dedicatogli in un report come son pronto a scommettere che nessun magazine/blog avrebbe concesso ad un autore tante cartelle per un artista di questo rango, al massimo menzionare telegraficamente il suo necrologio!!! Tornando a parlare di musica, perfettamente d’accordo con Beppe riguardo a Balance IFTC e Skull quali picchi artistici della sua lunga e meritoria carriera. PS Thanks per i complimenti, Beppe!!!
“Principe” Enrico, ci accorgiamo con piacere, visti alcuni commenti, che un artista da culto come Bob Kulick ha i suoi estimatori fra chi non frequenta la storia del rock dall’altro ieri! Penso che in Italia ci sia da sempre una tradizione di appassionati (di ogni genere, fin dall’era prog) attenti anche ai nomi meno chiacchierati. Grazie per aver sottolineato il concetto, ciao.
ciao Beppe,
sottoscrivo ancora una volta entusiasmo e complimenti, come è ovvio che sia. ma aggiungo un ricordo ( benchè un po’ sbiadito) di un’intervista al protagonista dell’articolo in diretta radio sulla nostra Rock FM, fatta da un collega…
un abbraccio circolare
M
Ciao Mox, ben sappiamo cosa ha rappresentato la milanese Rock FM, che hai giustamente celebrato nel tuo bel libro “Radio Days-Storie di Rock FM” (Tsunami Ed.). Non pensavo che fra i numerosi ospiti di rilievo ci fosse anche Bob Kulick. Sarebbe stato interessante ascoltarlo per coglierne la personalità…Immagino chi sia il “Collega”. Siccome non lo citi esplicitamente, non lo faccio a mia volta, ma sono sicuro che il chitarrista era finito in buone mani. Un caro saluto
Bravo Beppe e complimenti per l’articolo/tributo fiume davvero kool(ick) dedicato al leggendario Kranio baffuto! Non lo dico sull’onda della commozione, ma il talentuoso in famiglia per me era davvero lui, il fratello l’ho sempre trovato competente ma un po’ troppo anonimo, anche se fu oltremodo baciato dalla fortuna. Un po’ come il pennellone Vandenberg insomma…
Pensavo volessi trattare solo il mitico capolavoro dei Balance e invece ti sei sbattuto per approfondire altre sue avventure, conosciute poco o nulla, chapeau… Forse non dei capolavori assoluti i suoi progetti assieme ad altre stelle (cadenti?) degli anni 90, ma vista la penuria di proposte contemporanee in ambito rock ci sta eccome riapprofondirle, oltretutto senza svenarsi oggi grazie alle molte ristampe e ai CD mai stati così economici nella storia dell’uomo moderno. Meno male! Torno ad occuparmi della fattoria di Bethel…
Ciao Max, concordo decisamente con la tua analisi, come immagino si deduca dall’articolo. Scriverlo è stato impegnativo per le ragioni che hai detto, ma in fondo quando un argomento è stimolante e poco sfruttato, val la pena occuparsene decentemente, anche se non susciterà l’interesse di tanti. Ti ringrazio e a presto
Ottima retrospettiva su questo grande chitarrista, rimasto sempre ai margini del grande successo. Anch’io come tanti, lo conosco principalmente per gli album dei Balance, che sono solo uno dei tanti misteri del music business, è infatti inspiegabile il perché un album come “In for the count” non abbia avuto il successo che meritava, salvo poi essere celebrato tardivamente come capolavoro del genere AOR.
Ci rimane la sua splendida musica, che continuerà ad accompagnarci in questo mondo che corre sempre troppo veloce….. Slow Motion…..🙂
Oh Marcello, alla fine per chi si dedica da tanti anni alla musica rock, che palle ascoltare quello che piace praticamente a tutti. Ogni tanto si rischia la saturazione, anche se il prodotto è di buonissimo livello. Che senso della scoperta c’é? Ai tempi di Rockerilla, mi ripresero perché scrissi qualcosa di politicamente scorretto, ossia che non mi piaceva condividere le mie passioni con troppi. E’ un pò l’ostinazione sull’artista o sul gruppo da culto; difficilmente ci stancherà. Sicuramente non ci farà sbottare dicendo: ancora quello, bastaaa…Spiace per i musicisti che ci hanno provato invano e meritavano di più, questo si. Bye!
Grande e giusto tributo ad un artista tutt’altro che secondario della scena melodica internazionale. R.I.P.
Non è una scelta molto “popolare” quella di spendersi con articoli impegnativi nella preparazione, dedicati ad artisti che non sono di grande richiamo. Però è un modo per diversificare, producendo qualcosa di non scontato e altrettanto sicuramente sentito. L’importante è che ci sia qualche lettore come te (o meglio, TEX!) che approva. Grazie e ciao
Beppe, continua sempre con queste scelte non popolari, almeno per almeno la metà dei tuoi contributi. Essenziale.
Grazie di Cuore per essere tornato sulla scena e per i tuoi contributi …. mi sento un po’ meno solo ora ….
Ci provo Fabio. I miei ringraziamenti vanno a voi che leggete e ci date il vostro supporto, altrimenti le nostre “elucubrazioni” non avrebbero ragione di esistere. Ciao!
Personaggio di secondo piano da un punto di vista mediatico nel panorama musicale, ma personalmente lo ritengo di livello superiore. Basta ascoltarsi ‘in for the count’ by Balance per rimanerne folgorati, album spaziale che deve essere tassativamente presente nelle discografie degli amanti del rock melodico. Mi piace ricordarlo così . Può sembrare riduttivo rapportandolo ai tantissimi lavori a cui ha partecipato, ma penso che il top sia proprio quel lavoro. RIP.
Si Luca. Sicuramente “In For The Count” è un album da culto per tutti gli appassionati del rock melodico e conserva quell’aura speciale che gli hai riconosciuto anche tu e che si evidenzia nell’articolo. Quanto scritto è un invito a riscoprire la lunga e significativa carriera di Kulick, “all’ombra” di tante rockstar per cui ha suonato, ma anche e soprattutto con i gruppi da lui guidati. Grazie e a presto.