1970 e dintorni: Eruzione americana
L’enorme risonanza del triumvirato storico dell’hard inglese (Led Zeppelin-Deep Purple-Black Sabbath) può aver messo in ombra il contemporaneo rock duro americano, ma sarebbe errato pensare a quest’ultimo come ad un avvenimento derivativo. Vero è che la british invasion degli anni ’60 esercitò per definizione un cruciale impatto sulla scena americana e che gruppi come i Cream e Jimi Hendrix Experience (esplosi in Inghilterra) gettarono le saccheggiate basi di innumerevoli formazioni ultra-elettriche…Ma il Rock & Roll ed il Blues erano fenomeni inconfutabilmente americani, senza i quali i più famosi hitmaker della rivoluzione pop d’Oltremanica non avrebbero avuto ragione d’esistere.
Inoltre, gli States vantavano una tradizione largamente autonoma anche nell’ambito del “suono pesante”. Nel 1968, i californiani Iron Butterfly conquistavano un fragoroso successo con “In-A-Gadda-Da-Vida”, nonostante l’Atlantic avesse osteggiato la title-track che occupava un’intera facciata con i suoi 17 minuti. Prima di virare in lisergiche infatuazioni acid-rock, “IAGDV” era scolpita su un tenebroso riff sul quale si stagliava l’inquietante voce di Doug Ingle. Sicuramente un pre-allarme di tempi duri, anche se molti esperti riconoscono in un altro album del ’68, “Vincebus Eruptum” dei Blue Cheer, non solo il lato oscuro del movimento hippy di San Francisco, ma pure ”IL” prototipo per antonomasia dell’heavy metal e dello stoner rock.
I più affermati prime-movers del rock duro a stelle e strisce erano però i Grand Funk Railroad, che fra il 1969 ed il 1970 avevano già realizzato tre album (“On Time”, “Grand Funk” e “Closer To Home”) riempiendo le arene e contendendo ai Sabbath il titolo di “campioni di rumorosità”. Il trio di Mark Farner proveniva dalla provincia del Michigan, ma l’epicentro era Detroit, la Motor City, culla pericolosa (anche per l’elevato tasso di criminalità) di ogni durezza sonika americana. Da lì si ergevano le sventagliate metalliche di uno dei più grandi album live di ogni tempo, “Kick Out The Jams” degli MC 5, e l’ossessività frastornante degli Stooges (entrambi gli album d’esordio del ’69); era inoltre palestra d’esercitazione del giovane Ted Nugent con gli Amboy Dukes, ben prima del suo immane esordio solista del 1975. Come se non bastasse, a Detroit nasceva anche il pioniere dello shock-rock e di ogni perversa deviazione glam, Mr. Alice Cooper, al debutto nel ’69 con “Pretties For You”, per la Straight Records di Frank Zappa.
Nel 1970 anche gli USA aprivano i battenti al dilagante hard rock dei Seventies: esordivano i Bloodrock, i Mountain di “Climbing!”, e fra le formazioni cult Sir Lord Baltimore, che con l’attuale antologia “Complete Recordings” (3 CD H.N.E.- Cherry Red), hanno riconquistato legittimo spazio sulle riviste specializzate.
L’anno dopo era la volta dei Blue Oyster Cult, grandi “atipici” dai risvolti intellettuali. Precedevano altri nomi altisonanti, tutti al debutto fra il 1973 (Aerosmith, Montrose, New York Dolls) e l’inizio del ’74 (Kiss). A questo punto, l’orda hard’n’heavy di maggior fama era sguinzagliata in America e così si giungeva alle soglie della seconda metà anni ’70.
Dal 1975 in poi, toccherà ad una nuova ondata di successori, assai meno fortunati ma di rilevante qualità, di cui ci siamo già occupati nell’articolo sulla “Lost Generation” dell’hard rock nordamericano.
Com’è ormai abitudine, concentriamoci nel tracciare il profilo di gruppi U.S.A. d’inizio seventies, finiti purtroppo nel novero dei “perdenti”.
Stavolta i prescelti, anche per differente declinazione stilistica, sono: Dust, Nitzinger, Granicus!
DUST...Polvere da sparo!
Per qualunque appassionato heavy rock che si rispetti, riascoltare i Dust è ancora un’esperienza esaltante. il loro secondo album “Hard Attack” resta un termine di paragone per illustrare il concetto di power-trio, che questi musicisti di Brooklyn incarnarono alla perfezione.
Nella loro miglior forma espressiva, manifestarono un magistrale equilibrio fra deflagrazioni di dinamite proto-metallica e sognanti excursus melodici, talvolta di cristallina purezza acustica.
Apparvero improvvisamente sulle scene nel 1969; nessuno dei tre musicisti aveva un passato di rilievo, ma tutti daranno prova di valore anche dopo lo scioglimento: il chitarrista Richie Wise, che già arrangiava, produceva e componeva la maggior parte dei brani dei Dust con Kenny Kerner, preferirà immolarsi a questo sodalizio: Wise & Kerner si affermeranno come produttori dei primi due albums dei Kiss, “Kiss” e “Hotter Than Hell” (1974) ed addirittura di James Brown. Kenny Aaronson si costruirà una solida reputazione di bassista; farà parte degli Stories, meteore del singolo “Louie Louie”, al primo posto in classifica. Eccolo poi al servizio di Derringer, Foghat, Billy Squier e molti altri, giungendo alla convocazione nel supergruppo HSAS, con Sammy Hagar (Montrose, Van Halen), Neil Schon (Santana, Journey) e Mike Shrieve (Santana), per l’unico album “Through The Fire” (1984). Nel 2015 si cimenterà persino con The Yardbirds. Infine il drummer Marc Bell: dopo aver inciso con i misconosciuti Estus (CBS, 1973) si faceva notare con i Voidoids di Richard Hell, suonando in un album-manifesto della new wave, “Blank Generation”. Poi diventerà Marky Ramone nella seminale punk band dei “falsi fratelli”: oggi, dopo la morte di Joey, Dee Dee, Johnny e Tommy (che sostituì nel ’78), resta il più autorevole testimone di quella leggendaria avventura.
L’omonimo debut-album “Dust” esce nel 1971 su etichetta Kama Sutra, e si presenta con una foto di copertina particolarmente macabra, tratta dagli “Archivi delle Catacombe” (ritrae i cadaveri mummificati del Museo dei Cappuccini di Palermo), ma l’approccio musicale non ha nulla a che fare con il dark sound; si tratta di rock elettrico ad alta tensione eseguito da una tipica formazione triangolare ancora alla ricerca della sua compiuta maturità espressiva.
Subito in evidenza la voce passionale di Richie Wise, accompagnata in “Stone Woman” e “Goin’ Easy” dalla steel guitar di Aaronson, capace di squarci aggressivi, insospettabili per tale strumento.
La solista fiammeggiante di Wise decolla in “Love Me Hard” e nella strumentale “Loose Goose”, dove il trio sperimenta quei fraseggi tempestosi, esaltati da breaks che rinfocolano il ritmo, tipici del loro miglior linguaggio musicale. Dust non disdegnano il gusto della ballata (“Often Shadow Left”) e soprattutto l’alternanza fra componenti hard & soft, nella maratona di “From A Dry Camel”, una dimostrazione di forza nell’arco di dieci minuti, che annuncia le mirabilie del disco successivo.
Se “Dust” è infatti un buonissimo biglietto da visita, è il secondo LP che cattura tutta l’esplosiva energia dei musicisti. “Hard Attack” (Kama Sutra, 1972) già annuncia sconquassi dall’illustrazione di copertina, una delle prime di Frank Frazetta, rinomato artista fantasy, che in ambito rock presterà la sua opera ai Molly Hatchet; il brano inaugurale, “Pull Away/So Many Times” concentra in sé tutte le qualità del power-trio. Dopo un ispirato prologo acustico, Marc Bell suona la carica con un ritmo torrenziale, scandito da stacchi e riprese (molto diverso dai modi espressivi che i più conosceranno con i Ramones); Aaronson è in possesso di uno stile virtuosistico, e Richie Wise, oltre ad essere uno dei più aggressivi chitarristi dell’epoca, è dotato di una voce potente e ricca di feeling, ideale nel conferire ai brani una precisa identità melodica. Lo dimostrano le interpretazioni di “Walk In The Soft Rain”, un altro vertice elettro-acustico, e “Thusly Spoken”, addirittura con arrangiamento orchestrale, dove la laringe di Richie anticipa l’indimenticabile Frank Dimino degli Angel.
Gli assoluti archetipi heavy metal sono invece “Learning To Die” e “Suicide”, dalle tematiche parimenti funeste, dove i Dust mettono a punto le loro “crocifissioni” soniche dal micidiale impatto, figurazioni ritmiche crepitanti sulle quali si libra in volo la chitarra distorta di Wise. C’è anche un episodio dichiaratamente country, “How Many Horses”; qui Aaronson sfoggia per l’ultima volta la sua abilità alla steel guitar.
Se con “Hard Attack” le ambizioni dei Dust finiscono senza gloria, il trio conclude l’assalto allo zenit delle sue risorse espressive.
Ristampe selezionate
Le prime ristampe sono delle tedesche Line (in vinile, fuori catalogo) e Repertoire (CD, 1989).
L’Akarma ha riedito entrambi gli album nel 2004, sia in vinile che in CD.
La Repertoire li ha poi riproposti nel 2008 in CD con mini-replica delle copertine originali (paper sleeve).
Infine, nel 2013, ufficiale ristampa Legacy/Kama Sutra rimasterizzata in unico CD di “Hard Attack/Dust”. Esiste anche la versione in doppio LP limitato/numerato.
In nessun caso sono presenti bonus-tracks.
NITZINGER: Texas Electric Ranger
L’apparizione di John Nitzinger, enfant prodige del rock texano, avviene quando è solo quattordicenne e realizza quattro singoli in un solo anno (1965) suonando con una garage-band, The Barons. Il suo nome acquista maggior rilievo agli albori dei seventies, poiché accostato ai Bloodrock, formazione di Fort Worth diretta da Terry Knight, il manager dei Grand Funk convinto di aver scoperto un gruppo altrettanto heavy, ma con una peculiare impronta acid-rock. I Bloodrock irrompono sul mercato discografico nel 1970 con l’omonimo album per la Capitol, e Nizinger offre un grosso contributo alla causa, scrivendo brani su invito del loro cantante Jim Rutledge. Si riafferma da compositore in “Bloodrock 2” e sul terzo, è coautore di “Breach Of Lease”, un assoluto, inquietante classico heavy-psych.
Probabilmente la collaborazione con la band texana gli vale il contratto per la stessa Capitol, che pubblica due LP fra il 1971 ed il ’72, “Nitzinger” e “One Foot In History”, entrambi prodotti dallo stesso Rutledge, che gli restituisce il favore…
La line-up dell’opera prima è semplicemente triangolare: John è affiancato dal bassista Curly Benton e da Linda Waring, sicuramente una delle prime batteriste della storia.
Il debut-album omonimo, corredato da un’iconica copertina textured nera sulla quale luccica il nome dell’artista, è un sanguigno saggio di rock chitarristico dell’epoca, che ostenta le sue radici southern-blues, con la solista in grande evidenza, specialmente in “Ticklelick”, “Witness To The Truth” e nella tagliente “My Last Goodbye”. I brani più trascinanti sono “Louisiana Cock Fight”, affine ai focosi Black Oak Arkansas, e “Hero Of The War”, eccellente hard rock melodico.
Nel ’72 Nitzinger figurano nel cast di Mar Y Sol, un famoso festival tenuto in Portorico (con ELP, Allman Bros e Mahavishnu Orchestra), immortalato su doppio LP Atlantic.
La torrida versione di “Texas Blues/Jelly Roll” ivi inclusa appare anche nella riedizione Akarma del secondo album “One Foot In History”.
L’innesto di un altro magistrale chitarrista del Texas, Bugs Henderson, con uno stile di scuola Duane Allman, contribuisce a rendere più sofisticato il suddetto LP (ad esempio nella vena jazzy di “Motherlode”), senza restringere il raggio d’azione della veemente solista del leader, come si evince da “God Bless The Pervert”, “Let The Living Grow” e nell’assatanato boogie “The Cripple Gnat Bounce”. La title-track e “Uncle John” sottolineano un approccio più maturo con calibrati arrangiamenti orchestrali, che ben contribuiscono all’atmosfera melodica. Da notare anche la copertina, una replica dell’opera prima con la variante dello sfondo azzurro.
Ma bisogna attendere il 1976 perché il nome di Nitzinger torni d’attualità; con una band totalmente rifondata, il chitarrista licenzia il terzo album “Live Better Electrically” su 20th Century Records, considerato il suo migliore dai fans dell’hard rock yankee con un taglio più commerciale. John sembra infatti risentire dello straripante successo americano di Aerosmith e Ted Nugent. “Control” anticipa di circa un anno il riff del Motor City Madman di “Cat Scratch Fever”; “Are You With Me” riecheggia il crossover funky-hard rock degli Aerosmith di “Walk This Way”, ma anche stavolta, l’arrangiamento dei fiati sembra preconizzare la futura “Rag Doll”. La title-track è un anthem accattivante, ma affiora anche qualche episodio manierato, come “Vagabond”, che pecca di sovrarrangiamento.
Esaurito il ciclo “solo”, Nitzinger stringe alleanza nel ’78 con Carl Palmer nei PM, mentre nello stesso anno l’ex-compagno Bugs Henderson (che ha suonato con John anche nel raro album dei Thunder, 1974) avvia una sua carriera solista con l’LP “At Last”. L’esordio dei PM, “1 PM” (1980) non riscuote alcun successo, così “The Nitz” decide di unirsi alla band di Alice Cooper, in “Zipper Catches Skin” (1982). Dopodiché si allontana dall’empireo del grande business discografico, senza per questo rinunciare alla sua viscerale passione per il rock’n’roll.
Infatti nel 1997 ritorna ad incidere dischi a livello indipendente. Da sottolineare la riunione con il vocalist Jim Rutledge, a nome “Bloodrock 2013” e nello stesso anno, il CD “Revenge” con il primo cantante degli AC/DC, Dave Evans.
Ristampe selezionate
Non meraviglia che Nitzinger abbia suscitato l’interesse “celebrativo” dell’Akarma, che nel 2001 ha realizzato un esaustivo Box Set di 3 CD dal semplicistico titolo “John In The Box”: riunisce i tre album che ne hanno contrassegnato l’iter musicale negli anni 70, con l’inclusione di bonus-tracks, prevalentemente tratte dal suo rientro discografico alle soglie del 2000, “Going Back To Texas”: uscito su etichetta svedese Record Heaven, raccoglie materiale inedito dal ‘71 al ’99, e rinnovate versioni di classici quali “Louisiana Cock Fight” e “Jellyroll Blues”. Il tutto, autorizzato dal leggendario “The Nitz”.
Fra le numerose tracce aggiuntive, si segnala anche la divertente “Rap Is Crap”, che riflette l’opinione di molti rockers classici; si badi bene che John è sempre stato influenzato dal blues dei maestri di colore, e canta lo stesso brano con robusta voce “nera”. Invece il riff di un’altra bonus, “King’x”, assomiglia in modo sorprendente a “Cities On Flame” dei Blue Oyster Cult.
Fattore ormai ricorrente, i CD sono ospitati da riproduzioni in miniatura delle originali copertine, ed ognuno dei tre album è disponibile anche in vinile.
Dei primi due, esistono versioni precedenti in CD su Buy Or Die (rispettivamente del ’95 e ’99). Infine, viene segnalata una più recente ristampa CD di “Live Better Electrically” (Hifly Sound, 2015).
GRANICUS, il Martello di un Dio Minore
Ogni appassionato e collezionista di rock ha le sue inevitabili manie; un’opzione è subire il fascino dei grandi solitari, come insisto nel definire album “senza seguito”, di gruppi che all’epoca non hanno avuto la chance di andar oltre il debutto. Qualcuno sostiene che ad imporsi sono sempre i migliori, ma mi trovo in parziale disaccordo…Se ad esempio i Rush, dopo il primo ed ancora acerbo 33 giri, non avessero firmato il contratto Mercury e fossero scomparsi, li ricorderemmo come il gruppo di stupefacente versatilità che è passato alla storia? Improbabile. Cerchiamo dunque di apprezzare almeno a posteriori tanti condannati al destino di losers.
L’omonimo ed isolato LP dei Granicus è uscito per la RCA nel 1973, un anno di esordi cruciale per le sorti della scena hard’n’heavy americana, come specificato nell’intro/eruzione.
Ha ricevuto menzioni di merito in vari “testi sacri” del rock duro; addirittura l’autore francese di un’enciclopedia dell’hard dei Seventies, si è esposto al punto di dichiararli in tale ambito fra i più grandi gruppi del decennio.
Al di là di iperboli personali, tipiche dei ricercatori più appassionati, “Granicus” è veramente un disco superbo, l’anello di congiunzione mancante fra i Led Zeppelin e certo rock metallico che riflette l’ansia e la nevrosi della vita metropolitana. Qualcuno ricorda la definizione di “rock urbano”, attribuita verso la metà anni ’70 alle sonorità (spesso distanti dai più gotici inglesi), dei primi Aerosmith e Blue Oyster Cult? E’ certamente una sfaccettatura del formidabile impatto di questa polverosa gemma, che a distanza di tanti anni nulla ha perso della sua brillantezza.
Granicus provenivano da Cleveland, Ohio, a cui dedicavano anche il titolo di un impulsivo brano, ed avevano in Woody Leffel il potenziale Robert Plant americano, un cantante in possesso di incredibile estensione vocale, eppure pressoché sconosciuto. Per rivalutarne le sbalorditive virtù, ascoltate il crescendo melodico della pièce de résistance di undici minuti, “Prayer”: almeno nel finale parossistico, può rappresentare per i Granicus l’equivalente di “Child In Time” dei Deep Purple.
L’inno più immediato & tirato è invece “You’re In America”, che già presagisce un tema più che mai d’attualità, ossia il crollo del sogno americano. La musica, dotata di un rampante tono Zeppeliniano grazie all’urlo smisurato di Leiffel, è spronata da riffs febbrili, che sembrano figli della Detroit di quei tempi.
In “When You’re Movin”, un brano esplicitamente sessuale, il frontman dei Granicus recita una parte tipica di personaggi alla Coverdale (“…plant my love in you babe”) che i cantanti di oggi si vergognano a riproporre. E se “Twilight” è un’acustica delizia strumentale, sottolineata dalla sfuggente apparizione del mellotron e dunque dall’afflato progressive, “Nightmare” e “Paradise” sono prolungate apoteosi che affermano le profonde radici blues e rock’n’roll del quintetto: sugli scudi l’eclettico, vertiginoso tandem di chitarre “duellanti” (la solista di Wayne Anderson e l’incalzante ritmica di Al Pinell).
“Paradise” promulgava anche un messaggio positivo ed ottimistico, invocando “la salvezza spirituale e politica (!)” attraverso la musica rock.
Nonostante questo exploit, i Granicus spariscono rapidamente dalle scene, finché una ristampa CD illegale dell’album (1997) ridesta attenzione attorno al loro nome, con vendite incoraggianti dovute alla crescente fama cult di cui si diceva in apertura.
Decidono così di rifondarsi con i membri originali Pinell, Battaglia e Bedford. Purtroppo il carismatico Leffel decide di non partecipare al nuovo album autoprodotto “Granicus III, Better Days” (2016),che esce dopo un’antologia di inediti(vedi ristampe).
Ma tornando all’originale, abbiate fede ed inserite “Granicus” nei files delle storiche riscoperte!
Ristampe selezionate
La prima versione CD “incriminata” è quella su Free Records (forse un’allusione alla sua natura non ufficiale?) del 1997. Seguono altri bootleg, ma risulta che la RCA abbia riedito ufficialmente l’LP in vinile nel 2010 ed anche cinque anni dopo.
“Thieves, Liars And Traitors” (CD) è la raccolta di inediti registrati prima dello scioglimento nel 1974, licenziata dal gruppo stesso nel 2010.
Gran bell’ articolo Beppe, come sempre. Premetto che conosco solo i Dust in particolare hard attack. Che ricordo acquistai piu’ per la copertina , ma fortunatamente l’ ascolto fu’ fulminante, riff taglienti e melodie orchestrali che mix. Citi i Sir Lord Baltimore mamma mia che bello Kingdome came, ma forse potremo citare anche gli Ursa Major e Wizard. Forse la lista di band perdenti e’ infinita ma e’ bellissimo che vengano fuori dalla polvere suoni così belli, forti e per me sempre freschi. Andro’ alla ricerca dei Granicus che mi hai fatto venire una voglia matta di ascoltarli.
Grazie Giorgio, citi anche gli Ursa Major che erano un gran gruppo, guidato dal leggendario, scomparso chitarrista Dick Wagner, già nei Frost, poi divenuto famoso nei ’70 al fianco di Lou Reed, Alice Cooper ed altre celebrità. Purtroppo gli anni passano ed il ricordo di tanti basilari heavy rockers sbiadisce nel tempo, potenziali ascoltatori di buona volontà non li hanno mai sentiti nominare…Facciamo qualcosa per recuperare il loro elevato contributo storico. Ciao
Ottimo Beppe, continua così che Ti seguiamo compatti nei deliziosi meandri del rock meno conosciuto!
Non credere che siamo in pochi; Domenica ero a Venezia all’Arsenale ed ho incontrato per caso un fan degli Steppenwolf con cui mi sono trattenuto in interessante conversazione su vita ed opere di John Kay.
Adesso sto ascoltando sul Tubo il secondo Nitzinger e poi passo a Live at Leeds dei Groundhogs.
Grazie Baccio. A parte che mi sorprende piacevolmente l’incontro fra appassionati che parlano degli Steppenwolf nel 2020, è gratificante contare su lettori seri, preparati, che privilegiano l’interesse per il rock (anche nelle forme meno propagandate) senza toni supponenti né ironie del cazzo. Per fortuna ci siete. Ciao!
Come sempre un grande articolo sulle band dimenticate di questo grande periodo storico con novizia di particolari e l’ottima sezione delle ristampe selezionate (trovare oggi gli originali è impresa davvero ardua). Adoro i Dust e considero i Granicus (non solo loro sia chiaro) padri di un certio Stoner rock poi negli anni fiorito a dismisura e spero prima o poi in una ristampa in cd ufficiale e degna. Ammetto di aver sempre lasciato in secondo piano i Nitzinger, ottima occasione quindi per rispolverare il loro sound. Grazie Beppe, come sempre un gran lavoro 😉
Grazie Tex, anche per l’attenzione che riservi ai gruppi meno conosciuti. Le ristampe selezionate sono a mio avviso un utile strumento per districarsi nel marasma delle proposte anche bootleg (ne ho acquistate anch’io, in mancanza di meglio). Il panorama è comunque in costante evoluzione. A presto
Ciao Beppe. Molto belli questi post dedicati a gruppi “minori” o dimenticati. Sempre accurati ed evocativi, magistralmente scritti. Mi riporta a quando leggevo con avidità la tua rubrica “Shock Relics” per poi mettermi alla ricerca, spesso piuttosto difficile per i tempi, dei dischi che ritenevo più interessanti. Mi hai fatto scoprire tanti ottimi dischi. Di questo terzetto i miei preferiti sono i Dust, fantastico power trio! Ottimi anche i Granicus.
Ammetto di non conoscere Nitzinger, per mia esperienza i più ostici da reperire. A proposito ottima le sezione che adesso dedichi alle ristampe .
Bloodrock , qui solo accennati , che band ! Un’altra tua dritta… Grazie.
Ciao Ale. Trovo scontato che dedicarmi a gruppi minori non riscuota numerosi consensi, però lo ritengo stimolante e spero che nelle ampie opportunità offerte dalla rete, ci sia spazio anche per proposte di questo genere. Lo spirito è proprio quello, ormai preistorico, di Shock Relics. Hai colto perfettamente nel segno e me ne compiaccio. Invece è abbastanza sorprendente che nessuno ricordi Nitzinger, da vari “storici” giudicato artista leggendario…In ogni caso, tante grazie a voi che leggete. Auguro a tutti un buon weekend di Ferragosto, magari un po’ rock!
Sono tra quelli che credono che ad imporsi siano sempre i migliori. Che però non necessariamente significa i migliori a livello (esclusivamente) musicale. Il discorso sarebbe ampio e si potrebbero portare diversi esempi. C’è poi naturalmente anche una componente di caso (o fortuna, se preferiamo…)
Potremmo dire che a parità di condizioni di partenza si affermano i migliori.
Giacobazzi ciao. La mia intenzione non è certo quella di ribaltare le gerarchie, sarebbe una pretesa illogica. Semplicemente cerco di rendere giustizia, seppur in un ambito ristretto, a chi forse non ne ha avuta rispetto ai suoi meriti.
Ciao Beppe. Sì certo, la tua intenzione era chiara. Ed è anche comprensibile, specie per un ascoltatore giovane, il desiderio di aprirsi ulteriori orizzonti “minori” dopo aver esplorato i classici di un genere. Dopo aver ascoltato bene i Maiden ci sta che uno voglia conoscere anche i Ruffians…
Il mio discorso voleva semplicemente significare che l’appassionato, a fronte di certi dischi, a volte si meraviglia che il tal gruppo non abbia avuto successo. E da lì quel “Avrebbero meritato di più” che a ognuno di noi qualche volta è partito… Però è evidente che non bastano abilità compositive e interpretative per ottenere un riconoscimento. Bisogna anche essere in grado di gestire dinamiche psicologiche, singole o di gruppo; necessita un buon manager, o in alternativa la capacità di relazionarsi positivamente con stampa, promoter, etichette etc; bisogna riuscire a dare continuità al proprio operato (quanti dopo un esordio che faceva ben sperare sono crollati); fondamentale trovarsi al posto giusto nel momento giusto: a Londra nel ‘67 c’era un ambiente, a Catanzaro dieci anni dopo un’altro…
Il tuo articolo mi stimola anche un’ulteriore riflessione: tra i big e i gruppi di culto rimane un limbo in cui navigano formazioni non certo sconosciute, in qualche caso anche con una discografia corposa, ma cui è sfuggito il successo vero e proprio. Ad esempio, a chi dai Cream volesse passare ai Black Cat Bones io consiglierei di provare a far tappa dai Savoy Brown… tu che dici?
Ciao Giacobazzi. Certo, It’s A Long Way To The Top…e tu hai ben descritto i passaggi che rendono spesso improba la strada verso il successo. Giusto, con questo però non bisogna esser così “sordi” (non mi sto rivolgendo a te, ovviamente) da riconoscere il talento solo nelle celebrità: troppo facile e troppo comodo. Né mi sembrano particolarmente illuminate certe diagnosi che concludono: “sì, mi ricordano i Led Zeppelin (o i Black Sabbath) allora tanto vale dedicarsi totalmente agli originali”. Credo che ci voglia un po’ di spirito d’avventura, di desiderio d’allargare le proprie conoscenze, senza necessariamente essere onnivori. Interessante il tuo spunto sulle “terre di mezzo”, ossia su quei gruppi che si sono fermati quasi alle soglie di un successo ragguardevole, senza però finire nell’anonimato, e comunque con una significativa carriera. Degli Spooky Tooth ricordo con particolare rispetto “Spooky Two”, che includeva una maliosa “Evil Woman”, solo omonima di quella del primo Sabbath, nonché l’originale “Better By You, Better Than Me”, ripresa con successo dai Judas Priest nel classico “Stained Class”. Ed in tema di “Scuola Cream”, ti pregherei di considerare quei fantastici Chicken Shack di “Imagination Lady” (dei quali ho scritto negli “Short Talks”). Dulcis in fundo, come non celebrare gli indimenticabili Groundhogs di Tony McPhee, non solo per il 50° anniversario del terzo album “Thank Christ For The Bomb” (maggio 1970, credo…), ma anche ricordando il loro “Live At Leeds”, che davvero aveva ben poco da invidiare all’assai più celebre classico degli Who. Ah, ci sono ricascato…Mancanza di rispetto per le Divinità? Provate ad ascoltare quel Live dei Groundhogs e ne riparleremo…
Ciao Beppe, credimi che oggi mi sono messo ad ascoltare qualcosa ed ho fatto un refresh al vostro blog. Bene, il primo gruppo che ho ascoltato sono stati i dedalus (un po’ troppo jazzy per i miei gusti), ed il secondo sono stai proprio i granicus. Pensa la casualità o il fato. Ora sono al secondo ascolto ed è proprio un bel hard muscolare, energico con tuttavia spunti soft molto eleganti . La voce subito mi ha fatto ricordare forse Lanny wolf, che è come dire in effetti Robert plant :). Quando invece va molto su nei toni acuti mi ha ricordato il primo e più epico, geddy Lee. Quindi per una volta i miei recuperi dal passato combaciano con i tuoi. Per quanto riguarda i dust, ho avuto modo di apprezzarli tempo fa. Nitzinger al momento non pervenuto. Ok, vado avanti con l’ascolto. Alla prossima.
Ciao Gianluca, mi fa piacere che tu apprezzi i Granicus perché certamente avevano qualità per emergere. Probabilmente non l’immagine giusta, che può averli penalizzati. Ogni tanto le coincidenze capitano!