Quando il sogno americano risorge da poche vecchie immagini
Ci sono occasioni in cui riflettere sulla nostra musica, ci porta lontano. Molto di più di quanto vorremmo o spereremmo di fare se solo scegliessimo di intraprendere una riflessione comune su un argomento importante, condiviso, insieme ad amici fidati.
A me, sarà l’età, saranno le situazioni, accade sempre più spesso quando sono solo, quando, anche occasionalmente, mi metto a seguire il filo di un ragionamento, talvolta vago, illogico e privo di un suo scopo preciso. Mi accade quando guido e ascolto la mia musica da solo, mentre mi scorre la strada sotto al sedere…un po’ come nell’ Illogica Allegria di Gaber, oppure mentre mi dedico ai lavoretti in campagna, quando la mente se ne va verso chi hai nel cuore oppure quando – tralasciato per un paio d’ore la perdita di tempo dei social, spenta la televisione, messo da parte il libro, scelto di non scrivere ulteriori sciocchezze per gli altri che tanto finiranno per non capirne il senso perché comprendersi è diventato sempre più difficile, mi sdraio sul mio divano e ascolto quello-che-ho-scelto-accuratamente-di-ascoltare. Ed è lì che la mia mente alla Homer Simpson mi parla, costringendomi, spesso, a prendere appunti per ricordare cosa lei mi stia dicendo, sperando nella mia attenzione.
Noi musicofili siamo l’ultima frontiera della discografia. Siamo l’ultima speranza, l’ultimo target cui tentare di continuare a vendere quegli oggetti circolari; che siano neri o meno poco importa. Noi sbuffiamo, ci diciamo che siamo stufi, lo scriviamo e lo giuriamo ad amici e fidanzate. Poi, alla prima occasione, decidiamo di nuovo di trovare un budget ed uno spazio per l’ultimo oggetto. Che sappiamo benissimo che non sarà mai l’ultimo, almeno finché saremo in grado di stare in piedi da soli davanti a un banco-contenitore o davanti allo schermo di un cellulare girovagando dentro le cantine di Amazon.
Avevo resistito per un paio d’anni, leggendone qua e là, anche perché pur essendone un appassionato estimatore, grazie a Dio non sono mai diventato un fanatico collezionista del live dei Grateful Dead. E meno male: avrei già dovuto fare a meno della mia auto solo per comprare i quasi duecento – dicono, ma secondo me è stima al difetto – live, box, cofanetti del gruppo di Garcia. Poi un amico mi manda una foto sul cellulare; l’interno di “Sunshine Daydream”, cofanetto di tre cd ed un dvd, uscito per la Rhino. All’interno una frase cui nessun appassionato avrebbe mai potuto resistere: “Veneta è senza dubbio, e di gran lunga, il concerto più richiesto di cui abbia mai sentito parlare – scrive l’estensore delle note. Ho ricevuto una quantità di email dai Dead Heads, con suggerimenti e richieste, ma le richieste del concerto del 27 agosto del 1972 sono costanti.”. Segue accurata spiegazione.
Questo per me sarebbe stato più che sufficiente a convincermi. Così mi sono ritrovato con quel box in mano e dedicato all’ascolto, ho compreso perché, effettivamente, ci fosse un qualcosa di speciale, in quella sera. Un Jerry Garcia particolarmente ispirato e molto spesso attaccato alla scatolina del wha-wha, una cosa non particolarmente abituale per lui; un Phil Lesh debordante, una ritmica veramente dedicata al cesello di supporto alla solista, la scelta delle canzoni… bello. Effettivamente una di quelle serate in cui tutto gira per il verso giusto. Possiedo molte cose dal vivo dei Dead, ma questa, in effetti mi pareva e mi pare più che meritevole.
Ma non avevo mai avuto voglia di mettere su il dvd. La musica mi ha sempre più catturato delle immagini…anche quando ero io a farle produrre per la televisione.
Errore gravissimo. Cui la mano fatata del destino ha deciso di por fine oggi, in un momento di assoluta mancanza di voglia di fare qualsiasi altra cosa, quando quella incomprensibile pigrizia ti assale.
No, niente effetti speciali, nessuna regia creativa, nessuno di quei mille trucchi cui Scorzese o i registi più prossimi al rock ci hanno abituato. Esattamente il contrario. Un filmato che probabilmente nessuno di noi girerebbe mai con il suo telefonino sapendo fare di meglio, come inquadrature e qualità; una ripresa amatoriale di quello che, per la città di Veneta, Oregon, era probabilmente un avvenimento fuori da comune. Una grande band in un campo nel mezzo di un bosco in una calda sera d’estate.
Ed è così che la semplicità di quei minuti iniziali mi strappano dalla freddezza dei miei tempi e mi gettano a forza all’interno di una stringa temporale che mi circonda di quello che era l’America dell’inizio degli anni settanta. Una manciata di ragazzi a torso nudo, capelli lunghi, barbe e baffoni, segano, martellano, assemblano un palco quantomeno improbabile, un palco su cui nemmeno l’orchestrina di paese avrebbe il coraggio di montare. Un albero, quasi sicuramente un abete, viene trascinato insieme ad altri, per costituire l’ossatura di un tavolato che viene circondato da una sorta di rete da polli che separerà il gruppo dai 20.000 (…ma chi è stato lì a contarli? Si domandano i titoli di coda) ragazzi del pubblico. C’è voglia di Woodstock, ci sono bambini nudi che giocano con i cani, ragazze seminude e ragazzi decisamente nudi. Non c’è il fango del terzo giorno di tre anni prima, ma ci sono facce bellissime. Ci sono espressioni pulite, occhi vivi, speranze, desideri. C’è una gioventù meravigliosa, come adesso, a noi anziani, non capita più di vedere in giro. C’è semplicità e voglia di stare insieme, senza nessun dogma, nessuna bandiera, nessuna bugia. Ci sono ragazzi e ragazze che scoprono note che li tengono insieme e che sembrano promettergli che tutto quello che non va sta per essere miracolosamente sanato. Sì, certo, si vedono oggetti da fumo delle forme più svariate, soggetti visibilmente poco lucidi, c’è Ken Kesey che circola e ancora, forse, crede che negli acid tests siano nascoste le porte della percezione. Ci sono sei musicisti su un palco sgangherato che se solo scendessero in mezzo alla gente non si distinguerebbero dalla folla. Sono tutti uguali : un gruppo già al sesto anno di carriera e in crescita esponenziale e il suo pubblico. C’è la possibilità di capire, dopo pochi secondi, che quello che davvero contava – un mio vecchio discorso ricorrente, lo so – era “la Musica”. E con jeans e magliette non esisteva necessità di una uniforme.
Un telo in apparente plastica copre malamente la zona del piccolo palco e gente va e viene dal medesimo; una bambina dai capelli lunghissimi inclusa. Alle spalle del gruppo, appollaiato su un palo, un ragazzo completamente nudo balla tutte le canzoni e se ne stacca solo per applaudire. Nessun regista, nessun assistente a toglierlo dall’inquadratura.
Sembra di essere spettatore di riprese aliene, non di questa Terra. La certezza la si ha quando, in un piccolo contributo girato a bordo di un bus colorato con le bombolette, attraversiamo la città, diretti al bosco di Veneta…sa Iddio come controllato nelle entrate e negli accessi. La gente per strada, che si gira a metà tra disgusto e curiosità, è la tipica gente americana dei sessanta che non sono ancora spariti, laggiù nell’Oregon.
L’America dei film in bianco e nero, quella che noi…lo capiamo esattamente in quella visione, in quel momento, in quei pochi secondi rivelatori…non capiremo mai. Noi, di quella gente, di quella cultura, di quegli anni, è cosa certa, non capiremo mai niente, anche se guardando quei ragazzi avremmo assolutamente desiderato essere lì, nei nostri sedici, diciassette anni.
Avremmo voluto essere in mezzo a quella moltitudine di belle facce, bei fisici, non ancora obesi e sovrappeso come l’America degli anni a venire, avremmo voluto toglierci la maglietta e stare in piedi a guardare lo spettacolo della musica e di una generazione che ci ha mangiato la pappa in capo senza aver avuto un briciolo della cultura e del glorioso passato che noi abbiamo vantato. Una generazione che con nulla ha cambiato ANCHE il nostro mondo, anche se poi c’è stato chi, bravissimo, li ha cancellati vendendogli una libertà invendibile. Non particolarmente diversa dalla nostra, ottenuta con altri percorsi ma altrettanto fallimentare.
Avremmo pagato qualsiasi cosa per essere lì e capire la lezione della musica prima che il Grande Mercato ce la rivendesse, prima che cappellini, tagli di capelli, giacche e uniformi ci rendessero tutti uguali. Prima delle grandi amplificazioni, dei palchi da Guerre Stellari, prima delle luci, di quelle luci com-ple-ta-men-te assenti su quel palco, tant’è che la registrazione termina con l’arrivo del buio, quando il gruppo sarebbe andato avanti per altre due ore, per un totale di oltre tre, ma lontano da quelle telecamerine amatoriali. L’ultimo brano del video ci mostra il tramonto, con la voce di Donna Jean che ci abbraccia e ci chiede cantando “Sing me back home”….un groppo alla gola.
Mentre dal palco volano note assolutamente affascinanti, suonate da sei ragazzi che sono quanto di più lontano possiamo immaginare da quella iconografia rock e dalle sue pose. Statici, attenti, sorridenti, sereni, come avremmo voluto essere noi, esattamente in quegli anni.
Ecco sia benedetta la passione di chi ha recuperato quel concerto e quell’oretta di immagini, tanto simili a Bethel e al tempo stesso così lontane. Testimoni di un’era temporale che non potremo mai più rivivere né comprendere.
Qualsiasi cazzata ci venga suggerito di leggere.
Giancarlo mi hai emozionato, non è una recensione….è un’opera d’arte.
…mah… caro Fabrizio…è solo uno scritto, buttato giù di getto, scrivendo sinceramente il mio pensiero. Evidentemente anche tu hai provato o provi il medesimo genere di emozioni, per cui è più facile entrare in sintonia… credo che se sei sincero e dici, in modo semplice, le emozioni che provi o avresti voluto provare, forse, chi ti legge, riesce a capirti meglio. Tu, mi fa immenso piacere, hai capito. E ti ringrazio moltissimo perché ogni complimento è una grande emozione, un onore. Grazie.