Nuovi guerrieri elettrici alla conquista degli anni '80
Questo approfondimento su singoli ed EP della New Wave Of British Heavy Metal non necessita di ulteriori presentazioni: si tratta inevitabilmente della Seconda Parte, costituita da altre 22 proposte, del Re-make Re-model di un articolo apparso sul supplemento “Hard’n’Heavy” di Rockerilla nel 1987.
Mi è stato piacevolmente sollecitato da voi che ci seguite, quindi mi auguro che possa eguagliare le letture della precedente stesura, davvero gratificanti. Si tratta di inscenare il revival di un’era mitica, in cui tutti ci catapultavamo con foga giovanile in quegli anni ’80, di cui “resterà” senz’altro l’esplosione ed il diffondersi capillare dell’heavy metal in ogni parte del globo.
Un decennio snobbato da molti “critici”, che personalmente trovo irripetibile, pur essendo cresciuto nel mito dei Seventies e dei suoi gruppi straordinari, in particolare: Black Sabbath, ELP, Led Zeppelin, Deep Purple, Aerosmith, BÖC… erano solo le cime tempestose di una catena di montagne che si innalzavano verso la stratosfera.
Ma tutte queste vette erano state minate alla base dal revisionismo punk, ed i mass media si erano schierati dalla parte di questa tendenza, dando per finito il rock “classico”.
Invece il nuovo heavy metal orientato verso gli anni ’80, dimostrò che il genere poteva risorgere dalle sue stesse ceneri, e come scrisse Neal Kay sulla collezione apripista “Metal For Muthas (Vol.I)”, con “brani che non erano stagnanti, datati o logori, ma freschi, originali e drammaticamente hard”. Sarebbe stato meglio accorgersene, e chi battezzò quel rinascimento come una degenerazione dell’heavy rock storico, non si rendeva conto che senza la sua spinta, l’aurea tradizione del passato rischiava di esser definitivamente sepolta. Non solo, ai cultisti dell’hard rock americano del quinquennio 1975-’79 (fra i quali mi riconosco, vedi gli arretrati del Blog), giova rammentare che difficilmente i vari Starz, Angel, Legs Diamond etc. sarebbero stati rivalutati senza l’interesse a vasto raggio diffuso dalla NWOBHM.
Probabilmente qualcuno di voi ricorderà chi in Italia si batté a favore della causa e chi la ignorò a lungo, finché l’evidenza dei fatti, e l’opportunismo, prevalsero.
Bando alle premesse, a voi la seconda parte…
Diamo fuoco alle polveri abbordando un veliero di capitale importanza nel mare burrascoso della NWOBHM. Ci siamo già occupati dei Diamond Head lo scorso settembre in “Heavy Metal Losers”, celebrazione di una triade “maledetta” che non ha raggiunto un congruo successo negli anni ’80. Potete recuperarlo fra gli articoli di Rock Around The Blog.
All’epoca tutti impazzivano per questo quartetto di classe pari a forza espressiva; non poteva mancare nella nostra rassegna, quantunque più a suo agio sulle lunghe distanze dell’LP che nel “formato ridotto”, parzialmente inadatto a concentrare l’eclettismo del binomio Sean Harris (voce) e Brian Tatler (chitarra).
Purtroppo i Diamond Head non hanno mai pensato di lanciare a 45 giri (se non in ritardo, sull’EP “Diamond Lights”) l’anthem più fulminante, “It’s Electric”, perciò valuto loro miglior singolo il terzo “Waited Too Long”, superbo hard rock melodico, mediato fra atmosfere seducenti e sincera asprezza di toni. Resta un mistero come la stella di Sean Harris si sia lentamente spenta fino a sparire di scena, mentre Brian Tatler tiene tuttora accesa la fiamma dei Diamond Head.
Invece, coloro che nei giorni bui di apprendistato si esercitavano sul classico degli ‘Head, “Am I Evil”, continuano a dominare la categoria dei “pesi massimi” metallici. Banale aggiungere di chi si tratta.
Provenienti dalla “Steel City” di Sheffield, i Geddes Axe si erano battezzati in omaggio ad un atto parlamentare promosso da Eric Geddes del 1921, che decurtava gli stipendi degli insegnanti. Influenzati dai concittadini Def Leppard, quelli epici del primo EP (vedi: Singoli NWOBHM-Prima Parte), a loro volta ispirati ai canadesi Rush (epoca 1974-’76) i Geddes Axe riuscivano nella mirabile sintesi di quello stile nel classico “Return Of The Gods”, titolo-manifesto dell’EP d’esordio, portato sugli scudi da Sounds.
Forse la voce di Andy Millard è fin troppo affine a quella di Joe Elliottt, ma certo è che l’operina raccoglie le più eroiche attitudini dell’underground NWOBHM, come si evince dalle chitarre duellanti di “Aftermath”.
Ancora un singolo autoprodotto nell’82, “Sharpen Your Wits”, poi gli Axe – gruppo semiprofessionale (e nella foto si vede) impossibilitato a dedicarsi completamente alla musica – chiuderà in bellezza con un EP 12” per la Bullet, “Escape From New York”…Non saranno dunque mantenute le promesse del debutto sfumato nel mito, perché non possono considerarsi tali la rifondazione del 2015 e la conseguente antologia, “Aftermath”, titolo tratto proprio dell’EP segnalato.
Testa d’ariete di un collector’s pack di tre 45 giri della Heavy Metal Records di Wolverhampton, “Back Street Woman” resterà la miglior testimonianza del violento approccio dei Jaguar, un quartetto di Bristol che rivestì per un paio d’anni un ruolo da culto nella scena britannica. Il singolo, dall’adrenalinico impatto Motorheadiano, è stato certamente termine di paragone per la crescita di uno stile oltranzista, poi approdato allo speed-metal.
Si tratta di un momento magico mai più ripetuto dai Jaguar: infatti l’incantesimo si spezza in seguito alla dipartita del rude vocalist Rob Reiss e l’album per la Neat, “Power Games” susciterà solo tiepide accoglienze. Anche il tentativo di ricostruirsi una credibilità sotto l’egida del metal-pop, con tanto di immagine fin troppo “ripulita”, finirà per alienare le simpatie dei fedeli headbangers al loro seguito. Inevitabile uscir di scena, ed immancabile riunione nostalgica dei “tempi duri”, dalla fine anni ’90 ad oggi.
Gruppo discretamente folle e trasgressivo, a metà strada fra stile NWOBHM e Kiss, Megaton cantavano questa fantomatica “Aluminium Lady”, per sparire subito dopo nell’inferno da cui erano stati scacciati. In questa vera e propria oscurità a 45 giri per la londinese Hot Metal, pare alludessero alla “Vergine di Norimberga”, lo strumento di tortura medievale reso celebre dagli Iron Maiden. Come si diceva una volta: heavy & dangerous! Venne definito “eccellente” dalla storica International Encyclopedia HR & HM di Jasper & Oliver. Non confondeteli con l’omonimo gruppo metal mexicano, tanto meno con i Megaton autori di una rarità hard rock del 1971, LP su marchio storico Deram. Nel 2011 si erano riproposti con il minaccioso CD “Returning With Vengeance”, prodotto da Mick Tucker degli Sweet, ma il decesso del cantante ha posto fine alla tentata resurrezione.
Non consideriamo i Motörhead una banda NWOBHM; di fatto anticiparono il movimento emergendo con l’ondata punk, ma il successo di “Ace Of Sapades” nel 1980 (primi in ogni categoria del rock poll di Sounds, il settimanale che ha pilotato la resurrezione metal) ed il numero uno nella classifica inglese conquistato dal live “No Sleep ‘til Hammersmith”, li ha imposti come padrini del nuovo corso. Fuor di dubbio che il trio Lemmy-Fast Eddie-Philty Animal ha incarnato una delle più grandi heavy metal band di sempre. Le loro amiche Girlschool sono invece figlie legittime della NWOBHM, le prime a perorare l’emancipazione femminile nel rock duro, rispondendo al modello vincente delle californiane Runaways. Precedettero anche svariate truppe maschili, realizzando il debut-single “Take It All Away” nel ’79.
Accoppiate in quest’originale Ten Inch Record, le due gang (come tali si presentavano in copertina…) originano un’incandescente combustione di suoni, specie quando si scambiano reciprocamente i cavalli di battaglia “Bomber” ed “Emergency”, facendo a gara nel superarsi. Le fanciulle reggono valorosamente il confronto ed il feeling della comune versione di “Please Don’t Touch” (Johnny Kidd & The Pirates) ratifica l’eccellenza rock’n’roll del binomio. Ricordiamo “St.V” fra i singoli/EP più celebri dell’epoca, ed a pieno merito. Triste pensare che nessuno dei “classici” Motörhead sia sopravvissuto fino ad oggi, e che ci abbia lasciato anche la più carina delle ragazze, la chitarrista Kelly Johnson.
Un’altra delle opere perdute, di straordinaria originalità, scaturite dall’infernale calderone della NWOBHM! Chi non ha voluto ricercare, nel fertile humus di questo movimento, nient’altro che i consueti replicanti del songbook di Black Sabbath e Deep Purple, doveva invece imbattersi nel sedicente “ordine di alienati” mancuniano, dedito ad un’eccentrica visione cosmica dell’heavy metal; un concetto istituito anni addietro dagli Hawkwind, ma ripreso dai Sacred Alien, spinti dall’impulso innovativo degli anni ’80.
Il chitarrista Martin Ainscow vi disegna vertigini di suono abissale, ed il vocalist Sean Canning è specchio di un tormentato anelito verso spazialità galattiche; l’intero gruppo professa un’immagine glamour come simbolo teatrale d’emarginazione, senza alcun cedimento commerciale. Dal vivo, esibivano cover sia di T.Rex che di Jimi Hendrix!
Anni dopo si riparlerà di heavy psychedelia, dunque ricordiamo che preconizzarono tale ipotesi. Rilevante anche il secondo atto, “Legends”, la loro facciata di un 45 giri diviso a metà con i più rutilanti Virgin, emuli inglesi degli Angel. Poi fu il silenzio, ma sono riapparsi recentemente, con una compilation datata 2020, “Legends”: quelli di Manchester Re-United…
Sweet Savage sono il gruppo nordirlandese che lanciò la futura star Vivian Campbell, e si narra che alcuni loro riffs siano diventati la struttura portante di più di un hit di Ronnie James Dio, alla cui corte Viv divenne famoso. Peccato che il rapporto con il Nume dalla voce più altisonante nell’arena metallica, si incrinò profondamente quando il chitarrista se ne andò alla volta dei Whitesnake. Un’altra stelletta aurea che Campbell si appuntò nel corso dell’errante carriera, furono gli Shadow King, meteora AOR guidata da Lou Gramm, prima di trovar residenza stabile nel palazzo dei Def Leppard.
I due brani degli Sweet Savage, “Take No Prisoners”/”Killing Time”, forgiavano un memorabile, solitario 45 giri, prodotto al meglio da Chris Tsangarides, e già mostravano la classe cristallina dell’emergente guitar hero. In sua assenza, il gruppo (da non confondere con i più “fotografati” glamsters americani dallo stesso nome) ha proseguito un’attività alquanto sotterranea; l’ultimo album “Bang”, é stato registrato l’anno scorso.
Il primo EP dei Tank, figliastri dei Motörhead prodotti da Fast Eddie Clarke, è stato un ustionante tizzone di hardcore-metal (così si etichettava una volta…) che suggeriva il futuro prossimo speed attraverso le assordanti deflagrazioni di “Shellshock” e “Hammer On”. La velocità, la durezza sono certamente inferiori agli eccessi che seguiranno, ma il feeling era più eccitante della media spesso uniforme del thrash (con le debite eccezioni, sia chiaro).
I Tank racchiusero in questi solchi il meglio di sé stessi, quando l’accordo dei fratelli Brabbs (poi defezionari) ed Algy Ward (ex Damned, rimasto perno effettivo del gruppo) sembrava un patto d’acciaio. Fast Eddie sarà il loro mentore anche producendo il primo album “Filth Hounds Of Hades”. Poi il declino nel corso degli anni ’80 e la rinascita (l’ennesima per truppe NWOBHM) nel ’97.
Gruppo misconosciuto del Suffolk ma di grande potenziale, protagonista di soli tre singoli (raccolti nella compilation del ’92, “The Works”), eclissarono la concorrenza in “Metal For Muthas Vol.II” con l’evocativa “One Of These Days”, che fu anche il loro primo 45 giri.
L’EP (tre brani) “Brightlights” costituì il canto del cigno dei Trespass ed il solo prologo di “Duel” varrebbe l’acquisto per il riff in progressione, maestoso come pochi altri; immaginate l’emozione di un tuffo nel passato, catapultati a ritroso in uno scenario naturale di rara bellezza dove cavalieri medievali si allontanano verso orizzonti sconfinati…”The Duel” potrebbe essere la colonna sonora di tale fantasia onirica. Anche la title-track é una testimonianza dell’intensità espressiva che animò la creatura di Mark Sutcliffe, immaginifico chitarrista/vocalist e del fratello Paul (batteria). Alla fine degli anni ’90 i Trespass sono tornati in azione, registrando ex novo i loro brani da culto per un album del 2015.
Vardis furono i pretendenti al trono degli Status Quo di generazione NWOBHM, ed in Inghilterra vissero attimi di notevole popolarità. Inizialmente si chiamavano Quo Vardis, distorcendo il titolo del kolossal storico del cinema, ed una volta affermati lo resero di pubblico dominio, intitolando così il loro terzo LP. L’anno di grazia fu però l’81, data di realizzazione del miglior album, “The World Insane” e di questo azzeccato singolo: ebbero infatti l’intuizione di riprendere “Silver Machine” degli Hawkwind in netto anticipo rispetto ai Doctor & The Medics e vista l’epoca, non certo per sfruttare la moda del revival psichedelico. Nonostante inevitabili luoghi comuni, la formula boogie-hard del trio di Steve Zodiac (chitarra e voce) era pulsante e vitale, tanto più dal vivo. Non a caso l’album d’esordio fu proprio il live “100 M.P.H.”.
Anch’essi rifondati dal leader Zodiac, con un nuovo album per la Steamhammer del 2016, “Red Eye”.
La band seminale del thrash/black metal irrompe sulle scene con questo incubico primo singolo, preludio ad una simbiosi fra l’opprimente muro del suono dei Black Sabbath e le dinamiche accelerate dei Motörhead. Non si può dire che abbiano inventato un organismo musicale davvero inedito e la stessa, imitatissima voce di Cronos riecheggia la timbrica al vetriolo di Lemmy, ma certamente i Venom meritano il rispetto dovuto a chi ha elaborato una sintesi originale, a differenza di un’orda barbarica di loro plagiari.
L’arrembante “In League With Satan”, con le sue cadenze tribali ed il clima da notte delle streghe, resta un episodio unico ed a sé stante nel cerchio diabolico della produzione stessa dei Venom, poi il ritmo di Valpurga si amplificherà fino a “Welcome To Hell” e alla pietra miliare “Black Metal”.
A differenza di tanti gruppi di questa rassegna, inghiottiti nell’underground, i Venom non hanno mai abdicato al loro ruolo di istituzione del metal estremo.
Cloven Hoof, ovvero Air, Fire, Earth & Water, quattro misteriosi personaggi che nascondevano le loro sembianze dietro una vistosissima immagine “teatrale”, non replicheranno mai più l’infernale potenza epica di “Gates Of Gehenna”, titolo di punta di questo four-track autoprodotto.
Da segnalare che furono forse i primi a citare Black Widow fra le influenze privilegiate, ma persero la loro forza quando “tolsero la maschera” (il make-up…). L’LP omonimo per la Neat soffriva infatti di crisi d’identità, e risultò solo la controfigura delle brillanti premesse del Rituale d’Apertura.
Credete sia finito tutto lì? Naturalmente no, la storia lunga e travagliata giunge fino ai giorni nostri.
La seconda impresa interamente femminile a guadagnare una solida reputazione – ed un ambito contratto major – prometteva agli esordi più di quanto abbia effettivamente mantenuto.
Il trio fondato addirittura nel ’77 dalle giovanissime sorelle Jody e July Turner insieme alla compagna di scuola Tracey Lamb, fuoriusciva dall’area sud-londinese ed ebbe la chance di esser subito affidato ad un produttore di rango, Vic Maile (Motörhead e Girlschool) che ha valorizzato la freschezza del primo singolo e dichiarazione d’intenti, “H.M. Rock’n’Roll”.
Sia quel brano, sia “One Hot Night” esaltavano le accattivanti proprietà dei cori vocali; probabilmente il fulcro dell’operazione era la personalità di Jody, bellezza aggressiva che prestando fede al gossip rock, giunse però vergine al traguardo del primo, omonimo LP .
Le sorelle sventolano tuttora la bandiera delle Rock Goddess, un bell’esempio di consapevolezza e perseveranza, eroine capaci di mettere in discussione il “dominio maschile” quando ancora era difficile.
(Rock Goddess live 1982 – Foto: PG Brunelli)
Rox, un appariscente quintetto di Manchester devoto al modello shock-rock americano, inspiegabilmente non ha ottenuto il prevedibile successo, pur avendo inciso un solitario LP, “Violent Breed”, per l’allora titolata Music For Nations.
Con “Hot Love In The City” siamo però alla prima mossa, quando mutato il nome (per evidenti ragioni…) da Venom in Rox, autoproducevano questo EP d’esordio di tre brani; risente più di ogni lavoro successivo dell’influenza dei Kiss, ma stavolta è l’opera più “impersonale”, a superare il resto della produzione in quanto a carica contagiosa. Il martellante anthem che intitola il disco, oltre alle similari “Do Ya Feel Like Lovin’” e “Love Ya Like A Diamond”, ci facevano sognare di essere vis à vis con i quattro “mascherati” di New York: Flaming (mancunian) Youth! Sciolti nell’85, sono riapparsi decisamente attempati qualche anno fa; l’etichetta AOR Blvd, ha licenziato un CD a tiratura limitata, “Roxstars”, che ripropone i vecchi cavalli di battaglia.
Un elegante crescendo fino al suggestivo refrain vocale, scolpito su una raffinata struttura hard rock, che si avvale dell’apporto delle tastiere: questo è “Angel Of Mons”, secondo e miglior singolo molto Rush-orientato degli Shiva, che seguiva a distanza ravvicinata il debutto “Rock Lives On”.
Peccato che nello stesso anno, l’unico LP del trio di Bristol, “Firedance” (sempre per la Heavy Metal Records, che evidentemente ci credeva) non conseguirà maggiori fortune, pur coltivando le fioriture prog della più famosa formazione canadese, senza disdegnare richiami Zeppeliniani. Hanno chiuso i battenti del loro eremo nell’86, apparentemente senza nuovi intenti bellicosi.
A loro volta pionieri della resurrezione glam-rock inglese, provenivano da Macclesfield, e la compilation “New Electric Warriors” ne aveva reso popolare il debut-single “Rock’n’Roll Are Four Letter Words”, tanto per distinguersi (?) di stampo Kiss. Racchiuso in un’attraente copertina-poster, “That’s Entertainment” è il loro più maturo (e meglio suonato) terzo 7 pollici; include due inni pop-metal di pregevole fattura, il retro è “Flashbomb Fever”, di gran lunga superiori alla media sub-standard dell’unico LP “Alive And Kicking” (Bullet, 1983), che esaurisce mestamente la parabola dei Silverwing.
Annunciato da una solenne intro gotica nel più mitologico stile “Antica Inghilterra” l’unico singolo dei Tytan (da non confondere con altri due “Titan”, uno di essi pre-Wrathchild) fu senz’altro la miglior realizzazione della presto defunta Kamaflage Records. Presentato come supergruppo NWOBHM, Tytan venne alla luce in seguito allo split dei classici Angel Witch, da cui provenivano Kevin Riddles e Dave Dufort, presto affiancati da Kal Swan (che poi migrerà a L.A., fondando Lion e Bad Moon Rising) oltre a Gary Owens e Steve Mann, rispettivamente ex chitarristi degli A II Z e dei Wild Horses. Il quintetto si muoveva assai bene con la regia vocale di Kal, sorta di maestoso incrocio fra Dio e Coverdale, ma avrà vita breve, causa il fallimento dell’etichetta; l’LP “Rough Justice” veniva pubblicato dalla Metal Masters quando le ceneri del Titano erano già state disperse nel vento.
Riddles l’ha riallestito nel 2010 con nuovi compagni d’avventura; anni dopo ne è scaturito un album orgogliosamente intitolato: “Justice: Served!”.
Questa cult-band che ha tramandato su vinile alcuni grandi momenti d’ispirazione Sabbathiana, ben prima che si trasformasse in moda, è stata certamente una delle imprese più convincenti della label di Paul Birch. Se desiderate, potete approfondire l’argomento sul Blog, leggendo “Le mani del Doom sulla NWOBHM”.
“Soviet Invasion” è il fosco preludio al fondamentale album d’esordio “Death Penalty”, a cui farà seguito il secondo e finale “Friends Of Hell”. Si tratta di un EP 12” di tre pezzi: l’inedito che lo intitola è un visionario episodio di doom metal dai breaks acustici, mentre “Rabies” è prelevata dalla compilation “H.M. Heroes Vol.I”, con un solforoso assolo di chitarra devoto al Tony Iommi d’inizio anni ’70, e la versione live di “R.I.P.” conclude la trilogia. Gli LP furono altresì celebri (o famigerati, dipende dai punti di vista), per le appariscenti modelle seminude in copertina; il vocalist Zeeb Parkes fu invocato dai fans più accesi come il degno erede di Ozzy, a cui si rifaceva palesemente, nei Sab Four.
Con il nome di Black Axe avevano realizzato l’unico, pregevole singolo underground, “Highway Ryder”, poi l’importante contratto Chrysalis, che li induceva a ribattezzarsi Wolf, apparentemente in omaggio all’album di Trevor Rabin, pubblicato dalla stessa casa discografica. Nulla a che fare ovviamente con il “Lupo” che identificava il gruppo prog di Darryl Way, fuoriuscito dai Curved Air. Questo singolo prodotto dal grande Tom Allom di fama Judas Priest, con la collaborazione di Lou Astin (che si occupò anche dei nostri Vanadium) doveva essere il viatico per il successo, risolvendosi invece in uno scacco commerciale che distrusse la loro carriera. Forse in anticipo sui tempi la squadrata linea anthemic metal di “Head Contact”, che strizzava l’occhio agli U.S.A., nonostante il retro “Soul For The Devil” testimoniasse la versatilità del quintetto, a suo agio nel clima orroroso fatto levitare dalle tastiere. Furono lasciati sulla strada dalla Chrysalis con l’LP sotto la cintura (“Edge Of The World”), che venne pubblicato postumo, magra consolazione, dalla belga Mausoleum.
Trascorsi decenni, nel 2011 un oscuro split-album con i Kruizer, “Echoes Of The Past”.
Come proclamato da Sounds, i Wrathchild furono i titani del trash-rock inglese, ed hanno anticipato la corrente americana di abbagliante successo nel prosieguo degli ’80 (Motley Crue, Ratt, WASP), ma anche la “scena street” di L.A. (Guns n’Roses, Faster Pussycat, L.A. Guns), perché a detta del vocalist Rocky Shades: “I nostri veri ispiratori sono i New York Dolls, con il loro humour e la loro immagine trashy-glam, non come gli Sweet, Bolan e Gary Glitter, agghindati da showbizness”.
Purtroppo le vertenze contrattuali con la Heavy Metal Records, successive all’album “Stakk Attakk”, li ha costretti al silenzio discografico, alienando ai Wrathchild il momento favorevole alla loro ascesa. Avevano riportato in auge un gusto dell’eccesso che faceva scalpore, soppiantando i Girl che pur li precedettero nell’impugnare la causa glam sul fronte NWOBHM. Il primo EP del quartetto (originario del Worcestershire) nasce da una costola del demo “Mascara Massacre”, ed è un rutilante concentrato di musica eccitante e testi provocatori per questi auto-indulgenti “principi della lussuria” e “schiavi del sesso”. Alquanto trascinanti gli scurrili inni ivi contenuti, con particolare riferimento a “Rock The City Down” e “Lipstick Killers”. Sono l’indigesto antipasto al successivo 7 pollici, “Do Ya Want My Love” e al summenzionato 33 giri, “Stakk Attakk”. Tutti titoli a loro modo iconici, entrati nella storia del costume glam & sleaze.
Wrathchild rimasero infatuazione del momento, lontana dalle vendite milionarie degli yankees e alla fine degli anni ’80 ne ebbero abbastanza. Rigenerati nel terzo millennio senza il carismatico Rocky (con il quale disputarono in tribunale il nome del gruppo), hanno pubblicato nel 2011 l’esplicito album “Stakkattakktwo”.
Siamo ormai in tarda epoca NWOBHM, ed un titolo come “No More Chances” può essere interpretato a posteriori come sintomatico del declino di un intero movimento: il crepuscolo degli Dei si sta avvicinando, almeno per chi non ha colto l’attimo fuggente, ma proprio in questa fase un gruppo marginale raggiunge il pur effimero zenit di gloria artistica.
Bitches Sin furono tipica germinazione dell’underground britannico e si erano parzialmente distinti nello spazio intercorso fra il primo singolo “Always Ready” e l’LP “Predator”, con tanto di copertina del grande Rodney Matthews; ma è questo EP 12” il loro miglior tributo alla causa metallica, grazie ad un’autentica gemma, “Ice Angels”, riesumata da un vecchio demo-tape.
Movenze vellutate, tensione latente, clima incantato ma velato dalle tenebre. Non raggiunge i vertici di “Beyond The Realms Of Death”, ma rievoca il classico dei Priest; impronosticabile una versione di questo brano negli anni ’90 ma succede, da parte dei metallisti nipponici Gorgon. Ed i Bitches Sin sono ancora in circolazione.
Il 1984 è alle porte, i reduci del british HM targato 1980 stanno virtualmente cedendo il passo alle armate “epiche” degli U.S.A. (Virgin Steele, Warlord, Armored Saint, soprattutto Manowar), che riescono meglio di tanti inglesi negli stessi sortilegi.
Viceversa, il rock duro del Regno Unito tende ad americanizzare il suono, e Thunderstick è un concetto teatrale che rielabora Kiss ed Alice Cooper con un look degno del Rocky Horror Picture Show.
L’animatore del quintetto, Barry “Thunderstick” Purkis, è l’ex drummer dei Samson, perennemente mascherato ed in possesso di uno stile caratteristico, nervoso e scattante: certamente fra gli strumentisti più personali del “movimento”. Accanto a lui una vampira sexy dallo sguardo torbido, Jodee Valentine, sacerdotessa di una rappresentazione rock’n’roll con rifrazioni grandguignol ed ironia. Incideranno anche un LP, “Beauty (Jodee) And The Beasts (il resto del gruppo…)” senza alcun successo. Ne registrarono pure un successivo, mai ufficialmente pubblicato, e Thunderstick in persona risolse di dedicarsi ad altri progetti, fra cui spiccano le riunioni con Samson. Dopo la prematura scomparsa della Valentine nel 2016, decide però di rifondare il gruppo a suo nome.
Che meraviglioso viaggio nel tempo!! Grazie!
Grazie a te che leggi, Giorgio, se nessuno ti segue resti una voce nel deserto. Ciao
Grazie a te Beppe, scusami per l’errore, tu scrivesti ovviamente, vedi perché amo gli anni ’80 ?con la penna non sbagli, nelle chat può essere che uno si metta in prima persona perché risponde. Spero che ti occuperai presto dei fantastici Heavy Load, ti seguo sempre con grande ammirazione sin dai tempi proprio di Rockerilla che furono le prime pagine ufficiali di Heavy metal, e per questo tu sei il vate del metal :non ci sono dubbi su questo! All epoca batteva nettamente, per me, H/M poi arrivò Metal Shock con il vostro fantastico staff ed anche a Giancarlo va attribuito il fatto che sul numero 23 si lamentava delle scarse presenze ai concerti , era maggio ’88, e come andò a finire? 30000 heavies ( Beppe docet ) al Monsters di quell’estate. Siete dei grandi gente come voi non può mollare!
Fabio, grazie anche da parte di GC per le parole che ci riservi, anche in relazione al nostro passato. Qualche penna che oggi va per la maggiore potrebbe inalberarsi se il termine “Vate” viene attribuito a qualcuno che nemmeno rientra più fra le firme della carta stampata; però senza entrare in merito ad un “titolo” piuttosto che ad un altro, che ci sia un pò di riconoscenza a questo mondo, penso sia un bene per tutti. Spero di essere correttamente interpretato da chi legge. Agli Heavy Load farò un pensiero, non nell’immediato però. Buona settimana
Bellissimo articolo, conservo ancora il numero 2 di Hard’n’Heavy dove, come al solito, tu ne scrissi per primo, questo mi sembra la sua naturale prosecuzione. The 80’s rule Beppe is magic!
Ciao Fabio, mi è sembrato opportuno, tornando a parlare dei Queensryche, trarre spunti da quell’ormai lontano Hard’n’Heavy e ripartire da lì. Comunque il gruppo di Seattle l’avevo già trattato su Rockerilla puntualmente, a partire dall’Ep d’esordio con “Queen of the reich”. Riviviamo insieme, così facendo, qualche momento magico degli anni 80. Grazie mille
Ciao Beppe. Come sempre articolo molto interessante ed anche istruttivo….non si finisce mai di imparare. Ora ti faccio un piccolo racconto personale, mentre sto ascoltando gli Atlanta rhythm section. Al sabato pomeriggio ho iniziato, da tre settimane, un programma radio in diretta che parla di Heavy Metal. La radio si chiama Mikro Radio. Quindi nonostante le 50 primavere ben passate, sono uno speaker alle primissime armi. In ogni modo, questo sabato pomeriggio passeremo un po’ di NWOBHM. E sinceramente mi hai dato un po l’idea, con il tuo blog, per il format che ho deciso di fare. Ovvero un pezzo dai vari dischi d’esordio. Vediamo come andrà…. intanto la diretta alle 14 sarà ascoltata forse solo da mia moglie 😁. Ma essendoci poi il podcast on line…. chissà…
Ciao ciao.
Ciao Gianluca, non essere così pessimista sugli ascolti; se le cose sono ben fatte alla lunga risultati si ottengono. Certo ci vuole un pò di pazienza. Quando abbiamo iniziato con il Blog ero abbastanza scettico, ci ho pensato a lungo perché non c’era nessuna garanzia di un buon riscontro. Ora devo dire di ritenermi soddisfatto, basta che duri la voglia di fare. Le idee, come dici tu, si possono ricavare da svariate situazioni opportune. In bocca al lupo e grazie.
Che spettacolo tutti questi singoli!
Coriandoli di un epoca irripetibile, dura, pionieristica e proletaria.
Fortunatamente esistono i cd per riascoltare queste perle altrimenti difficle reperire in forma originale.
Grazie Beppe per lo splendido viaggio! 😉
E’ stato un piacere, seppur impegnativo, riproporre questi momenti di gloria metallica ormai quasi remota! Grazie dell’apprezzamento.
Magari in un futuro mi farete una bella playlist tu e Giancarlo. Con tanto di interviste in diretta….che non so nemmeno se e come si possono fare. 😁😁
Ciao Beppe come da copione un ennesimo excursus appassionato e appassionante su un movimento cardine per lo sviluppo delle sonorità che di lì a poco caratterizzeranno gran parte del decennio in ambito del Rock duro la cui spinta propulsiva finirà per rimanere per lo più un fuoco di paglia per la caduta nell’oblio di molti nomi che hai citato nell’articolo…
Curioso che sia la Terra d’Albione a concepire un embrione che sarà sviluppato altrove… Dal movimento hard e prog di fine 60 a questa cosiddetta NWOBHM si sono gettati semi che germoglieranno spesso oltremanica,tanto più che ricordo che a metà 80 si parlava di crisi della scena musicale inglese incapace di iniettare nuova linfa e soggiogata dall’egemonia statunitense cui molto spesso diventava modello di riferimento per tanti gruppi partiti da qui…
Roberto ciao, giustamente anche voi che leggete date la vostra interpretazione sull’argomento trattato e noi la esponiamo. Evidente che molti gruppi della NWOBHM si siano presto estinti, alcuni di essi sono però assurti al rango di superstar e tuttora (chi più, chi meno…) sono identificati come tali. Anche fra gli americani (che avevano comunque una gran tradizione nel rock duro) a livello di successo internazionale, si é verificata una naturale “selezione”; il test degli anni che passano vale per tutti. A risentirci, grazie.
buongiorno Beppe! prima di tutto, complimenti per questa revisione.
Ti chiedo, però, a cosa ti riferisci nello specifico quando parli di “decennio snobbato da molti critici”: forse intendi il luogo comune in base al quale gli anni ’80 vengono ricordati (perlopiù dalla critica generalista) come un limbo sorvolabile e caratterizzato da pochezza artistica e creativa?
Seconda domanda: mi ricordo un tuo pezzo su Rockerilla, a proposito dei Malice, in cui parlavi, in sostanza, di un “sorpasso” del metal americano ai danni di quello inglese, soprattutto in termini di produzione. Secondo te, cosa è mancato davvero al metallo inglese da un certo punto in poi per poter competere con l’Heavy U.S.A.? E’ solo una questione di “patina” sonora che gli americani erano in grado di produrre nei loro sudi di incisione oppure la tua osservazione riguarda anche altro?
Terza domanda: ci sono dei motivi specifici per cui non hai inserito il 45 giri degli Stampede “Days of wine and roses”?
Grazie e scusa la…prolissata 🙂
Massimo
Buongiorno Massimo; venendo alle tue domande: per quanto riguarda gli anni ’80, parte della critica legata ai grandi nomi “classici” ha senz’altro ritenuto quel decennio “minore”. C’è chi snobbava ad esempio il cosiddetto “hair metal”, che a mio avviso ha lasciato alla storia grandi canzoni. Inoltre spesso mi sono calato nei panni di chi doveva difendere il metal dagli oppositori new wave. Però che anche in quell’ambito è emerso molto di buono negli 80, dai cupi Joy Division di “Love Will Tear Us Apart” ai danzabili Japan di “Quiet Life” (e cito solo 2 casi). Nell’ambito della produzione (Malice), mi riferivo proprio al lavoro in studio; tendenzialmente amavo i produttori USA dagli anni ’70 in poi, basti pensare a Jack Douglas con Aerosmith e Starz, a Eddie Leonetti con Angel, Legs Diamond, Rex. Poi certo, anche i britannici avevano grandi producers (Martin Birch, Tom Allom etc.). Per competere agli inglesi (sempre nel decennio in questione) é mancata dopo un pò l’attenzione dei discografici che contano, prevalentemente rivolta altrove; le major americane invece hanno fatto incetta di talenti negli States. Infine, il singolo degli Stampede che citi (ho il formato 12″) é sicuramente bello e poteva starci, nessuna preclusione a riguardo, anzi. Spero in sintesi di esser stato esauriente. Grazie dell’interesse.
Ciao Beppe. Innanzitutto complimenti per questa doppia disamina. Personalmente ricordo con piacere “Heavy Metal Heroes”, (raccolta più naif rispetto a Metal for Muthas ) e il collector’s pack della Heavy Metal Records. Sono stati tra i primi acquisti “consapevoli “di quando ero ragazzino. I soldi erano pochi, ero costretto ad a acquisti mirati e il combo mi dava la possibilità di ascoltare diversi gruppi in un colpo solo. Il mio pacchetto comprendeva Jaguar, Handsome Beast e Twisted Ace (senza la copertina ufficiale solo quella bianca con il buco in mezzo ) mi sono sempre chiesto se fossero stati tutti uguali. Una sorpresa fu scoprire anche le differenze stilistiche tra le band. Ricordo gli ascolti con il compagno delle medie, anche lui metallaro, e le interminabili discussioni su quali fossero le band migliori. A parte i Jaguar, dei quali personalmente apprezzavo(zo) anche il secondo singolo “Axe crazy” con Paul Merrell, andavamo matti per Witchifinder General, (del Sabba Nero avevamo ben poca conoscenza…). Per le nostre orecchie vergini (nn ancora di ferro!) Split Beaver, Bitches sin, Dragster, Grim Reaper e Twisted Ace, si contendevano di volta in volta il trono. Praticamente tutti… Riascoltandolo oggi il piacere è rimasto e, in fondo, nn cambieri i giudizi di allora. Grandi i Megaton mai ascoltati prima d’oggi. alla prossima!
Ale, le compilation erano molto apprezzate ed anche “utili” all’epoca per conoscere i gruppi emergenti. “HM Heroes” figurava fra le fondamentali, ho risposto in tal senso ad un altro lettore. Di quel collector’s pack che tu citi, tutti i singoli avevano le copertine (Twisted Ace era argentata) ma talvolta, anche acquistando per posta, pervenivano 45 giri con il solo involucro bianco. Hai citato vari altri nomi che potevano trovar spazio nella rassegna che vi ho presentato, ma inevitabilmente (non si tratta di un’enciclopedia) é stata fatta una selezione. Grazie e ci risentiremo prossimamente.
Ciao Beppe,
Wow! Leggere questa seconda parte con i brani dei link in sottofondo mi ha veramente fatto viaggiare indietro nel tempo, con un pizzico di orgoglio per avere potuto vivere in prima persona quello che stava nascendo… (anche se in modo marginale viste le difficoltà dell’epoca e la distanza dalla terra di Albione).
Dei gruppi di questo lotto apprezzo soprattutto Tytan, Witchfinder General, il suono immediato e coinvolgente dei Tank e su tutti gli immensi Diamond Head: al tempo, dopo due capolavori su major come “Borrowed Time” e “Canterbury” mi immaginavo un futuro decisamente roseo per loro al pari ad es. di Def Leppard…Non è andata cosi e credo sia stato un vero peccato.
Ancora grazie per queste perle che continui a regalarci
Fulvio, grazie per le costanti letture. Anche per me si è trattato di un tuffo nostalgico nel passato, ma è stato un impegno costruttivo, perché mi ha spinto a riconsiderare dopo tantissimi anni parte della produzione discografica di un’epoca storica che non tornerà mai più. Ognuno ha diritto di coltivare le proprie preferenze, sui Diamond Head mi sono espresso più volte. Difficile però che potessero eguagliare il successo dei Def Leppard, che hanno avuto il merito e la fortuna (affiancati da un produttore di grido), di creare una formula perfetta per i tempi e per il grande pubblico rock. Ciao
Che goduria risentire leggere e ritrovare piccoli capolavori (molti dei quali passati tra le mie mani nonostante la difficile reperibilità di allora) sepolti da tonnellate di musica inutile provenienti da un movimento irripetibile e straordinario dove la filosofia del Do It Yourself (mediata dal punk ) portava ogni garage (o meglio pub siamo in Britagna) band a provarci. La semplicità gli errori e l’ingenuità delle composizioni magari oggi ci possono far sorridere ma è indiscutibile l’influenza che ne è derivata, e per questo va celebrata. Grazie per riportare in auge un periodo fondamentale e sempre bistrattato e poco celebrato. Dopotutto un uomo ricorda sempre poco il periodo della sua adolescenza ma certamente quel periodo ne avrà forgiato per sempre la sua personalità e la vita matura. Mi piace pensare che la nwobhm fu proprio l”adolescenza del metal.
Ciao Giampaolo, da parte tua quella sull'”adolescenza del metal” è una bella considerazione; aggiungo che preferisco riascoltare la freschezza ed anche la varietà di temi di questi lavori che non lo schematismo rigido, preciso, professionale di tanto (troppo) metal “adulto” di tempi recenti. Ringrazio per l’attenzione e l’intervento puntuale.
Bellissima anche questa seconda puntata. Sarebbe ganzo tu riuscissi a stampare anche copie cartacee di tutto ciò, per chi era troppo giovane ai tempi di rockerilla. Perché il web passa ma il cartaceo rimane.
Lorenzo, ovviamente sono un reduce ed un estimatore della carta stampata, ma la mia attuale operatività é questa; inoltre ricordo che in (tra)passato spesso non ero soddisfatto per le impaginazioni, talvolta in spazi ristretti o fatte in modo approssimativo da grafici frettolosi. Mi piace invece com’é strutturato il layout del Blog da parte di Ruggero Montingelli (che era un collaudato regista televisivo) e di conseguenza, “impaginare” personalmente gli articoli, che visti sul PC a mio avviso risultano molto gradevoli (sul cellulare inevitabilmente questo non si coglie). In ogni caso, grazie dell’apprezzamento ed un saluto a te.
grazie ancora Beppe per questa seconda cavalcata nei polverosi meandri di un “genere” mai troppo esplorato e conosciuto, come dimostrano le perle ignote (almeno al sottoscritto) a nome di Megaton e Sacred Alien, mentre è fantastico vedere ancora una volta riconosciuto il valore di altre chicche da me possedute come gli EP di Witchfinder General, Thunderstick e Wrathchild (quest’ultimo in “sciccoso” vinile rosso!). Mi chiedevo, avendo nella mia discoteca anche numerose compilation, quali nel campo della NWOBHM tu ritieni imprescindibili. Infine, vedremo mai sul blog una riesamina di un fenomeno che ti ha visto assoluto protagonista, cioè la Italian Way of HM? Me lo auguro proprio …
Giuseppe, le compilation a mio avviso importanti per la scena sono state “Metal For Muthas” (Vol.I e II, EMI), “Metal Explosion” (BBC), “Heavy Metal Heroes” (Vol.I e II, Heavy Metal Rec. queste sono riunite in unico CD, se interessa) e “Brute Force” (MCA). Ovviamente ne sono seguite una serie, ad esempio varie della Ebony, oltre ad antologie su CD a distanza di anni, utili per chi non conosceva gli originali e per completisti. Servirebbe un capitolo a sé stante, lascio la ricerca sul web a chi è interessato, comunque ho enunciato l’essenziale. Tante grazie per ricordarti la definizione “Italian Way Of Metal” ed il mio coinvolgimento in prima persona. Oggi però da parte mia non c’è motivazione impellente per tornare sul tema, in quanto abbondantemente trattato su riviste e libri. Ciao, alla prossima, spero.