Un "Tocco" di pura classe
A volte ritornano, e colpiscono al cuore gli irriducibili cultori di un’epoca e di un suono che non torneranno mai più, rimpiazzati da “duplicati” moderni che raramente dispensano calore ed intensità comparabili agli originali, né possono eguagliarne il meticoloso gusto degli arrangiamenti, oggi più sintetici e stereotipati.
L’ultimo revival fra i classici da culto riguarda i TOUCH, ed attenzione, non ci addentriamo nel territorio inesplorato del rock psichedelico americano (almeno due gruppi omonimi, entrambi con un album all’attivo nel 1969…); si tratta del clamoroso quartetto newyorkese che in piena rivoluzione metallica, inaugurò il festival Monsters Of Rock di Castle Donington del 16 agosto 1980. Precedettero Riot, Saxon, April Wine, Scorpions, Judas Priest e l’attrazione principale Rainbow, con un superbo stile crossover, dal pomp-rock degli anni ’70 all’AOR del nuovo decennio, certamente più adatto alle grandi arene americane che al campo di battaglia preferito dagli headbangers.
L’unico album ufficiale, anch’esso del 1980, è stato consegnato alla storia come opera irrinunciabile per qualsiasi appassionato di rock melodico; nel numero speciale di Kerrang! di fine Eighties dedicato all’AOR, il vate Derek Oliver (oggi titolare dell’etichetta Rock Candy) l’ha eletto fra i 10 migliori LP “trascurati” di quel genere, accanto a reliquie di Balance, I-Ten, Trillion etc.; giunse al punto di candidare “Don’t You Know What Love Is”, al titolo di miglior canzone di sempre! La versione dal vivo di questo evergreen è immortalata sull’antologia celebrativa “Monsters Of Rock” della Polydor.
Il principale protagonista dell’evoluzione dei Touch (e compositore quasi esclusivo del loro repertorio) è uno “stregone delle tastiere”, Mark Mangold, che non demorde dai tempi di un misterioso l’LP di rock psichedelico del ’69 (United Artists) con il gruppo Valhalla.
Una specie in via d’estinzione quella dei grandi tastieristi, se pensiamo alla scomparsa (in ordine cronologico) di Crane, Lord, Emerson, Hensley e al ritiro dalle scene, quantomeno non tragico, di Giuffria.
Mangold si era presto lanciato sulle tracce dei maestri inglesi allestendo gli American Tears, un trio senza chitarre sul modello degli ELP, per sua stessa ammissione con ambizioni “virtuosistiche”; i primi due album per la prestigiosa Columbia, “Branded Bad” (1974) e “Tear Gas” (1975), dove Mark esercitava anche la leadership vocale, giustificavano certi slanci progressive – ascoltate ad esempio la title-track del secondo – ma senza dimostrare una personalità musicale svettante. Così Mark rifondava il gruppo congedando il bassista Greg Baze ed il drummer Tommy Gunn, sostituiti rispettivamente da Kirk Powers e da Glenn Kithcart; stavolta lo affiancava Craig Evan Brooks (cantante e chitarra solista), grazie al quale gli American Tears si trasformavano nell’archetipo dei Touch. Il terzo LP “Powerhouse” del 1977, rispecchiava il suono futuribile dei musicisti ed il loro peculiare rock melodico irrorato da copiose tastiere; lo stratosferico preludio di “Can’t Keep From Crying”, un arazzo dipinto dalle tastiere di Mangold, è nel suo genere secondo solo a “Fortune” degli Angel. Nel dicembre 1989, anno di eccellenza per l’AOR (come forse ricorderete da un precedente articolo sul Blog), celebrai “Powerhouse” su Metal Shock, recensione che potete rileggere in questa sede.
Un altro avvicendamento nel quartetto, che accoglieva il bassista e vocalist Doug Howard, completava la metamorfosi degli American Tears in Touch, meravigliosa creazione all’avanguardia dell’hard sofisticato che caratterizzerà gli anni ’80.
Tre anni dopo, sembravano attrezzati, se non per la conquista del mondo, almeno per un vistoso successo commerciale in America. Il loro manager era Bruce Payne, all’epoca con i Rainbow (in seguito si occuperà dei Deep Purple), grazie al quale il quartetto di New York veniva ingaggiato per il festival di Donington. Inoltre i Touch erano scritturati da Atco negli USA ed Ariola in Europa, dove il loro omonimo LP risultava ben distribuito nel maggio 1980 (in Italia, dalla CGD), a differenza di molte operine AOR difficilmente reperibili anche d’importazione. Efficace pure il design della copertina; al di là dell’ovvio (la notevole modella effigiata), prefigura una soluzione grafica intrigante, in linea con i tempi. Per la produzione del disco, il gruppo aveva puntato sullo storico precettore dei Queen che in America si era già distinto con Journey, Starcastle, Foreigner: Roy Thomas Baker era però gravato da troppi impegni, e la scelta ricadde su un suo ingegnere del suono, Tim Friese-Greene, che si rivelò tutt’altro che un ripiego. L’intento era quello di valorizzare le armonie a tre voci (Brooks, Mangold, Howard) che si rifacevano alla tradizione iniziata negli anni ’60 (Beatles e Bee Gees) e proseguita con CSN&Y e gli stessi Queen. Dunque il modello originale di “Black Star” è verosimilmente “Stone Cold Crazy” da “Sheer Heart Attack”, sebbene entrambe risultino debitrici verso un illustre precedente a sua volta dipinto di nero, ossia “Black Dog” degli Zeppelin.
Registrato principalmente nello studio Atlantic di New York, “Touch” amalgama con assoluta destrezza un suono dalla purezza cristallina, scandito da cori luminosi che puntano verso il cielo come i grattacieli di Manhattan, ma sostenuti da chitarra e ritmi drammaticamente hard. Non a caso il tagliente riff di “Don’t You Know” riecheggia il classico dei Toto, “Hold The Line”, mentre gli sprazzi sinfonici delle tastiere avvicinano la scuola britannica “restaurata” dagli Styx in chiave pomp-rock. Le nuove registrazioni di “Listen” e “Last Chance For Love”, già presenti sul terzo American Tears, attestano l’elegante maturità degli ormai collaudati Touch.
Tratto da Metal Shock n.58 – dicembre 1989
Vi invito a rileggere anche la recensione allegata; risale al 1987, primo anno di Metal Shock (Relics), e documenta l’attenzione sempre riservata all’artigianato discografico di questo tenore. Purtroppo, non sempre la statura artistica viene ripagata da vendite proporzionali; l’LP non raggiunse i “quartieri alti” di Billboard l’LP e neppure i singoli “Don’t You Know” (si arrestò al fatidico n.69!) e “When The Spirit Moves You”, ebbero miglior fortuna.
Nonostante questa tiepida accoglienza, i Touch colsero l’opportunità di registrare un secondo album per l’Atlantic, prodotto da uno dei loro eroi, Todd Rundgren, ammirato per il peculiare tocco progressivo dei suoi Utopia. Disgraziatamente la scelta si rivelò fallimentare; il “mago” Todd frequentò assai poco il suo studio di Woodstock che li vedeva all’opera, e addirittura la registrazione fu rovinata da sonorità distorte…Il celebre Bob Clearmountain la “salvò” con un rimissaggio, ma “Touch II” fu accantonato negli archivi senza possibilità di pubblicazione, ed il gruppo finì per sciogliersi.
Anni dopo fece la sua apparizione sul doppio CD “The Complete Works” (1998, Frontiers) rivelando che il potenziale del quartetto, seppur penalizzato dalla lacunosa incisione, era tutt’altro che decaduto.
Mark e lo stesso Brooks furono parte attiva dell’omonimo primo album di Michael Bolton su Columbia, delizia per timpani AOR, specie l’indimenticabile “Fool’s Game”, composta dai due ex-Touch con lo stesso Bolton, che replicherà firmando in coppia con Mangold “I Found Someone”, successo di Cher al “nuovo” debutto su Geffen, dove la cantante era affiancata da luminari del rock melodico.
Craig Brooks parteciperà all’albun solo di Roger Glover “Mask”, mentre la sezione ritmica Howard-Kitchcart tentava di rilanciarsi con un nuovo gruppo, 15 Minutes, senza approdare ad alcunché. Doug Howard però continuerà egregiamente nella band di Edgar Winter e nella collaborazione, stavolta proficua, con Rundgren negli Utopia.
Mark Mangold restava di gran lunga il più in vista dei quattro, costituendo un’altra fantastica unità dagli inesorabili tratti melodici, Drive She Said (vedi: 1989-AOR Heaven sul Blog) ed in seguito, The Sign. Dalla seconda metà degli anni ’90 in poi, il tastierista é incessantemente attivo: pubblica lavori da solista, rifonda gli stessi Drive She Said e dal 2018 al 2020 realizza ben tre nuovi album degli American Tears, prima di riunire l’originale line-up della sua avventura più prestigiosa, Touch.
Nel 2014, un’apparizione al Firefest di Nottingham, dove Mangold si era fatto accompagnare dal cantante Goran Edman (Madison, Malmsteen, Norum etc.) e da altri musicisti svedesi, ridestava interesse attorno al repertorio dei Touch, ma a giudicare dai filmati su YouTube, l’exploit risultava tutt’altro che memorabile.
TOUCH: “Tomorrow Never Comes” (Deko/Escape)
Nel 2020, l’ipotesi di celebrare il 40° anniversario dell’uscita dell’album trovava spazio nell’agenda dei musicisti; Mark si era incontrato a New York con Doug Howard e Glenn Kitchcart, dedicandosi alla composizione di nuovi brani e nei weekend si univa a loro Craig Brooks, residente a Chicago. Leggenda vuole che la magia sia tornata a volteggiare nell’aria fin dalle prime prove, quando intonarono “Don’t You Know What Love Is”, scoprendo che potevano ancora interpretarla ai livelli dell’originale.
Oggi, l’effettivo successore del classico 1980 é opera compiuta; a differenza di tanti famosi ritorni che si limitano la lustrare i trofei di una storia importante, “Tomorrow Never Comes” ha un quid in più, é davvero emozionante per chi ha amato la stagione d’oro del rock melodico. Triste invecchiare per le rockstar, quando le rughe ed i segni del tempo fanno scempio di immagini giovanili ed aitanti, di capelli scompigliati al vento…ma ancor più triste il declino se la proposta musicale ha perso nerbo e non dispone più della forza espressiva che le veniva riconosciuta.
Stavolta non é solo la copertina a riallacciare il filo con il passato, nell’esibire un remake “cosmico” dell’immagine che illustrava il singolo “DYKWLI”, apparentemente ispirata ad un particolare del “Giudizio Universale” di Michelangelo.
E allora non indugiamo oltre, diamo lo start al brano-manifesto “Tomorrow Never Comes”, dove i Touch chiamano a raccolta tutti i cliché del pomp-rock diffusi sul pianeta, per restituirgli linfa vitale; intro galattica, ritmi galoppanti sul riff a spirale delle tastiere come nella miglior tradizione del genere; perfette stratificazioni dei cori e nell’estensione vocale svetta Craig Brooks, che ritroviamo spettacolare sulle note alte, specie nel finale, dove si conferma una forza trainante a dispetto dell’età avanzata.
“Let It Come” gioca sul sicuro, i Touch non resistono alla tentazione di citare il monumentale riff di “Don’t You Know”, ma la punteggiatura della solista é elettrizzante ed il coro a più voci come sempre magistrale, altisonante.
Aggiungiamo che i Touch osano in specialità difficili a scovarsi nel 2021; nel rock sinfonico, in miniatura ma non troppo (quasi 8 minuti), di “Swan Song”, cori regali con reminiscenze dei Queen avvicendano partiture classicheggianti delle multiformi tastiere di Mangold, che sembra animato dallo spirito di Keith Emerson, specie in un trionfale passaggio di synth. E poco importa che la sua voce nella strofa d’apertura non possa competere con quella di Brooks, qui come altrove: il brano é un’autentica fantasmagoria di suoni e colori musicali! Della stessa matrice é “Frozen Ground”, introdotto dalla purezza cristallina del piano di Mangold e da una celestiale tessitura strumentale che si evolve in raffinati crescendo, miscelati alle parti vocali con eleganza superiore.
Prima di affrontare tracce di maggior immediatezza, segnaliamo il respiro siderale di “Scream At The Sky”, dove la chitarra di Brooks svela la riconosciuta influenza di Dave Gilmour dei Pink Floyd, mentre l’andamento melodico avvicina non poco i più “atmosferici” Blue Oyster Cult del quinquennio 1977-81.
Ma i Touch sanno esibire anche hard rock eccitante senza elaborati arrangiamenti, uno degli esempi più diretti é “Fire And Ice”, che ci riporta ai tempi in cui incisività dei riff e melodia erano un vanto del rock americano, con refrain coinvolgenti e ficcanti assoli di chitarra. Un’altra prova di bravura in quest’ottica é “Lil Bit Of Rock’n’Roll”, trascinata da cori squillanti e da un funambolico avvicendamento fra gli assoli di Brooks e Mangold. Se non vi fa scattare dalle sedie, forse non siete in gran forma…
Potremmo proseguire ad oltranza, perchè non c’è un solo episodio trascurabile fra i 12 di “Tomorrow Never Comes”; ad esempio l’attraente ballata AOR “Trippin’ Over Shadows”, sulla scia di luminari del calibro di Foreigner e Journey, oppure “Wanna Hear You Say”, sorta di risposta agli Yes in chiave americana (Styx, Starcastle), quindi scevra da iperboli tecnicistiche.
C’é anche un atto scaramantico perpetrato da Mangold; se i primi Touch avevano riregistrato brani degli American Tears, e analoga mossa si era ripetuta con i Drive She Said, che riprendevano “Don’t You Know” dei Touch, stavolta la nuova versione riguarda “Glass”, già presente nell’ultimo album degli AT, “Free Angel Express” (2020) ed ancora ben riuscita.
Infine “Run For Your Life”, che commenta gli effetti dirompenti della pandemia, ma vuole offrire una via di fuga dal senso d’isolamento iniettando lo spirito divertente del rock’n’roll, suggella l’album nello stile degli Angel e degli April Wine di “Nature Of The Beast”.
Quarantun anni (dopo) e non risentirne: difficile immaginare un come-back più riuscito.
“Tomorrow Never Comes” rimarrà un’infatuazione di nicchia, ma certamente l’arte dei Touch vive un nuovo, insperato momento di gloria.
Carissimo Beppe, mi è finalmente arrivato il nuovo CD dei Touch. Dire che sono soddisfatto è persino poco. La “sincerità” che infondono queste vecchie glorie nel loro campo è qualcosa che non si ascolta più da decenni, ormai. La title-track canzone AOR del millennio. Ciao.
Tutti noi ci commuoviamo un po’ quando vecchi idoli tornano ad emozionarci con la loro musica. Trovo che sia un sentimento profondamente umano, e fa bene a chi lo prova. Magari è presto per emettere sentenze impegnative come la tua, ma entusiasmarsi è bello. Ciao Alessandro, gasiamoci con i Touch…
Esaltiamoci, Beppe, esaltiamoci. Finita questa generazione di class rockers, temo che ci aspetteranno tempi molto grami. Ciao.
Ciao Beppe ( ed Ale), anche io sto aspettando il nuovo Touch ( leggendo QUEL Monsters of Rock uno rimane attonito ), ti volevo chiedere se per te è meglio Powerhouse o Touch? Personalmente propendo per il secondo (a parte Can’t keep from cryin’ ) che per me sta al vertice col primo degli Spys per quel che concerne L aor pomp. Trovo che gli American Tears avessero nel serbatoio ancora suoni blues ( Slow Train ad esempio, e stiamo parlando del disco dei loro più vicino ai Touch ) come molte bands pre Escape dei Journey, e di casi se ne potrebbero fare a iosa ( Cobra o Target di Jamison – Survivor altra ban che ha cambiato il genere – per esempio) . I Touch invece li vedo già come forerunner , o sbaglio? Molto bello il titolo, alla Prophet……nostalgia degli eighties, come minimo. Grazie Beppe perché non sapevo nemmeno del nuovo Touch, alla faccia del genere di nicchia!
Fabio ciao, anch’io propendo per “Touch” perché ripensando al periodo, lo ritengo un passo in avanti rispetto a “Powerhouse”, che comunque conserva notevoli atmosfere con un affascinante aroma Seventies, oltre a quel gran classico che citi. Le considerazioni che fai sono corrette, ma è proprio necessario scegliere? Sono dischi da conoscere e possibilmente da avere. Grazie
Ciao Beppe e Fabio, pure io dovendo fare una scelta con pistola immaginaria puntata alla testa, opterei per Touch. Io e Fabio siamo in attesa entrambi del nuovo Tomorrow, oltre ad essere due tuoi avidi lettori da tempo immemore. Uno dei pochi lati positivi del web è proprio questo: se ai tempi di MS ti si scriveva un’epistola calligrafica con possibilità remote di interfacciarsi, oggi ci si può confrontare, anche grazie alla tua disponibilità a rispondere. Molto bello. Grazie Beppe, ciao Fabietto!
Ciao Beppe. In attesa dell’arrivo del CD di “Tomorrow Never Comes”, ho rimesso il primo omonimo Touch nel lettore CD della macchina, col prevedibile risultato che non vuole più uscire. Una domanda: preferisci la versione originale di “Listen” su “Powerhouse” degli American Tears, oppure quella più stringata che chiude “Touch”? Grazie, un caro saluto.
Alessandro, risposta non scontata: entrambe le versioni elaborano a loro modo lo stile pomp-rock. Quella degli American Tears, con una dimensione post-prog Seventies ed è dunque più estesa nel finale. Il remake dei Touch ha un taglio più moderno e AOR, conciso ma non troppo, eccelle nelle parti vocali. In ossequio al talento di Mangold, che immagino abbia voluto perfezionarla, si può considerare definitiva “Listen” dei Touch, ma non è un dogma. Ciao
Ciao Beppe, scopro solo leggendoti che i Touch hanno pubblicato un nuovo album. Grazie per la dritta, sicuramente lo metto in lista spese. Inoltre volevo chiederti cosa ne pensi di “Pedal To The Metal” dei Drive She Said. Grazie.
Alessandro ciao, pur non considerandolo a livello dei primi due album, mi è piaciuto “Pedal To The Metal”. Sicuramente i Drive She Said ripetevano la formula a loro nota, episodicamente hanno tentato di “modernizzare” il loro suono, ma il risultato é migliore di altri della loro discografia. Tieni conto che devo essere inevitabilmente stringato nelle risposte, grazie.
Figurati, anzi grazie per rispondere sempre. Ciao Beppe.
L’album è veramente bello ed ottimamente arrangiato. La differenza con le nuove produzioni Aor si sente eccome. Io però ultimamente sto anche ascoltando alcuni lavori di questa chiamiamola nuova ondata scandinava e non solo . Mi sembra ci siano delle buone cose. Il problema di questi nuovi lavori di rock melodico è il suono a volte davvero troppo asettico. Vorrei anche richiamare l’attenzione sulla registrazione della batteria nelle incisioni degli ultimi tempi il suono nella maggior parte dei dischi è piatto monocorde completamente senza dinamica. Secondo me molti lavori moderni di Power metal heavy metal ed Aor anche di grandi nomi sono penalizzati da questa situazione. Un caro saluto da Carmelo.
Ciao Carmelo, rieccoti! Sui Touch mi fa molto piacere (per loro soprattutto) che il come-back sia stato decisamente apprezzato. Lo Scandi Rock é una sorta di Ultima Thule per gli appassionati di AOR, ma fin dalle origini l’ho trovato comunque a livelli non paragonabili (con qualche eccezione) agli americani Top Class. D’accordo, senza reticenze, sulle lacune delle sonorità “moderne”, sia in ambito melodico che heavy metal. Se qualcuno la pensa diversamente, può intervenire serenamente…Grazie
Amo l’esordio, ringrazio Frontiers per aver pubblicato l’ottimo e mai uscito seguito, ritengo molto credibile anche questo ritorno. L’ho ascoltato parecchio da quando è uscito e mi sembra decisamente il frutto di una collaborazione fattiva tra tutti i componenti. Il maggior pregio, a mio parere, è la mancanza di fillers. Ovviamente i Touch li ho scoperti grazie a te Beppe! 🙏🙏🙏
Ciao Enrico, mi fa molto piacere che l’esordio dei Touch sia stato da te scoperto tramite miei scritti. Ringrazio chi lo ricorda perché non é affatto scontato. Sapessi quanti si sono “dimenticati” delle fonti d’origine. Mi associo al riconoscimento dell’ingente lavoro svolto da parte della Frontiers. Continua a seguirci, se ti va.
Ammetto che devo metabolizzare ancora questo nuovo disco piovuto dal cielo in maniera inaspettata.
Il primo Touch resta inarrivabile e qualche traccia pesca da quel gran disco ma qualche altra (Try to let go ad esempio) mi lascia interdetto.
Plauso ai Touch che si rimettono in discussione e una sufficienza la strappano vediamo se nei prossimi ascolti cresce.
Sempre un emozione leggerti Thx Beppe!
Caro Luca Tex, che il primo Touch resti inarrivabile e testimonianza di un’epoca ormai tragicamente finita, é fuor di dubbio. Che il nuovo “Tomorrow…” sia più vicino ai suoi livelli di quanto si potesse ottimisticamente immaginare, per me é altrettanto vero. Grazie dell'”emozione”…
Non ho mai amato l’A.O.R., anzi lo ho proprio disdegnato ….. e non penso a torto.
Esiste però sempre una regola iuris, concedere i benefici del dubbio e prima sempre … “vedere cammello” … regola cui forse troppo spesso ho derogato.
Beppe mi ha riportato sempre nei ranghi: molte volte ho visto le carte e scoperto (a mio modesto avviso) il bluff e sono rimasto delle mie opinioni … ma grazie a Beppe ho ricevuto anche piacevolissime sorprese che mi hanno permesso di approfondire e comprendere al di là di … pregiudizi.
E’ stato così con gli Starz ed ora è con i Touch …. la loro re-entrè e decisamente di rilievo anche alle orecchie di uno come me cresciuto e nutrito di British Hard Rock, Acid Psychedelic Hard Rock, Detroit Sound, High Energy Rock’n Roll e Australian Rock … ed è una cosa di cui ti do (ancora una volta) pubblico riconoscimento e soprattutto ringraziamento.
Continua a non piacermi – a livello generale – l’A.O.R. … però dopo gli Starz, ho imparato in queste ore ad apprezzare profondamente i Touch.
Come si dice? Non c’è il due senza il Tre, per cui rimango in serena attesa della terza scossa melodica USA
🙂
Fabio ciao, ti riconosco fra chi ci segue fedelmente, se mi concedi il termine; non preoccuparti che nessuno è immune da pregiudizi, tantomeno certi critici che pontificano ritenendosi al di sopra delle parti (e magari non conoscono capillarmente tutto ciò che ci vorrebbero fa credere). Anch’io ho alcune radici musicali in comune con te, ma ciò non mi impedisce certo di amare l’AOR, un genere spesso snobbato, ma non è questa la sede per disquisirne. Il tuo commento sottende un aspetto importante: ascoltare per quanto possibile con “mente aperta”, senza farsi condizionare troppo da etichette o altro. In tale ottica io non considererei gli Starz un gruppo AOR, ma decisamente hard rock con impronta marcatamente americana. In ogni caso, straordinari. I Touch vantano un superbo livello qualitativo e sono stati degli antesignani del rock melodico USA. Fa piacere che abbiano confermato il loro talento e ti siano piaciuti, grazie.
Ciao Beppe,
Sono felicissimo di questo ritorno dei Touch e la cosa che mi rallegra maggiormente è che il disco oltre che bello è, direi, “vivo”…cioè secondo me si sente che è suonato con il giusto approccio da “vecchi leoni” che però hanno ancora l’entusiasmo di comporre e suonare divertendosi nel farlo.
Il risultato è ottimo e se il suono, come qualcuno ha evidenziato, non è “attuale” chi se ne frega…questa è musica immortale e se in pochi la possono/vogliono apprrezzare non è detto che sia un difetto.
Ultimamente seguo meno di un tempo il genere AOR / Melodic…i nuovi gruppi mi sembrano quasi tutti votati a proporre le stesse cose…le case discografiche usano spesso gli artisti come polli da batteria, usandoli in n. progetti parallelli che inevitabilmente tendono ad assomigliarsi…è una cosa che non condivido e sinceramente non capisco.
Per fortuna ogni tanto escono lavori come questo che fanno ritornare il sorriso e ti riconciliano con le vecchie passioni.
Un saluto ed un grazie, come sempre.
Ciao Fulvio, non so chi abbia evidenziato a proposito di “Tomorrow Never Comes” che il suono “non é attuale”: preferisco non commentare…Non penalizzerei in particolare l’AOR e generi affini per il livellamento verso il basso del rock contemporaneo, trattandosi di situazione purtroppo generalizzata. Ovviamente, giusto seguire ciò che piace e trasmette emozioni. La tua conclusione é assai appropriata; ti dirò che il nuovo Touch mi entusiasma di più del ritorno di tanti famosi nel 2020. Grazie a te e ai lettori che ci seguono con fiducia.
Grande Beppe
non ho ancora sentito il disco, ma mi fido , come sempre del tuo giudizio.
Mark Mangold è stato uno dei musicisti che ho piu’ seguito nella sua carriera e che piu’ mi hanno stimolato.
I Drive She Said erano eccezionali e così i Touch.
Fai benissimo, anzi lo facciamo tutti, a tenere in vita un suono che è veramente fantastico e fatto da artisti che sanno veramente suonare.
Non siamo piu’ di moda ? E chi se ne frega, siamo vecchi , passati e felici di esserlo.
Agli altri la melma di oggi…
(P.S.: siamo ragazzi nelle emozioni!)
Sognando sempre di essere su una grande Highway in bella compagnia…
ciao grande
Caro Francesco, fidarsi é bene, ascoltare é meglio, si potrebbe dire. Condivido comunque la tua passione e l’attaccamento alla maglia (di quel suono…). Mangold é un grande, attivo continuativamente dal 1969 (a livello discografico); ha collaborato con artisti di successo ed oggi si rimette in gioco con la formazione alla quale è probabilmente più legato. Ha detto che il prosieguo dei Touch dipenderà anche dalle reazioni a “T.N.C.”. Comunque vada, a livello qualitativo è stato un successo e noi gli rendiamo onore. Ti ringrazio, buon weekend.
Grande Beppe, leggendo la tua recensione mi pongo un quesito su una questione… Ma ha davvero senso riproporre oggigiorno dei comeback discografici a distanza di così tanto tempo? Che tipo di mercato può avere un disco di un gruppo che già ai tempi è stato snobbato dal grande pubblico, se non una ristretta cerchia di appassionati come noi che veneriamo questi musicisti per la loro effettiva importanza storica ed oggi sono emeriti sconosciuti ai più o relegati a curiosità enciclopedica del rock?
Più che altro in molti casi lo vedo un trend quello di riesumare e riemergere anche i gruppi più scalcinati che si ripropongono come gruppo storico di un genere, che già se non li ha c.. onsiderati nessuno all’epoca un motivo ci sarà…
Certo la passione guiderà la voglia di tornare a mettersi in gioco, ma che speranze si può avere nella giungla musicale di oggi?
Ad ogni modo i Touch verranno ricordati per il loro bellissimo disco d’esordio e basta, poco importa se anche questo comeback è ugualmente stupendo…
Dunque Roberto, le vendite discografiche sono nettamente calate per tutti ed io rispetto molto chi si è guadagnato con meriti effettivi la passione di una “ristretta cerchia di appassionati”. I segnali positivi sul ritorno dei Touch sono stati incoraggianti ad ogni latitudine, e mi interessa relativamente occuparmi di gruppi “da classifica”; ti dirò che mi piace moltissimo l’idea di vedere un articolo sui Touch (e non solo ovviamente) aprire il Blog. E’ la nostra dimensione, con tutti i limiti del caso, ma ognuno fa la sua parte. Al contrario, assistere all’uscita di una nuova rivista di hard rock e ritrovare in copertina le solite superstar (perché fanno vendere), mi mette un pò di tristezza. Un paio di lettori hanno accennato a punti di contatto fra AOR e Prog: esistono tantissimi gruppi-culto storici anche del Prog che sono giustamente esaltati dagli esperti di settore, sarebbe colpevole non averli considerati. E sulla memoria storica del pubblico non mi preoccuperei troppo. La tua osservazione é fondata, ed io ti ho risposto. Grazie, ciao.
Ciao Beppe, se oggi ho sufficientemente chiara la differenza tra AOR e le altre forme di hard melodico lo devo, in gran parte, ai tuoi interventi e recensioni.
Ne approfitto per riportare, se interessa, la testimonianza di una generazione “ingannata” dall’uso improprio dell’acronimo AOR: riesumato in qualità di termine-ombrello a metà anni ’90, quando ci fu effettivamente una tiepida rinascita dell’ hard & melody (si pensi ai Fair Warning o ai Ten di “The Robe”), accadde che qualunque artista con velleità “class” o “deluxe” venisse automaticamente etichettato come AOR. Situazione quantomeno fuorviante!
Sono d’accordo con il lettore che sottolinea la connessione tra AOR, prog e (aggiungo) pomp rock.
Saluti e buon weekend.
Ciao Massimo, se i miei interventi ti sono serviti a definire i contorni di certe aree musicali (premesso che non esistono compartimenti stagni, neanche nei generi “estremi”) mi fa senz’altro piacere. Oggi si possono leggere una quantità di recensioni o articoli, sia su carta stampata che sul web, e l’altra faccia della medaglia é che a tanta diffusione non corrisponde necessariamente competenza adeguata. Non solo nella musica rock, le opinioni possono essere anche diametralmente opposte. Lo dico in termini soft, non mi interessa polemizzare, poiché ognuno é libero di selezionare fonti e riferimenti. D’accordo, il pomp-rock é stato il trait d’union fra prog e AOR. Grazie e buon weekend a te e a voi che leggete.
Complimenti per la recensione e per la storia di questa grande band, che ho solo recentemente (e colpevolmente) scoperto grazie a un vecchio amico malato di AOR 😉
Comunque quando scendono in campo i vecchi leoni certe giovani leve del Nord Europa fanno una magra figura …… senza polemica….. per me solo un dato di fatto, questi musicisti che hanno attraversato tutte le epoche dal 4 piste al Pro Tools hanno proprio una marcia in più …
Complimenti ancora per le belle recensioni e per la visione assolutamente obiettiva e realistica dell’importanza del Prog e dell’AOR, e di quanto spesso viaggino bene assieme 🙂
Max
Massimo, sono davvero contento del fatto che certe mie opinioni siano da voi raccolte anche quando sono tutt’altro che scontate; cito ad esempio la tua sul “viaggiare insieme” del Prog e dell’AOR, spesso considerati superficialmente distanti (ma il modello degli Asia era pur lampante!). Sul paragone fra vecchi leoni e giovani leve non colgo un atteggiamento polemico, ma una considerazione realistica. Ti ringrazio, ciao.
Come dire….. Gli Yes hanno almeno due capolavori Prog a catalogo (per me Close to the edge e Fragile) e un capolavoro AOR…. 90125……per cui il confine è molto labile…. Penso a band dimenticate (non da noi credo 🙂 come New England, Zon, Trillion….
Però che bello condividere tutto questo con veri appassionati e intenditori…… Diciamocelo 😉
Che dire Beppe?Speravo in una grande prova dei Touch,conferma avuta dopo l ascolto del singolo omonimo,quanto in uno dei tuoi commenti memorabili su questo blog..
Entrambe le mie speranze sono state esaudite..
Siete dei mumeri 1…
Don t stop believin..
Grazie Paolo M, sono lusingato per l'”accostamento” con i Touch di Mark Mangold, davvero un grande. In comune abbiamo forse un ruolo un pò “di nicchia” (fatte le debite proporzioni!). Certo i Touch sono usciti nel 1980 su major, io su testate “major” non ho mai scritto! Ah, ah ah…Faccio un pò di autoironia, d’altra parte di fenomeni della carta stampata è piena l’Italia. Sei stato gentile, ciao!
Aspettavo con ansia, la tua recensione sul disco nuovo dei Touch, e già immaginavo che ti avrebbe toccato le corde! Grandissimo ritorno dopo 41 anni. Fantastico come il comeback dei Roxanne del 2018, un secondo disco dopo 30 anni ma strepitoso. Grazie Beppe
Ciao Paolo, talvolta ciò che si scrive corrisponde alle aspettative dei lettori, in altri casi no (vedi Greta Van Fleet), ma l’importante é essere onesti con sé stessi e nei confronti di coloro che ci seguono, e fortunatamente non sono pochi. Sono d’accordo sui Roxanne, che già all’esordio su Scotti Bros del 1988 avrebbero meritato più fortuna. Grazie per il tuo riscontro.