The Godz
Re-Make / Re-Model
Il fenomeno delle cover versions si è gradualmente intensificato negli anni, forse per il naturale “invecchiamento” della storia del rock, con un repertorio in costante espansione dal quale rifornirsi a piene mani, nondimeno per fini commerciali: l’efficace rielaborazione di un vecchio hit, possibile materia di esercizio negli anni di apprendistato, può rivelarsi un veicolo competitivo sulla strada del successo, poiché una canzone vincente resta sempre tale; oppure si può intravedere in un brano meno fortunato, le potenzialità per renderlo famoso con un efficace restyling.
Abbiamo già scritto di esperienze discografiche istruttive come il “Garage Days Re-Revisited” dei Metallica (1987), funzionale nel far luce sulle loro principali influenze, quando era ormai chiaro che a beneficiare del trattamento non erano i giganti heavy metal della Bay Area, ma i gruppi che li avevano ispirati, spesso finiti nell’oblio. Metallica hanno sicuramente influenzato questo genere di “recuperi” e negli anni ’90, si è rafforzata la pratica degli album-tributo, dove i grandi del passato venivano onorati da celebrità attuali, che ridavano lustro ai loro classici; ai principali ispiratori metallurgici del decennio, Black Sabbath, è stato reso omaggio nel primo “Nativity In Black”, con un anno d’anticipo rispetto ad “Encomium”, tributo alla più rimpianta rock band di sempre, Led Zeppelin.
E’ acclarato che in seguito, l’abuso di questi standard di ripescaggio sia diventato persino stucchevole, ma tanto per restare in ambito heavy, gli anni 2000 hanno fornito alcuni saggi d’eccellenza, dall’epica versione dei finlandesi Nightwish di “Over The Hills And Far Away” di Gary Moore, modellata sulla superba voce soprano di Tarja Turunen, alla spettrale, ipnotica “If You Have Ghosts” di Rocky Erickson – autentica leggenda della prima era psichedelica – rivisitata con classe innegabile da autentici specialisti in cover (e non solo) come i Ghost.
Giungendo al nostro tema, vi propongo uno sguardo retrospettivo ed emozionale su dieci cover ormai disperse nel flusso del tempo che scorre, ma meritevoli di rivalutazione. Ovviamente non si tratta di capisaldi come “Hush”, molto più famosa nella versione dei Deep Purple che non nell’originario singolo del dimenticato Billy Joe Royal; neppure di “Diamonds And Rust” dell’eroina folk Joan Baez – brutalizzata dai Judas Priest – tanto meno di “You Really Got Me”, che i Van Halen resero persino più famosa dell’originale dei Kinks.
Senza risalire alle origini del beat e del pop inglese, mi sarebbe piaciuto rispolverare quel fantastico album di pura dinamite rock’n’roll, “Back In The U.S.A.” degli MC 5, con energetiche versioni di “Tuttifrutti” (Little Richard) e della title-track (Chuck Berry); oppure i Grand Funk che rialzavano la temperatura di “Inside Looking Out” degli Animals, o gli sfrontati New York Dolls che volgarizzavano “Pills” di Bo Diddley.
Ci sarebbe materiale per un’enciclopedia a riguardo, ma non è questo il caso! Conoscendo un pò il nostro target di lettori, ho focalizzato la selezione prevalentemente sugli anni ’80, nei termini che leggerete (se vi piace…).
N.B.: La sequenza riflette l’ordine di pubblicazione delle versioni, non è una classifica.
Tratta dall’album: “Rampant” (1975)
Versione originale: Yardbirds (1966)
Sulla grandezza degli Yardbirds non iniziamo nemmeno a discutere; certamente non hanno riscosso il successo di massa di Beatles, Rolling Stones, The Who, ma si tratta di un leggendario gruppo-cardine della british invasion e nessuno, proprio nessuno, può vantare di aver accolto nelle sue file tre chitarristi fra i più geniali della storia del rock: Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page.
Ovvio che non sia altrettanto inossidabile la fama dei Nazareth, finiti nell’oblio nonostante siano da annoverare fra le più popolari formazioni hard rock del Regno Unito in un’epoca fulgida (1973-’76), che nel caso specifico va dal terzo LP “Razamanaz” al settimo “Close Enough For Rock’n’Roll”. Dopodiché, come tanti altri, furono destabilizzati dalla rivolta punk.
Il trait d’union fra Yardbirds e Nazareth si chiama “Shapes Of Things”, una pietra miliare del 1966 che annunciava la rivoluzione pop-psichedelica, sferzata dal pionieristico effetto “fuzz” nel vibrante assolo di Beck. Il quartetto scozzese lo convertiva in un classico heavy davvero rampante, grazie anche all’avventurosa produzione di Roger Glover (in libera uscita dai Deep Purple), che riversava sul brano tonnellate d’echi e riverberi elettronici; la versione dei Nazareth sfociava in una coda strumentale dal titolo rivelatore, “Space Safari”. Il cantante Dan McCafferty si destreggiava benissimo con la sua ugola al vetriolo, che a mio avviso ha anticipato e forse influenzato i ben più rinomati Bon Scott e Brian Johnson, mentre il bridge centrale è gestito dalle liquide sonorità della solista di Manny Charlton (in futuro, produttore delle prime sessioni di “Appetite For Destruction”, su insistenza di Axl Rose). La spinta propulsiva della batteria di Darrell Sweet completava l’opera con furore. Campioni nell’adeguare al proprio stile gioielli “trafugati”, i Nazareth si sono distinti rivisitando anche “This Flight Tonight” (Joni Mitchell) e “Love Hurts” (Everly Brothers), senza dimenticare un’altra mirabilia pop-psyche, “My White Bicycle” dei Tomorrow.
Tratta dall’album: “The Godz” (1978)
Versione originale: Golden Earring (1973)
Scegliere un brano di grande caratura ma di non altrettanta popolarità, saperlo trasfigurare rendendolo un manifesto del proprio stile è virtù che si trova solo nel Paradiso delle cover “elette”!
Golden Earring sono stati indimenticabili veterani del rock olandese, sorta di Rolling Stones dei Paesi Bassi di origini antidiluviane (1961), con un quartetto pressoché immutato dal 1970, per oltre cinquant’anni; solo la malattia neurodegenerativa che affligge il chitarrista e leader George Kooymans li ha costretti ad un ritiro forzato, nel febbraio 2021. “Candy’s Going Bad” è stata un pinnacolo del loro album più famoso, “Moontan”, pur soverchiata dal successo di “Radar Love”: un fantastico brano rock dall’approccio funky e dal dilatato finale psyche-prog.
Diventerà il detonatore della tempesta perfetta scatenata dai Godz, una band di Cleveland, Ohio, che a mio avviso ha somatizzato la pura essenza “fuorilegge” dell’hard rock’n’roll americano.
Prodotto da Don Brewer, l’omonimo “The Godz” eguagliava se non superava il meglio dei Grand Funk, il gruppo del loro stesso mentore. Una straripante versione di quasi dieci minuti, dove il leader Eric Moore riprende la memorabile linea melodica dell’originale, inasprita da saggi di chitarra superamplificata dei messeri Mark Chatfield e Bob Hill e con un finale giostrato su un drumming frastornante, che scandisce un pandemonio di improvvisazioni rumoristiche. Basta ed avanza per promuovere “Candy’s Going Bad” ad apoteosi della gloriosa corsa di un classico album.
Tratta dall’album: “Harder…Faster” (1979)
Versione originale: King Crimson (1969)
Il ricordo degli April Wine è alquanto sbiadito, ma si è trattato di una formazione basilare della florida scena canadese; costituiti dal chitarrista e vocalist Myles Goodwin nella Nova Scotia addirittura nel 1969, sono stati i primi in quella nazione a conquistare un disco di platino. Solo in seguito hanno accusato il sorpasso di Rush, Triumph e Loverboy, nonostante buoni riscontri nelle classifiche U.S.A., dove i loro album erano licenziati dalla Capitol. In particolare “The Nature Of The Beast” (1981), incensato dalla critica inglese, resta un memorabile esemplare di hard rock melodico canuck, illuminato dai fuochi della superba “Sign Of The Gypsy Queen”.
Ancor prima, nell’ottavo album di studio “Harder…Faster”, gli April Wine ebbero l’ardire di misurarsi con l’immortale “21st Century Schizoid Man”, atto d’apertura di “In The Court Of The Crimson King”, che ha realmente inaugurato l’era prog-rock. Alla prova dei fatti la versione dei canadesi ricalca la formula dell’originale, ben nota per la sua durezza espressiva, ivi compresa la voce distorta che ripristina l’incubo futurista inscenato da Greg Lake, ed il finale convulso in un’orgia di effetti parossistici. Non c’è il sax di Ian McDonald, ma la presenza di ben tre chitarre (oltre a Goodwyn, Brian Greenway e Gary Moffet) incrementa il ritmo pirotecnico inventato da Fripp in chiave “progressivamente” heavy.
Una revisione non certo ribelle, ma competente e coraggiosa di un classico assoluto, e questo si, rivoluzionario. Tanti anni dopo, lo manipoleranno anche Voivod e…Ozzy Osbourne!
Tratta dall’album: “And Now…The Runaways” (1981)
Versione originale: Slade (1972)
Mai abbastanza riconosciute dal pubblico heavy metal, che qualche anno dopo accoglierà favorevolmente nei propri ranghi Girlschool, Rock Goddess e Vixen, le Runaways restano la prima band interamente femminile ad aver spezzato le barriere, irrompendo nel territorio proibito riservato ad irsuti rockers.
Qualche anno prima ci avevano provato senza troppa fortuna Fanny, pioniere americane della specialità, ma fin dal primo album di studio, The Runaways avevano dimostrato una carica superiore, minorenni d’assalto votate ad un rock’n’roll stradaiolo e sexy, per giunta istigate da un perverso precettore, Kim Fowley, che una di loro accuserà di abusi. Il secondo “Queens Of Noise” (1977) è un disco che ogni appassionato di rock duro non può permettersi di ignorare; questi “angeli sulla strada della rovina” rivestiti di cuoio nero, sfidavano le contemporanee formazioni maschili dell’hard rock americano de luxe, e si può intuire perché Lita Ford e Joan Jett saranno destinate a carriere soliste di successo.
Quest’ultima si assume l’onere della leadership vocale quando se ne va la “fuggiasca” più in vista, la cantante Cherie Curry. Con la bassista promossa sul fronte del palco, le Runaways davano un’altra dimostrazione di preveggenza, rilanciando l’inno glam-rock “Mama Weer All Crazee Now” (fra gli svariati “numero uno” inglesi degli Slade), con anni di anticipo sulla ben più nota versione dei Quiet Riot. Con la sua inequivocabile spinta vocale, Joan Jett fa le prove generali per il mega-successo di “I Love Rock’n’Roll”, mentre la chitarra viscerale e coinvolgente della Ford si fonde idealmente con la scoppiettante dinamica del pianoforte. Lo scioglimento delle Runaways era ormai prossimo, ma il loro patrimonio non andrà disperso, tutt’altro.
Tratta dall’album: “Mayday” (1981)
Versione originale: Starz (1978)
Originari di New York, Mayday sono stati fra gli apripista del rock melodico destinato a furoreggiare negli anni ’80, ma furono vittime del destino ingrato accaduto a tanti prime-movers, finendo nel purgatorio degli incompresi. Il cantante Steve Johnstad era un acceso estimatore dello stellare Michael Lee Smith, ed insistette per registrare una cover di “So Young, So Bad”, brano d’impatto del quarto album degli Starz, “Coliseum Rock”, nell’opera prima degli esordienti Mayday.
Steve ed i suoi bravi non sfigurano nel paragone con i favolosi concittadini, e la nuova versione rasenta la stratosfera AOR; si distingue dal più squadrato metal-pop originale per un magistrale innesto delle tastiere di David Beck, che ne cadenzano il ritmo in style Toto/Foreigner. Uno scintillante, conciso assolo segnala la presenza di un chitarrista dal tocco sofisticato, quel Randy Fredrix che pure si era annunciato sulla scena punk del CBGB’s, suonando con brutale veemenza nei Sun. Purtroppo i Mayday emularono gli stessi Starz nel conseguire risultati commerciali inversamente proporzionali al loro talento, e dopo aver replicato con il secondo “Revenge” (1982, uscito come il precedente per l’A&M), sparirono in fretta senza lasciar traccia, nonostante il sensibile avvicinamento al modello vincente dei Journey. Una perdita quantomeno spiacevole.
Tratta dall’album: “The Cage” (1982)
Versione originale: R.P.M. (1982)
Abitualmente, il concetto di cover implica il rilancio di un successo del passato, interpretato da artisti alla luce della propria personalità o di un trend moderno, spesso col malcelato intento di sfruttare le facoltà vincenti dell’originale. Certamente non è questo il caso: all’inizio degli ’80, i Tygers Of Pan Tang erano uno dei gruppi di punta della NWOBHM, ma dopo gli esordi risolutamente metallici, con l’ingaggio di un cantante dall’incontestabile talento melodico, Jon Deverill (ex Persian Risk), cambiavano le strategie. Forse condizionati dalla MCA, loro casa discografica, viravano decisamente verso il mercato americano, ma dopo il terzo, declinante album “Crazy Nights”, perdevano il campione dell’”ascia” John Sykes, partito alla volta dei Thin Lizzy, che completerà l’ascesa personale nei Whitesnake.
Almeno in Inghilterra, erano tempi duri per chi non era abbastanza…hard’n’heavy, così le “Tigri” subirono la contestazione degli headbangers per la svolta commerciale del nuovo album “The Cage”, pur prodotto dal futuro luminare Peter Collins (Rush, Queensryche etc.). Il singolo che inaugurava il 33 giri si chiamava “Rendezvous” e non era di dominio pubblico che si trattasse di un brano degli americani R.P.M., tratto dal loro album d’esordio, uscito nello stesso anno senza particolare fortuna. Questi ultimi diventeranno un gruppo per iniziati dell’AOR, ed i Tygers non si discostavano sensibilmente dall’originale, ricalcandone il riff segmentato dalla caratteristica andatura. Contraddistinto dall’autorevole timbrica di Deverill e dalle luccicanti sonorità cromate delle chitarre, “Rendezvous” va riconosciuto come un sottovalutato classico pop-metal, e a dimostrazione del suo potenziale, giungerà poi un rifacimento dei Blackfoot (in “Vertical Smiles”, 1984).
Tratta dall’album: “Up Around The Bend” (1984)
Versione originale: Creedence Clearwater Revival (1970)
Nella cruciale fase di transizione fra gli anni ’60 ed il decennio successivo, uno dei gruppi americani di maggior successo erano i Creedence Clearwater Revival, reduci dai clamori del festival di Woodstock. Nel 1970, il loro quinto album “Cosmo’s Factory” ha travolto qualsiasi argine, dominando per nove settimane consecutive la classifica di Billboard; la debordante mistura roots a base di contagioso rock’n’roll, country e blues imponeva il quartetto di John Fogerty a livello internazionale, svettando in classifica in Australia ed in alcuni paesi europei, sospinto da una sequenza di brillanti singoli.
Se ne ricordarono gli scandinavi Hanoi Rocks varcando le Colonne d’Ercole del mercato americano, forti di un sostanzioso contratto Epic. Per inaugurare il loro debutto major, “Two Steps From The Move” (1984) scelsero proprio un irresistibile classico dei CCR, “Up Around The Bend”, a dimostrazione che il rock’n’roll è davvero un linguaggio universale, se affrontato con innata attitudine e carica emozionale. Originari di Helsinki ed influenzati dai New York Dolls, Hanoi Rocks erano un “pericolo pubblico” nel dar lezioni di fuoco sulla punta della lingua alla nuova generazione glam/sleaze degli ’80, Motley Crue compresi.
Anche nella provocatoria immagine androgina, il cantante Michael Monroe ha preceduto ogni vistosa acconciatura hair metal. Prodotto dal grande Bob Ezrin, “Two Steps” giungeva sulla scia di quattro acclamati LP indipendenti, ed “Up Around The Bend” materializzava la fantasticheria di chi avrebbe auspicato una sua versione eseguita dai Rolling Stones in forma smagliante.
Quando sembravano destinati all’agognato successo, gli Hanoi Rocks fecero i conti con la morte del batterista Razzle, in un incidente d’auto provocato da Vince Neil. Il sogno veniva così spezzato.
Riproponendosi in chiave solista, Michael Monroe non rinuncerà al gusto delle cover, intitolando l’album dell’89 “Not Fakin’ It”, in omaggio al suo remake dei Nazareth, già citati in quest’articolo.
Tratta dall’album: “Through The Fire” (1984)
Versione originale: Procol Harum (1967)
Per gli appassionati di “musica pop” negli anni ’60, una delle rare opportunità di ascoltare dischi sulla cresta dell’onda era offerta da “Hit Parade”, un programma radiofonico che se non erro, andava in onda ogni venerdì alle 13 sulla radio nazionale, presentando la classifica dei 45 giri più venduti in Italia. Fu così che nel ’67, quando stava per accendersi la Summer Of Love, scoprii “A Whiter Shade Of Pale” dei Procol Harum, catapultata al primo posto nella graduatoria nostrana per ben sette settimane consecutive, exploit inimmaginabile per un gruppo inglese all’esordio, seppure al numero uno in patria. Più che di psichedelia, in questo caso si poteva parlare di contaminazione ante-litteram fra Bach e rhythm’n’blues, un ibrido proto-progressive reso irresistibile dalla voce di Gary Brooker, che potrebbe aver influenzato, fra gli altri, Michael “Soul Provider” Bolton. Resterà uno dei più celebri singoli di ogni tempo, e poteva rappresentare un punto di partenza per il supergruppo HSAS, potenzialmente fra i più importanti dell’epopea heavy rock anni ’80: Hagar, Schon, Aaronson, Shrieve furono rapidamente cancellati dalla mappa dopo un eloquente album d’esordio live per la Geffen, “Through The Fire”: forse per collisione di ego stellari, sicuramente per la repentina chiamata di Sammy alla corte di King Edward Van Halen ed il conseguente ritorno di Neal nell’astronave del rock FM, Journey. Resta la loro affascinante versione di “AWSOP”, dove le chitarre di Schon (inizialmente l’acustica, poi il possente assolo elettrico) sostituiscono il mistico organo dell’originale, mentre l’inconfondibile voce virile di Hagar non tradisce le aspettative. Un remake memorabile, fra i tanti che hanno reso omaggio al pantagruelico classico dei Procol Harum.
Tratta dall’album: “Time Will Tell” (1989)
Versione originale: UFO (1977)
L’”altra” formazione di Bellevue, Seattle, che non avrebbe potuto eguagliare la gloria in excelsis dei Queensryche, meritava di ritagliarsi uno spazio meno angusto nelle memorie degli anni ’80. Fifth Angel si sono librati in volo nell’84, segnalandosi per almeno tre eccellenze in squadra: il vocalist Ted Pilot, formato da studi classici che gli hanno conferito una drammatica espressività paragonabile al divino Ronnie James, il chitarrista James Byrd, in possesso di funamboliche virtù che fruttarono al gruppo l’ingaggio Shrapnel dello specialista Mike Varney, ed infine, il batterista Ken Mary, all’epoca particolarmente richiesto, poi sedotto da Alice Cooper e House Of Lords. Dopo un omonimo album d’esordio all’insegna del metallo “mitologico”, il quintetto si disuniva ma sembrava destinato ad un clamoroso rilancio, sulle ali di un contratto Epic. L’etichetta pubblicava un’edizione riveduta e corretta dell’opera prima (1988) ed un anno dopo, il successore “Time Will Tell”.
In quest’occasione, Fifth Angel si cimentavano al galoppo su un cavallo di battaglia altrui, afferrando le redini di “Lights Out” degli UFO. Scelta nient’affatto casuale, essendo il titolo più rappresentativo dell’album che impose i seminali brit-rockers di Phil Mogg in America. La versione del gruppo di Seattle è spiccatamente heavy metal ma non dissimile dall’originale; il nuovo chitarrista Kendall Bechtel la pungola con un acuminato assolo, tipicamente in stile virtuoso, e Ted Pilot ne conduce la danza irrefrenabile con lucida e potente estensione vocale. Ma non basterà a salvare i Fifth Angel dal confino fra i “perdenti”.
Tratta dall’album: “Nativity In Black” (1994)
Versione originale: Black Sabbath (1970)
Probabilmente la più importante formazione al crocevia fra gothic & doom metal negli anni ’90, i Type O Negative dello scomparso Peter Steele hanno presto manifestato una talentuosa attitudine nel reinterpretare classici altrui, in un’epoca in cui s’intensificava il fenomeno delle cover versions.
In quest’ottica, il gruppo di Brooklyn, New York, si era sorprendentemente distinto nell’ispirarsi alla West Coast dei Seventies, riproponendo con invidiabile carisma “Summer Breeze” del duo Seals and Crofts e “Cinnamon Girl”, del perpetuo Neil Young.
Ma in questa sede non potevamo che privilegiare la loro versione dell’epocale “Black Sabbath”, consegnata alla storia nel primo album-tributo ai capiscuola di Birmingham, “Nativity In Black” (Sony). TON sbaragliavano l’agguerrita concorrenza riuscendo a mettere in scena un sabba ancor più “nero” dell’originale. Pur non infoltendo la schiera dei veri o falsi cultori del demonio, il gigantesco Steele ed i suoi rivisitavano il sanguinoso totem sabbathiano in “prospettiva satanica”, trasformando il testo in una sorta di invocazione del Maligno (“Ave Ave Satanas…”). Non contenti, modellavano il riff in chiave ancor più mortifera e rallentata, scandito dal tocco spiritato del piano e da sinistri gemiti. Il suono di chitarra è denso e buio come la pece, mentre la voce di Peter, greve e vampiresca, sembra risalire dall’abisso più profondo. Senza dubbio una versione “estrema”, che come tale enumererà estimatori e detrattori, ma decisamente da conoscere per chiunque ami il genere horror, senza distinzioni settoriali. Per avvicinare questa formazione, inimitabile e purtroppo trapassata, ascoltatela nella compilation dal titolo irridente, “The Least Worst Of Type O Negative” (2000).
Un ringraziamento speciale all’amico e lettore Chicco Tomasoni per l’ospitalità nei suoi uffici!
Ciao Beppe. Davvero interessante questo articolo, in settimana me lo leggo a modo e ti dirò.
La cosa curiosa però è che ho preparato durante le vacanze una playlist per la nostra trasmissione radio, da mandare a settembre, proprio basata sulle cover e non ne abbiamo nessuna in comune. Manco una ☺️
Ciao Gianluca, anche a chiarimento per altri lettori, preciso che quella presentata non è una classifica delle cover, ma una selezione di cover meritevoli e a mio avviso trascurate. E’ molto differente. Poi ognuno è arbitro dei propri giudizi, senza far danni a differenza di alcuni implicati in uno sport molto popolare. Grazie dell’attenzione.
Ciao Beppe e grazie per essere stato un punto di riferimento fondamentale per la mia cultura musicale dai tempi di Metal Shock (li avevo tutti, maledetto trasloco)… Mi fa un gran piacere rileggerti dopo qualche anno con disamine sempre eccellenti, lo stesso dicasi per Giancarlo ovviamente, anche se musicalmente siamo un po’ più distanti.
Vorrei segnalare la shickissima versione di “Can’t find my way home” degli House of Lords contenuta in Sahara. L’ho sempre amata molto.
Un caro saluto.
Umberto
Ciao Umberto, fa sempre piacere ritrovare un po’ alla volta lettori di un tempo che si ricordano di noi. La versione di “Can’t find my way home” (Blind Faith) degli House Of Lords è ovviamente super. Non l’ho citata perché al gruppo di Gregg Giuffria ho dedicato uno dei primi articoli sul Blog (ricercalo fra gli arretrati se ti va) e perché la reputo abbastanza nota fra chi mi legge. La tua segnalazione è comunque più che apprezzata. Grazie
Ciao Beppe, un interessante articolo quello che proponi su di un argomento spinoso come quello delle cover… Spinoso perché rifare un brano specie famoso o iconico è una sfida sempre azzardata, il pericolo è di non aggiungere nulla allo stesso, rovinarlo o banalizzarlo… Viceversa un brano che in origine non rendeva per impatto o suono si giova di un rinvigorimento se trattato con i mezzi tecnici o un arrangiamento diverso… Di esempi c’è ne sono a bizzeffe per entrambi i casi… C’è da dire che però è diventato ormai un cliché per molte band anzi una prassi avere in discografia un cover album specie per rimanere discograficamente attivi…
Quelle che proponi tu sono molto interessanti anche se personalmente il brano degli Starz è irraggiungibile, così come quello degli UFO pur considerando i Fifth Angel uno dei gruppi più grandi e sottovalutati del Metal anni 80,mentre il brano monumento del Sabba Nero è interessante nella riproposta dei TON ma la magia originale è tutt’altra cosa.
Avrei aggiunto Astronomy domine dei PF rivisitati dai marziani Voivod(anche The Nile song per mano loro è eccezionale), oppure Mexican radio dei glaciali svizzeri Celtic frost… Infine per me uno dei cover album più belli e originali è quello dedicato ai Dead Kennedy’s istituzione del punk americano.. ma mi sa che non c’entra molto con questo blog, scusa Beppe..
Bene Roberto, hai fatto indubbiamente una serie di considerazioni interessanti. La quantità di materiale in argomento è sterminata, l’ho detto chiaramente in premessa. Aggiungo che la versione di “Mexican Radio” dei Celtic Frost decisamente mi piaceva e che non sono mai stato anti-punk. All’epoca acquistai il primo LP e singoli dei Dead Kennedys. Sono solamente “contro” la pretesa del punk di fare tabula rasa del passato. Ciò detto, vero è che questo Blog è di tutt’altra natura. Ciao e grazie.
ciao Beppe, mi scuserai se ti do del tu. Devo fare i compiti per casa perchè delle tue dieci proposte ne conosco solo due: Nazareth e April Wine (anche se la versione da loro proposta non mi fa proprio impazzire, perchè troppo distante dal loro genere o comunque dai loro dischi che amo di più).
Mi permetto di suggerire Hells bells degli ac/dc nella versione dei Dandy Wharols. Benchè il gruppo non sia prorpio tra i miei preferiti, apprezzo il coraggio del gruppo nella rilettura di una ultra classico senza tempi.
Complimenti e buona estate
Ciao Marco, giusto apprezzare anche l’operato di gruppi un po’ distanti dal proprio raggio di preferenze come i Dandy Warhols. Se non conoscevi le versioni proposte non è un problema, i link sono li apposta per un immediato ascolto degli originali e delle cover. Mi è sembrata una buona idea, se l’avesse fatta qualcun altro, avrebbe incuriosito anche me. Scusarsi per dare del tu in questi casi? Ma dai! Grazie dell’attenzione
Articolo bellissimo, come bella l’
idea di mettere la retro cover di Nothing is Sacred, i miei favori vanno proprio ai grandiosi Godz ed ai Mayday, quella So young so bad rimane seminale per un certo modo di fare aor/pomp negli ’80, Into the night degli Spys gli deve molto, ad esempio, visto che è di un anno prima. Grazie Beppe !
A proposito della scelta della foto dei Godz, mi fa piacere che sia piaciuta. Nessuno dei gruppi trattati oggi ha molto seguito, quindi ho privilegiato un’immagine che trovo fortissimamente rock. Grazie anche per l’attenzione verso i Mayday, fra i più “dimenticati”. Ciao Fabio
Parole e articolo come sempre fantastiche
Non posso che ringraziarti Francesco, ciao!
Bell’articolo! Tanti nomi citati. Quando un bella retrospettiva sui Ghost (per me una delle band più interessanti degli ultimi anni) ed una per gli Starz , grandioso gruppo conosciuto da me proprio grazie a Beppe quando ne tesseva lodi su Metal Shock.
Ciao Paolo, ho una gran considerazione dei Ghost, aspettavo il nuovo album per dir la mia su di loro. Gli Starz sono stati fenomenali, ho messo il loro debut-album al primo posto di un articolo-classifica sull’hard rock nordamericano della seconda metà Seventies, sul Blog. Dagli un’occhiata se ti è sfuggito. Grazie
Senz’altro. Grazie
Ciao Beppe, proprio un paio di giorni fa stavo ripercorrendo con la memoria le gesta degli Hammerfall, nella seconda metà dei 90s. Nonostante la band non fosse esattamente un manipolo di strumentisti virtuosi, una delle cose che già allora mi colpirono fu la loro capacità di restituire brani classici (e non) del repertorio Heavy Metal con freschezza ma senza snaturarne l’essenza. Inoltre, va dato atto agli Hammerfall di avere svolto un vero lavoro di preservazione culturale, avendo divulgato il verbo di Picture, Pretty Maids, Stormwitch, Warlord, Chastain ecc oltre a rivisitare numerose hit di “prima fascia”.
Sul momento, mi torna alla mente anche il “Sound of silence” riproposto dagli Heir Apparent sul secondo ellepì: un’altra versione che mi impressionò positivamente.
Grazie e complimenti per l’articolo!
Massimo
Grazie Massimo, oltre al tuo elogio sugli Hammerfall, visto che citi l’indimenticabile “Sounds Of Silence”, ti dirò che mi ha sorpreso molto favorevolmente la più recente versione dei Disturbed. Ciao
Vero, The sound of silence è stata abbondantemente adattata. Mi hai sbloccato il ricordo delle versioni stravolte dei Sanctuary/Nevermore…le loro non erano vere e proprie cover, bensì opere originali basate su suggestioni provocate da brani altrui (pensiamo alle inquietanti Love Bites e White Rabbit, o alla stessa Sound of…).