I “reduci” Treat all’epoca di “Coup De Grace” (2010), con la stessa formazione attuale
E’ tempo di ritorno di grandi veterani del rock, e se tutti hanno cantato l’epica dei campioni hard’n’heavy riapparsi con fragore d’armi sul mercato discografico, si parla di Iron Maiden, Saxon, Scorpions, val la pena accorgersi anche d’altro.
Dalle nebbie degli anni ’80, ecco riemergere e darsi appuntamento per un simultaneo come-back discografico una triarchia di eroi del rock melodico, un genere che certe categorie intellettuali vorrebbero cancellare dagli annali di storia musicale ma che ancora suscita ondate di emozioni nostalgiche.
Basta leggere qualche commento a campione su Youtube, relativo ad artisti e brani emblematici di tale periodo, per rendersi conto che quella tradizione è tutt’altro che morta e sepolta. Semmai, i cultori che hanno vissuto in prima persona le glorie del citato decennio, manifestano diffidenza verso i discendenti di quella stirpe, spesso privi delle stimmate di originalità di chi per primo scalò il versante dell’hard levigato da brame di maggior sofisticazione.
Ma oggi non ci occupiamo di epigoni, nemmeno realisticamente di “inventori”; però Fortune, Dare e Treat hanno contribuito ad avvalorare il decennio di crescita e deflagrazione dell’AOR et similia, fra l’altro con origini geografiche assai differenti. I Fortune provenivano dall’opulenta America, il “forziere” dei momenti magici del rock melodico e ben ne rappresentano il vasto panorama delle formazioni da culto. Dare nascevano invece in Inghilterra, assai meno prolifica nello stesso settore, ma pur sempre dominante, fin dall’invasione pop-rock dei sixties, esportata negli stessi U.S.A. Infine, i Treat sono stati i pionieri dello Scandi-rock, una scena ribollente che tuttora vanta una quantità imprecisabile di “replicanti” del filone in stile Eighties.
Queste tre formazioni hanno vissuto un analogo periodo di “oscurantismo” negli anni ’90, ma tutte si sono successivamente rilanciate, a dimostrazione che c’è ancora spazio nel Terzo Millennio per proposte che non rientrino nelle discutibili tendenze di ultima generazione.
Nota: A margine riporto le recensioni dell’epoca con i loro pregi e difetti, non perché oggi ne sottoscriverei ogni verdetto, né per rileggerne gli “inevitabili” errori di stampa, ma semplicemente perché mi piace ricordare che c’ero, c’eravamo, e abbastanza svegli.
Quando mi occupai dell’Enciclopedia Rock Hard & Heavy dell’Arcana (1991), edizione italiana della “Aardschok/Metal Hammer Encyclopedie”, ritenni doveroso intervenire su alcune valutazioni dell’autore olandese Hans Van Den Heuvel, ma certamente non modificai la scheda relativa ai Fortune, una formazione americana affine a Giuffria e Journey, responsabile di un “fantastico album di debutto” su Camel-MCA, prodotto da Kevin Beamish di fama REO Speedwagon.
Nel 1985 ricercai subito l’omonimo “Fortune” d’importazione, e credo di esser stato il solo a trattarlo dalle nostre parti, lo testimonia la recensione di Rockerilla qui allegata. All’epoca mi entusiasmavano assolute gemme pomp-AOR racchiuse fra quei solchi (da “Thrill Of It All” a “98° In The Shade”) anche se fui decisamente severo nei confronti della loro canzone più commerciale, “Stacy”, che non reggeva il confronto con gli exploit da classifica dei compagni di scuderia Night Ranger (“Sister Christian”) e Giuffria (“Call To The Heart”).
Purtroppo i Fortune non tennero fede al loro nome, mancando il bersaglio del successo – non a caso alla MCA fu affibbiata la funesta nomea di “pietra tombale” di varie promesse rock – e cercarono inutilmente un rilancio ribattezzandosi In The City.
Solo in seguito venne alla luce che i fratelli Richard (chitarra, voce) e Mick Fortune (batteria), “figli d’arte” perché entrambi i genitori erano musicisti, avevano già tentato la sorte con un LP a sua volta eponimo, edito da Warner Bros nel ’78. Poi avevano rifondato il gruppo con i basilari innesti del tastierista irlandese Roger Scott Craig (già con Merseybeats e Liverpool Express) e del vocalist Larry “L.A.” Greene, principali compositori del quintetto responsabile dell’album cult di metà anni ’80 e completato dal collaudato bassista di studio Bob Birch.
Di loro si perderanno a lungo le tracce, fino all’impronosticabile riapparizione live al Rockingham Festival del 2016, viatico al nuovo album “II”, uscito nel 2019 per l’iperattiva Frontiers. Stavolta accanto ai Fortune e al cantante Greene, sono reclutati il tastierista Mark Nilan ed il bassista Ricky Rat, ma Craig suona in alcuni brani ed è ancora assai presente nella scrittura dei brani, probabile eredità delle sessioni post-1985 mai sfociate in un nuovo contratto discografico. Pur non equivalente al predecessore, “Fortune II” era comunque degno del paragone, non solo nell’illustrazione di copertina, che riproponeva la stessa mano femminile rivestita da un guanto nero, alle prese con un amplificatore. Nello stesso anno i rinnovati Fortune suonavano in Italia al Frontiers Festival, e li ricordiamo protagonisti di un’esibizione davvero competente, seppur con un look dimesso, immortalata nel CD/DVD “The Gun’s Still Smokin’”.
Oggi i Fortune si ripresentano con un’ulteriore novità alle tastiere, affidate a Bob Emmett. Questi avvicendamenti non hanno mai sostanzialmente cambiato il loro suono; come in origine, il quintetto si basa su una turgida combinazione di chitarra e tastiere, sostenuta da un solido background ritmico e dalla rilevante voce di L.A. Greene, il tutto mediato da un intenso feeling anni ’80.
La produzione non denuncia infatti certi stereotipati cliché moderni e scorre con naturalezza, distante da artifici tecnologici di dubbio costrutto.
In apertura “Silence Of The Heart” manifesta un solenne incedere che riecheggia Asia e Giuffria, giostrato sulla massiccia presenza delle tastiere; i classici registri vocali di Greene sono tuttora ideali nel contesto, benché lui non risieda fra gli “eletti” istantaneamente riconoscibili. In “Judgement Day”, Richard Fortune esibisce un riff di chitarra persino roccioso, ma impreziosito dallo scenografico arrangiamento delle tastiere, mentre “I Will Hold You Up” è un brano d’atmosfera imperniato su una melodia pianistica davvero seducente, cesellata dall’ospite d’eccezione Steve Porcaro (Toto, of course…) ma che non rinuncia ad una base hard rock dietro le quinte.
Non è probabilmente un caso che per i primi due singoli, rispettivamente “Level Ground” e “Orphaned In The Storm” siano adottate strategie d’impatto e riffs decisi, e nel caso della title-track, agitati anche da un rapace assolo di chitarra.
In “Should Have Known You’d Be Trouble”, il quintetto si riallaccia alla fausta tradizione del rock melodico, con un piano insistente in chiave ritmica tipicamente AOR, perno di grandi classici, da “Hold The Line” dei Toto a “Runaway” di Bon Jovi, ma anche della memorabile “The Thrill Of It All” degli stessi Fortune, 1985 époque.
Uno dei refrain più riusciti suggella la romantica delizia di “Lunacy Of Love”, toccante finale di un album che conferma i Fortune distinti artigiani del loro genere di musica, ancora sugli scudi per ogni irriducibile appassionato di glorie Eighties.
Presentando negli Short Talk il nuovo singolo dei Dare, “Born In The Storm”, ho potuto verificare quanto sia vivido fra gli appassionati il ricordo del loro album d’esordio “Out Of The Silence”, giustamente stimato fra i capisaldi dell’AOR anni ’80 e fra i rari di estrazione inglese in grado di competere con le produzioni americane. Non a caso lo stesso “OOTS” fu registrato a Los Angeles, con la supervisione del compianto produttore Mike Shipley e molto risentiva del rock melodico che all’epoca (1988) ancora regnava negli USA.
Anche l’originale tastierista Brian Cox, che lascerà il gruppo per una carriera di professore universitario di fisica, molto contribuiva al paragone con i campioni della retorica di quel genere (Journey, Giuffria, White Sister). Va pur detto che i Dare hanno sempre avuto in Darren Dean Wharton un leader dal timbro vocale ben identificabile, dotato di un gusto espressivo più intimista e con un tocco di ombroso romanticismo british. Anche il passo successivo, “Blood From Stone” (1991) seguiva a suo modo la tendenza americana verso un hard rock più incisivo, dettato dai postumi del successo dei Guns N’Roses, senza però recar profitto ai Dare, che si scioglievano repentinamente.
Dopo aver onorato la sua precedente militanza nei Thin Lizzy, partecipando ad una loro tribute-band, Darren ricostituiva il gruppo nel 1998, facendo tabula rasa dei condizionamenti di mercato e svelando per sua stessa ammissione l’anima vera del gruppo da lui diretto. Generava così un nuovo capolavoro, “Calm Before The Storm”, che metteva pienamente a fuoco le virtù emozionali delle sue interpretazioni mentre il suono affondava le proprie radici nel retaggio celtico ed anche nelle contaminazioni irish folk sperimentate dai Thin Lizzy (una versione della loro “Still In Love With You”, ne raccoglie l’eredità). Il tutto, combinato alla peculiare ricerca d’atmosfera e di “spazialità” che caratterizza il suono dei Dare, influenzata a mio avviso, ma in maniera tutt’altro che derivativa, dall’idolo musicale di Darren, il nume dei Pink Floyd, David Gilmour.
Tanti anni dopo, nel prosieguo di una storia che ha contemplato anche nuove versioni “revisioniste” dei loro classici (“OOTS 2” e “CBTS 2”), i Dare sono ancora qui ad incantarci con i loro racconti musicali ispirati dagli scenari del Parco Nazionale del Galles settentrionale, dove Wharton ha creato il proprio studio di registrazione. Accanto a lui il chitarrista delle origini Vinny Burns, da tempo rientrato nei ranghi dopo lo split che causò la crisi del gruppo nel ’92 ed il bassista Nigel Clutterbuck, che fece una prima apparizione nei cinque di “Blood From Stone”. Reclute più recenti Mark Roberts (tastiere) e Kev Whitehead (batteria).
E’ questa la formazione protagonista del nono album di studio, che a giudicare dal singolo (e tema d’apertura) “Born In The Storm” lasciava presagire un clima più tempestoso, in altri termini, un ritorno all’hard rock dai toni comunque avvincenti. In realtà questo “Road To Eden”, su etichetta privata Legend, si allinea al mood crepuscolare e riflessivo di opere recenti, a quell’ambientazione da “Silent Hills” – colline silenziose sovrastate da cieli oscuri…– che Darren tuttora considera il suo brano più rappresentativo.
Così lo stralcio del testo di “Only The Good Die Young”: over the hills and far away… suona come uno spunto autobiografico più che una citazione di Gary Moore, nel cuore di una composizione introdotta da un’elegante melodia pianistica, che poi si distende su un tappeto volante scosso dal vortice del rock. Richiami all’esperienza con i Thin Lizzy, prevalentemente nelle reminiscenze di folk celtico, si intuiscono nella title-track, dopo un’intro celestiale, nella punteggiatura della chitarra in Cradle To The Grave” e nella stessa “I Always Will”. La vena più sentimentale di Darren riemerge in “Lovers And Friends” e nella sognante “Grace”, mentre un’orchestrazione misteriosa e notturna annuncia “The Devil Rides Tonight”, prima che Vinny Burns torni ad affilare i suoi riffs incisivi, fomentando un finale decisamente elettrico. L’epilogo è un altro magistrale saggio di maestosa vena melodica, i Dare hanno un tocco raffinato come pochi nel maneggiare quest’arte rock e la solista di Burns si congeda con i suoi slanci più fiammeggianti.
Ancora una volta rendiamo onore ad una band unica nel suo genere; si può disquisire su quale volto o sfaccettatura dei Dare preferiamo, ma non sulla loro innegabile classe.
Non è unanime il consenso degli appassionati di lunga data, cresciuti negli anni ’80 e fedeli all’hard rock de luxe di quell’era, verso i musicisti scandinavi di recente generazione che reclamano tale eredità.
Non bisogna però dimenticare che la Svezia vanta un’innegabile tradizione in quell’ambito, pressoché unica nel nostro continente – Inghilterra esclusa – dove nessuno ha eguagliato il momento di massimo fulgore degli Europe. Né si trattava di un caso isolato perché quella scena era già fiorente; fondati a Stoccolma alla fine dell’83, meno di due anni dopo i Treat realizzavano il loro primo album, “Scratch And Bite”, per la Polygram svedese.
Il gruppo guidato con giustificate ambizioni dallo storico vocalist Robert Ernlund è stato fin dagli esordi sinonimo di hard rock melodico di spiccata qualità, e nel corso del decennio si è imposto come potenziale antagonista degli stessi Europe, non sfigurando al cospetto di eccellenze della melodia muscolare americana, ma con un tocco peculiare affine a White Sister e Pretty Maids negli arrangiamenti delle tastiere, nel secondo “The Pleasure Principle”, particolarmente riuscito. Gli assestamenti di formazione, a partire dal determinante ingresso del chitarrista Anders Wikstrom, non hanno fatto che rafforzare il quintetto, che chiudeva il decennio in fase ascendente, con un’omonima antologia concepita per una maggior esposizione oltre i confini nazionali, ed una brillante opera quarta di studio, “Organized Crime” (1989). Solo la Germania si rivelava però terra fertile per questi chic-rockers scandinavi e all’inizio degli anni ’90, i Treat finivano a loro volta vittime dei venti di cambiamento che spiravano sul mercato discografico.
Una recente dichiarazione di Wikstrom, che ha parlato di “lotta per la sopravvivenza nel corso degli anni” senza tradire il proprio credo musicale e della volontà di migliorarsi album dopo album come sfida necessaria per rimanere concorrenziali, appare correttamente radicata nella storia dei Treat.
La stragrande maggioranza dei come-back discografici degli “eroi” – veterani degli anni ’80 – ha soddisfatto desideri nostalgici, ma difficilmente ha prodotto esiti equivalenti alle glorie trascorse. Invece i Treat di “Coup De Grace” (2010) e di “Ghost Of Graceland” (2016), capisaldi del loro rilancio su Frontiers, sono apparsi a distanza di tempo in stato di grazia (oops!) persino superiore. L’esibizione al festival dell’etichetta italiana nell’aprile 2016, testimoniata dal CD/DVD live “The Road More Or Less Travelled”, ha confermato la trascinante natura anthemica del loro repertorio, non offuscata dall’uso disinvolto di basi pre-registrate.
Dopo l’ancor pregevole “Tunguska” del 2018, il quintetto torna in azione con il nono album di studio “The Endgame” ed un formazione ampiamente collaudata, con gli immarcescibili reduci degli ’80, Ernlund, Wikstrom, il tastierista Patrick Applegreen ed il batterista Jamie Borger, di nuovo affiancati dal bassista di “Coup De Grace”, Nalle Pahllson.
Il singolo apripista “Home Of The Brave” già spalancava le porte del paradiso AOR sul fluire malioso delle tastiere e l’innesto squillante della solista, mentre l’imperituro Robert Ernlund lanciava nella stratosfera un coro d’effetto, confermandosi cantante di personalità.
“Freudian Slip” inaugura l’album con altrettanta verve, stavolta con un ritmo più scattante e le armonie vocali perfettamente calibrate, che restano un marchio di fabbrica dei Treat.
“Rabbit Hole” è un omaggio all’hard rock ’80 con un riff à la Ratt/Dokken ma sottolineato dal tocco pomp delle tastiere.
“Both Ends Burning” è un brano di regale atmosfera con la chitarra di Wikstrom che alterna arpeggi rarefatti a slanci altisonanti che estendono improvvisamente gli orizzonti del suono. Un refrain euforico sprona anche la ballata “Magic”, che ribadisce la vocazione dei Treat nel coniare anthem melodici, come nell’irresistibile “Do Your Own Stunts” di “Graceland”; invece “Jesus From Hollywood” indugia verso l’AOR con un variegato arrangiamento che sottolinea l’enfasi di chitarra e naturalmente delle parti vocali, mai anonime.
Il secondo singolo “Carolina Reaper” è più incalzante ed hard rock, benché meno suggestivo di “Home of The Brave”.
Chiude con andamento particolarmente sofisticato ed incantevole stile pianistico, il brano più esteso, “The End Of Love”; anche qui cori congegnati ad arte che rimbalzano acrobaticamente da un canale all’altro dello stereo a cui fa eco uno struggente assolo di chitarra.
Inutile aggiungere altro, se non che i Treat sono ancora al top nel loro “gioco” preferito.
Che belli i pipistrelli di metal shock!!!
Due considerazioni veloci. I Fortune li ho recuperati solo ultimamente. Per quanto riguarda i Dare invece acquistai ai tempi la cassetta e rimasi estasiato dalla loro classe dalla loro eleganza tipicamente British, che possiamo ritrovare per esempio anche nei Ten……ma toh…stesso chitarrista. Bravissimi e sottovalutati.
Come sottovalutati, per lo meno tra i miei conoscenti rockers, i Treat.
Pensa Beppe che proprio settimana scorsa ho riascoltato la loro discografia, per selezionare una playlist, da poter fare ascoltare prima o poi nel mio programma radio. L’ultimo però ancora non l’ho sentito.
Ora sto “lavorando” sui Pretty Maids.
Bye.
Eh Gianluca, i pipistrelli di Metal Shock, un simbolo di tanti anni fa che però rimane nei ricordi di molti. Ottima scelta una playlist dei Treat,ideale per l’ascolto radiofonico. Certamente “The Endgame” non ti deluderà, tutt’altro. Grazie
Immenso Beppe Riva.
Avevo dimenticato la tua prosa attenta, capace di incuriosire, di contestualizzare, di spiegare il perché di un suono, di un accordo, di un gorgheggio.
Mi ero allontanato anni fa dai Dare. Non riuscivo più ad assimilare la loro musica crepuscolare ritenedola eccessivamente contemplativa, con quel folk quasi sussurrato, ormai lontano dallo stupefacente AOR dell’esordio. Ricordo ancora quell’estate con Heartbreaker, Into the Fire, Abandon. E poi Under the Sun, mano nella mano con quella ragazza alla quale avevo giurato amore eterno e che non avrei più rivisto.
Poi arrivi tu e riaccendi come d’incanto quei ricordi. Come di quando mi “costringesti” ad acquistare “Shattred Hearts” degli sconosciuti Silent Rage.
Come fai Beppe?
Perché sono giorni da quando ho letto il tuo articolo che i Dare mi ronzano in testa?
Perché mi costringi ancora una volta ad acquistare il disco di un gruppo che avevo dimenticato?
Credo sia un dono il tuo.
Avere un’anima e riuscire a raccontarla.
Caro Alessandro, mi fai un grossissimo complimento, fra l’altro hai descritto in modo efficace il cambiamento musicale nei Dare e con un tono poetico, quando leghi i ricordi del primo disco ad una tua storia d’amore trascorsa. Bravo! Può essere che per alcuni la mia forma di comunicazione funzioni bene e ne sono felice, ovviamente non devo eccedere in presunzione. Cerco di inserire tracce audio anche per darvi un riscontro, ma nel caso di “Road To Eden” finora su YT i brani presenti sono solo quelli. Avrai capito che non si tratta di un nuovo “Out Of The Silence” (non acquistarlo con questi presupposti), ma ci trovo molto feeling ed intensità espressiva. Non posso che ringraziarti per le belle (ed evidentemente sentite) parole!
Ciao Beppe anche io conservo come reliquie in soffitta le copie dei primi Metal shock ove scrivevi insieme a Giancarlo Trombetti Tiziano Bergonzi ed il compianto Klaus Byron e ricordo con piacere gli elogi riferiti a Dare e Treat… Dei primi ne hai già parlato e della scena scandinava hai già approfondito il tuo pensiero ed ho esposto anche io le mie opinioni.. Sui Fortune non posso che concordare con gli attestati di stima ma quello che mi sfugge è il fatto che oltre come sottolineato da un commento precedente, cioè che ormai sono pochi gli estimatori del Rock melodico, il riesumare un gruppo che già ai suoi tempi ha riscosso poca o nulla considerazione tranne quei pochi appassionati o ha avuto un fugace barlume di successo nelle charts… Ok romanticamente penso ad un atto di passione, ma i dischi costano comunque produrli e promuoverli e visto la disastrosa situazione dell’industria e del mercato musicale certe domande non posso fare a meno di pormele..
Ciao Roberto, benvenuto nel club dei reduci anni ’80…Battute a parte, non entro in merito alle strategie commerciali delle etichette discografiche che non fanno parte del mio pedigree, però permettimi: lamentiamoci quando gli “investimenti” vanno a beneficio di prodotti insulsi; se il fine invece è la salvaguardia di un gruppo da culto, che ancora ha voglia di farsi ascoltare, accogliamolo con piacere. Tanto sappiamo che le vendite di un CD/LP ormai premiano ben poco, semmai servono da supporto a qualche riunione “live”. Grazie
Ciao Beppe,
UK, USA e Svezia rappresentati al loro meglio in ambito melodic rock con uscite praticamente contemporanee di gruppi storici ed ancora (o di nuovo) sulla breccia: è il “fil rouge” che hai usato per accomunare queste tre grandi band con una mossa veramente azzeccata, complimenti!
Prediligo i cantanti che con la loro personalità sanno dare un’impronta inconfondibile alle loro band e qui con L.A. Greene e Darren Wharton direi che si va a nozze.
Dei Treat, proprio come hai scritto tu, apprezzo la loro “natura anthemica” che riescono a coniugare abilmente con linee melodiche non banali.
Per ora ho potuto ascoltare per intero solo il nuovo Dare che ho apprezzato molto, Fortune e Treat sono ovviamente in lista di attesa.
Grazie come sempre per l’articolo e per il tuo impegno.
Un saluto
Ciao Fulvio, fa piacere che tu abbia apprezzato questa “riunione” di uscite contemporanee o quasi. Sono gruppi dotati di distinzione, senza dubbio, poi i gusti di chi ascolta sono svariati. Al di là dei commenti sul Blog, conosco appassionati che classificano i tre protagonisti in ordine assai differente. Ma io non stilerei graduatorie, si tratta di gruppi con stile e personalità ben differenti. Grazie dell’intervento.
Ciao Beppe.
Ottima disamina come al solito, soprattutto proveniente da chi sa di cosa parla, dettaglio non scontato soprattutto in un genere particolare come l’AOR, declinato allo stato – direi – puro in queste tre band; cioè qui non si parla nè di hard rock, né di class metal, ma espressamente di AOR.
Ovviamente quando si parla di gruppi del genere (soprattutto in riferimento a Fortune e Dare) occorre partire dal presupposto che il loro meglio lo hanno già dato, per tutta una serie di motivi storici legati all’ispirazione, al budget, alla qualità dei produttori…in definitiva il clima che si respirava negli 80 oggi come oggi non è replicabile, e c’è poco da aggiungere.
Questo non impedisce a queste band di ripresentarsi in ottima forma, ma Out of the Silence e il debutto dei Fortune rimangono picchi irraggiungibili: i Fortune imbattibili in quell’indovinatissimo melange tra Journey e pomp, e i Dare in quel disco incredibile dai toni malinconici ma assolutamente AOR (qui sono i Foreigner, a mio parere, i numi ispiratori).
I Dare stessi hanno dato una certa continuità alla loro carriera con dischi sempre abbastanza indovinati e credibili, soprattutto Sacred Ground del 2016.
I Fortune ammetto di non averli seguiti nel loro come back discografico, ma a suo tempo L.A. Greene seppe riproporsi ad alti livelli negli anni 90 con gli Harlan Cage, anche se non avrebbe potuto scegliere periodo peggiore.
Per ciò che concerne i Treat, il discorso, per ciò che mi riguarda, è un po’ diverso; ho apprezzato a suo tempo i 4 dischi degli anni 80, probabilmente erano l’unica band scandinava che avrebbe potuto tenere testa agli Europe in un ipotetico breakthrough sul mercato americano, ma come sappiamo l’operazione riuscì solo agli Europe stessi. Certo non si può negare che le varie band Scandi AOR, numerosissime in rapporto alla scarsa densità di popolazione dei paesi di origine, tendessero ad assomigliarsi un po’ tutte, ragion per cui rimasi estremamente sorpreso quando entrai in possesso di Coup de Grace, come back discografico dei Treat, per me migliore anche rispetto alle loro produzioni storiche.
Quasi allo stesso livello Ghost of Graceland, sensazione confermata anche dalla loro esibizione al glorioso FRV del 2016, al quale ero presente.
Mi ha invece un po’ deluso il penultimo Tanguska, ma ascolterò con piacere questo The Endgame.
Concludo questo mio troppo lungo intervento con una nota magari un po’ amara, sottolineando che l’AOR è forse il sottogenere del rock che più soffre per la mancanza di opportuno ricambio di pubblico, nonostante ritorni di qualità come quelli analizzati nell’articolo; spero quindi che l’AOR stesso non sia destinato a morire di inedia.
Ciao Lorenzo, vedo che non ti risparmi, ma non ti preoccupare, gli approfondimenti sono ben accetti. Naturalmente non ti ripeto cose già dette, ma a proposito delle tue affermazioni, ti confermo che Darren Wharton aveva citato i Foreigner fra le fonti d’ispirazione di “Out Of The Silence”. Inoltre penso anch’io che “Coup De Grace” sia probabilmente il miglior album dei Treat. E’ vero, siamo portati a temere che l’AOR possa esser destinato all’estinzione anche perché le nuove generazioni preferiscono altro, però mi limito a sottolineare (senza conoscere i riscontri commerciali, ma il discorso andrebbe esteso a vari generi) che la Frontiers ha sempre un programma serrato di uscite -non solo AOR ovviamente- inoltre la lodevole Rock Candy insiste nel suo programma di ristampe significative del rock melodico anni ’80. E ci sono altre etichette indipendenti attive. Speriamo bene, intanto ti ringrazio sempre per la partecipazione.
Ciao Beppe,non so se i tuoi giudizi condizionano i miei dal lontano 1985,ma …sono pienamente d accordo a metà con te…scherzo,ovviamente..
La tua disamina su nuovi e vecchi lavori delle band prese in esame non ha eguali nel firmamento dell informazione musicale!!!
Comperai il primo dei Dare all indomani della tua recensione da 5 pipistrelli su Metal Shock e dopo aver ascoltato il singolo Born in the storm,acquisterò anche quest ultima loro fatica.
P.s.
Vero che Stacy non è una hit da antologia, ma Fortune dell 85 è un capolavoro da brividi ancor oggi,per me,inarrivabile.
Grazie come sempre,Beppe.
Ciao Paolo, “Fortune” 1985 è certamente un tesoro nel “forziere violato” rappresentato in copertina. Su “Stacy” ho ammesso di esser stato severo, ma tieni presente che a quell’epoca, era già difficile far digerire l’AOR più robusto ai fans del metal. Bisognava insomma mediare un pò per non ottenere l’effetto di allontanare il pubblico. Ti ringrazio tanto della stima, cerco di fare del mio meglio, perché non ha senso in una sede come questa scrivere in fretta e furia, non essendoci tempi stretti di pubblicazione. Penso che alla lunga un lavoro eseguito come si deve venga riconosciuto da chi dispone di cultura nell’ambito.
Disamina ineccepibile, per tre band di culto. I Dare sono quelli che negli anni ho apprezzato di più in tutte le loro fasi, sia l’esordio magistrale, sia la fase più ‘mainstream’ ed infine la svolta intimista e più ‘folk’ tanto è vero che Belief è uno dei miei album preferiti. Dei Fortune stó scrivendo la recensione proprio ora e ti dico già che nei concetti è sovrapponibile al tuo pensiero. I Treat è il gruppo a cui sono meno affezionato e non mi scalda il cuore pur riconoscendo le indubbie virtù artistiche ma la mia mente è abbastanza ferma ad organized crime e pur avendo apprezzato anche Tunguska,non mi scuotono più il sentimento,ma forse è un mio problema con la scena scandinava con cui ho un rapporto un po’ particolare:-) . Detto ciò conservo anche io quegli articoli insieme ad un paio di annate di metal shock che son riuscito a salvare dai vari traslochi ed è una incredibile nostalgia…..🤘
Ciao Samuele, è evidente che dopo anni di ascolto ognuno matura le proprie opinioni, ben difficilmente sono “sovrapponibili”. L’intento era quello di accomunare tre gruppi di veterani del rock melodico, circa dello stesso periodo, tuttora attivi ma con stili ben differenti. Le recensioni degli anni 80 servono solo a testimoniare che l’interesse era stato immediato. Vanno benissimo le tue osservazioni, ti ringrazio per la costante attenzione.
Come in ogni ambito a volte si è della stessa opinione a volte no, l’importante è l’arricchimento nell’ascoltare pareri diversi e punti di vista utili alla riflessione e per questo è sempre un piacere leggere questo blog…
Grazie Samuele, ci piacerebbe dedicarci anche di più al Blog, ma il tempo e gli impegni dell’età sono tiranni. Ciao