Le continue celebrazioni della musica della nostra gioventù ci regalano stavolta un luminoso box di Live and dangerous... ne vale la pena ? Vediamo insieme.
Lo abbiamo già detto fin troppe volte : la musica su supporto oggi è destinata solo a un pubblico di amatori e nostalgici che non si vogliono arrendere alla scomparsa di quegli oggetti costosi che continuano a portarsi a casa con testardaggine.
Siamo come il giapponese bloccato nella giungla vietnamita che crede ancora che la guerra non sia finita e resiste. Il problema è che le autodistruggitesi case discografiche lo sanno perfettamente ed essendo condannate a perpetrare il loro lavoro di stampatrici di musica, altro non fanno che guardare al passato e alle ricorrenze e avvalendosi di quei contratti oramai dimenticati che le rendevano titolari dei diritti di tutto quanto fosse stato depositato presso di loro, offrono ai giapponesi…a noi… il frutto dei loro archivi proponendo, con una frequenza impossibile da rispettare per un essere umano che non abbia depositi alle Cayman, box e riedizioni dal fascino irresistibile per i vecchiacci che siamo ma che ci costringe a tagliare su riscaldamento e gasolio per star loro dietro.
Se solo mi mettessi a elencare quanti “nuovi” ma vecchi album vorrei acquistare, non basterebbe la vendita di un organo qualsiasi per permettermi di soddisfare la mia smania per occupare altri spazi in casa.
Una di queste sirene che mi costringeranno a saltare un paio di cene con gli amici per portarmela via è costituita dal box che “festeggia” i 45 anni dalla uscita di Live And Dangerous dei Thin Lizzy, uno dei gruppi che chi ha attraversato i settanta non da frequentatore dell’asilo locale o, buon per lui, come angioletto ancora da venire, ha amato insieme ai grandi di quella era meravigliosa per l’hard rock che sono stati quel decennio.
I Lizzy , che vi sembri oggi strano o meno, sono stati nella metà dei settanta una delle sensazioni più forti che quel genere potesse offrirci. Con la temporanea crisi fisica degli Zeppelin, i cambiamenti tra le fila dei Purple e il declino …sì, declino, perché negare l’evidenza non ci fa dei buoni osservatori… dei Sabbath, la cosa più eccitante, con merito ed a ragione, erano loro : la Magra Elisabetta , un personaggio di un fumetto ignoto dalle nostre parti che si chiamava The Dandy e il cui nome reale era Tin Lizzie. La storia vuole che fosse stato il primo chitarrista del gruppo, Eric Bell, a suggerirlo e Phil Lynott a modificarlo secondo la pronuncia irlandese in Thin Lizzy.
La storia e le vicende del gruppo che ha canonizzato le due chitarre heavy rubando l’idea ai Wishbone Ash ma rafforzandola su un piano molto più solido musicalmente vi deve essere nota e se non lo fosse c’è Google che può raccontarvi tutto in un click.
Quello che al vostro cronista preme farvi notare è l’incredibile qualità delle canzoni dei Lizzy, unica cosa che conta, e l’arguzia di certi testi che facevano di Phil Lynott un essere molto più intelligente e interessante della sua cadenza un po’ basica e rustica per come veniva fuori dal sentirlo parlare. Lynott era un personaggio delicato, insicuro, poco consapevole della strada per l’autodistruzione che aveva intrapreso con alcool e droghe nonostante se ne mostrasse, a brevi tratti, lucidamente conscio. Una sorta di Randy California, un altro dalla personalità di cristallo, irlandese.
I Lizzy non provenivano dalla ricca Londra ma dalla dura e pericolosa Dublino, in anni in cui essere vivo era già un mezzo miracolo, ed esserlo essendo nero era ancora più complicato. Tosti, dunque. La presenza scenica di Lynott era accentratrice, non solo perché era la voce ma perché si muoveva concentrando su di sé l’attenzione principale. Sul palco i due solisti stavano alle estremità e lui al centro; ciononostante riusciva a non essere così egocentrico da lasciare enorme spazio alla sequenza di solisti che andava a scegliere ed esporre al suo pubblico. Solisti che cambiava e ruotava con naturalezza come se abbandonare Brian Robertson con Gary Moore o scambiare quel ruolo con John Sykes fosse in fondo solo secondario.
I Lizzy non esplosero al primo disco come gli Zeppelin, ci vollero diversi album per farsi notare, poche vendite, tour come supporto a dozzine, quella voglia di ricordare il folk rock delle origini insieme alle sue leggende che riemergeva a tratti e che poco sembrava trovare spazio nei cuori dei rockers che ...solo sesso e droghe e rock and roll... ma la bellezza di molti brani e la loro immortalità doveva per forza di cose emergere, prima o poi.
Quando Live and Dangerous ci piombò addosso fu come una bastonata : le composizioni già perfette venivano snocciolate dal ragazzino Robertson, eroe del wha wha, con una naturalezza rara. Impossibile non innamorarsene. Ricordo che ne feci immediatamente una copia su cassetta per ascoltarla ogni volta che montavo sulla mia Dyane.
L’abuso di droghe era in quel momento al massimo e riuscire a capire come fosse possibile mantenere quei livelli a quelle condizioni, del tutto incomprensibile. Robertson e Moore si alternavano senza una logica tra altri solisti che passavano come meteore senza lasciare tracce. Ma quel disco, una summa, la crema delle migliori cose raffinate nel trattamento dal vivo, ci faceva strafregare di come se la passassero i ragazzi : l’importante era che… “fossero di nuovo in città”.
Ricordo che non vidi i Lizzy finché non entrò Sykes nel gruppo, donando a Lynott l’ispirazione per un album di una liricità ed una bellezza incredibile come Thunder & Lightning : il disco che concretizzava la consapevolezza che il tempo stava davvero per scadere, molto più di quanto la confessione pubblica di Got to give it up non avesse saputo fare in passato.
Nonostante il successo e l’ammirazione scatenata da quel disco, il disfacimento psichico di Lynott lo portarono prima a decretare la fine dei Lizzy con un tour devastante dove tutti i solisti salivano a rendere omaggio al cadavere ancora caldo e fotografato per la Storia in Life/Live, poi a mettere in piedi i Grand Slam con Laurence Archer, che ebbi la fortuna di vedere ma che non mostravano più quella lucidità compositiva ormai persa nei fumi della decadenza fisica.
Era quello il momento in cui qualcuno avrebbe dovuto impedire il suicidio di uno dei più bei compositori del rock anglosassone, prenderlo di peso e legarlo in riabilitazione, impedirgli di morire giovane… una bella frase solo da dire quando si è vivi e in forma.
E invece ero a Roma, in una redazione di un giornale che molti ricordano con piacere, quando mi arrivò la telefonata di una fotografa che viveva lì e che piangendo mi diceva che Lynott era morto. Un paio di giorni dopo mi inviò la foto in bianco e nero della sua tomba, dove era andata a piangerlo. Neppure tutto l’amore della madre di Phil era riuscito a salvarlo da sé stesso.
Oggi non possiamo far altro che frugare nei fondi del nostro portafoglio o controllare quanto resti nel bancomat per prendere, assolutamente, questa scatola di otto cd che racchiude molto del tour che dette vita a Live and Dangerous, uno dei dischi dal vivo più memorabili che ami ricordare. Perché dovremmo ? Perché sapere che là fuori ci sono altre versioni di quei brani che abbiamo amato senza averle in casa ci farebbe dormire sogni inquieti; perché anche se le scalette sono grosso modo le medesime con solo una piccola manciata di brani inediti, i solo di Brian Robertson e di quel californiano, Scott Gorham – che rappresentò al tempo stesso il compagno di eccessi ed il bastone di appoggio di Lynott – meritano di essere ascoltati in sequenze diverse da quegli originali che ormai potremmo suonare a memoria se solo sapessimo tenere una chitarra in mano e perché in certi casi sono davvero inaspettatamente ancora più belli di quelli che ricordiamo in certi casi; perché infine se proprio dobbiamo dar spazio al nostro delirio collezionista questa è la migliore delle scuse.
La Universal non contenta di succhiarci sangue dal collo della nostra passione con questo luminoso scatolotto, fa uscire, in contemporanea anche una versione rimissata di quel Life/Live dell’83, il bellissimo canto del cigno dei Lizzy. In questo caso non posso che consigliarvi di attendere l’inevitabile scatolone del quarantennale che, scommetterei, tireranno fuori a breve come prossima uscita perché lì, davvero, ci potrebbero essere molte cose non ascoltate da proporre, ma soprattutto perché non riesco ad afferrare la differenza tra il doppio cd già uscito a suo tempo e il lavoro di rimissaggio che, davvero, mi sfugge. Forse qualcuno dotato di studio monitor da decine di migliaia di euro riuscirà a distinguere meglio quelle sei chitarre sul palco nella finale The Rocker.
Ma con questo omaggio al Live and Dangerous… i ragazzi sono davvero tornati in città.
Stra-esaurito!
Speremo ben che lo ristampino come è accaduto con il box degli Ufo Strangers in the Night.
Per il momento son 90 eurini risparmiati
Dovranno farlo per forza… comunque costa meno di 90… o almeno costava meno…
buonasera Giancarlo,
trattandosi dei più grandi di tutti, ogni mio commento a proposito dei Thin Lizzy è assolutamente superfluo.
senza neanche stare a discutere l’obbligatorietà di un acquisto del genere (anche se alcuni dei concerti presenti, come la seconda serata di Philadelphia o la data del Rainbow Theatre, erano già stati pubblicati da anni in versione ufficiale), ti segnalo, qualora ti sia sfuggito, anche il loro mastodontico box set Rock Legends, una autentica BELVA contenente 6 cd, un DVD, un libro (che ripropone rilegati assieme TUTTI i Tour Program dell’epoca), altri due opuscoli e ammenicoli vari… passando alla ciccia, include DOZZINE fra versioni differenti e canzoni mai pubblicate.
superfluo aggiungere che questi cofanetti, per quanto costosi, sono destinati ad aumentare considerevolmente di prezzo con il passare del tempo.
certamente mi duole l’idea che, acquistando l’ennesimo oggetto legato ad un grande gruppo degli anni d’oro, non mi restino i soldini per comprare l’ultimo parto di una band symphonic death metal di Catanzaro, ma nella vita, purtroppo, non si può avere tutto.
ti abbraccio virilmente!
Vedi Giovanni, al di là della necessità di trovare sempre e comunque il budget superfluo ma necessario a portare a casa le note preferite, direi che rinunciare a pagare la bolletta della luce per infilare in teca l’ennesimo box, pur sapendo che un giorno varrà molto di più, è attitudine talvolta estrema. Senza luce lo stereo di casa non funziona… e poi c’è logicamente da domandarsi : ma venderemo mai i nostri dischi ? E ci sarà qualcuno disposto a pagare il prezzo richiesto ? Io l’ho fatto in passato e spesso mi ritrovo a domandarmi se avrei potuto evitarlo. Mi rispondo sempre troppo tardi che avrei dovuto riuscirci.
Dimenticavo : gusti a parte, sono TRA i più grandi, non i più grandi in assoluto. Ma non mi far spiegare perché la pensi così. E prima della symphonic death metal band di Catanzaro, dammi retta : comprati l’opera omnia degli Schiekel Grueber.