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ALBUM & CDC'era una volta HARD & HEAVY

Wonder Women nel Rock degli Anni 20-20

Di 2 Marzo 2023Marzo 6th, 202315 Commenti

Dalla Genesi secondo i Kiss, l’Ottavo Giorno, Dio creò il Rock’n’Roll. Dopo aver sguinzagliato sulla Terra i primi, riottosi pionieri di quella stirpe, ritenne necessario, per completare l’opera, affiancar loro esemplari femminili altrettanto ribelli. Fra le prime esponenti di spicco, la regina bianca del blues-rock, Janis Joplin, e la musa della controcultura hippie, Grace Slick dei Jefferson Airplane, venerata dall’intelligentia critica che preferirà tacere della sua svolta commerciale, dai ribattezzati Jefferson Starship in poi. C’erano anche rappresentanti di una categoria pop più mite: Cher, che costituiva un duo con il marito Sonny, prima di emanciparsi come solista (ed attrice) di fama mondiale negli Ottanta, esibendo in un clamoroso video un look provocante su una nave militare americana, con l’equipaggio in visibilio.
Negli anni ’70 il fenomeno delle donne in uniforme rock si estendeva con le accoppiate vincenti in formazioni di vasta eco: Stevie Nicks e Christine McVie dei Fleetwood Mac, le sorelle Ann & Nancy Wilson che identificavano “le” Heart. L’anno scorso Ann, cantante di assoluto rilievo storico, ha pubblicato il terzo album solo, “Fierce Bliss”.
Apparivano anche le prime gang interamente femminili in America, le sconosciute Fanny e le seminali Runaways, con tre potenziali stelle in pectore: Cherie Currie, la più promettente e meno fortunata; Joan Jett e Lita Ford, che invece realizzeranno i loro sogni. Al tramonto del decennio apparivano in Canada i Toronto, con donne al potere sul modello di Heart (voce e chitarra solista), oppure Tantrum, con ben tre dame a contendersi le parti vocali. Gli anni ’80, manco a dirlo, iniziarono con l’esplosione dell’heavy metal e si estendeva il fenomeno delle formazioni di “tutte ragazze”, Girlschool e Rock Goddess in Inghilterra, poi negli USA, Precious Metal e Vixen, ovvero l’hair metal in versione gentil sesso. Ma c’erano anche personalità decisamente aggressive, come Betsy dei Bitch o Tam dei Sacrilege, che davano il via alla progenie femminile in ambito thrash, o più generalmente, nel metal estremo.

Meno oltranziste ma sicuramente in grado di accendere le fantasie degli headbangers, Lee Aaron, che si proclamava “sovrana” del metal e Doro Pesch, che resiste imperturbabile al passare degli anni: qualcuno ricorderà gli interni di copertina della nostra rivista Hard’N’Heavy (n.1 e 2) con notevoli foto dell’una e dell’altra.
Nell’ambito del rock radiofonico dalle differenti sfumature stilistiche, ci potremmo dilungare, iniziando da pioniere come Karen Lawrence dei 1994 o Jeanette Chase degli Storm, dall’affascinate ex moglie di Jonathan, Tanè Cain, senza trascurare altre soliste, da Robin Beck a Lisa Price, sulla scia della più rinomata stella pop-rock Pat Benatar.
Holly Knight dei Device componeva anche per celebrità del calibro di Aerosmith ed Heart, ed inoltrandoci verso la fine del decennio, si estendeva esponenzialmente il numero delle protagoniste. Qualche nome? Debbie Davis dei Witness, Sandi Saraya, Lorraine Lewis (alias Femme Fatale), Alexa, la più affermata Alannah Myles ed infine Jaime Kyle, ancora in gran forma, dopo la recente pubblicazione del nuovo album “Wild One”.
Ebbi la buona sorte di incontrarne alcune, come Sass Jordan, a cui rivolsi un complimento non da poco (“la Michelle Pfeiffer del rock…”), e l’australiana Suze DeMarchi dei Baby Animals, poi moglie di Nuno degli Extreme, che mi mandò un saluto dal palco del Palatrussardi. Ad un festival Frontiers conobbi anche Fiona Flanagan, che nell’occasione si esibiva con i Drive She Said.
Un riepilogo inevitabilmente conciso, che si arresta alla soglia degli anni ’90 ed esclude tante artiste di valore, dal folk al punk, mettendo a fuoco quelle che sono le mie più tipiche passioni musicali e presumo, dei lettori che seguono il Blog.
Nessuna pretesa di completezza dunque, ma semplicemente un’introduzione per presentarvi una trilogia di ladykillers di “scottante” attualità, in ordine decrescente di produzione discografica: da Dorothy, che all’attivo ha già tre album, a Chez Kane (due) fino all’esordiente di pochi mesi fa, Nevena.
Tutte hanno detto la loro con significativi lavori nel 2022, ed in comune hanno la passione, il feeling ed il talento per farci credere che il rock di un certo tipo non sia morto, e possa ancora rivelarci “campionesse” di valore.

DOROTHY

Dorothy Martin non ha vissuto un’esistenza facile. Figlia di una ragazza-madre ungherese, a soli tre anni ha lasciato con lei il suo paese d’origine, oppresso dal regime totalitario, per emigrare in cerca di fortuna a San Diego, California.
Diciannovenne, si è trasferita a Los Angeles, scontrandosi con una realtà turbolenta, pericolosamente simile a quella descritta da Axl Rose nel controverso testo di “Welcome To The Jungle” dei Guns N’Roses.
A sua volta, Dorothy ha esplorato il lato oscuro della Città degli Angeli, rischiando di precipitare nell'”abisso” per troppa confidenza con sostanze stupefacenti ed alcolici. Ha rasentato la fama di “bellezza maledetta”, ma qualche collaborazione nell’area musicale ha messo in luce virtù vocali all’altezza della sua immagine; fra le altre, con un’autentica icona americana, la cantante country ed attrice Dolly Parton. E’ così salita sul treno in corsa della Roc Nation, etichetta fondata da un’altra celebrità d’Oltreoceano, il facoltoso rapper Jay-Z, per la quale ha esordito nel 2016 con l’opera prima “Rockisdead”.
Un titolo destabilizzante, perché Dorothy (che pure è il nome della sua band) riallacciava invece un ponte di collegamento con grandi antesignane fra le voci femminili, Grace Slick e Janis Joplin, riesumando anche la tradizione rock’n’roll, blues ed hard rock di protagoniste – dagli anni ’80 in poi – di questo mix stilistico: penso a Joanna Dean, meteora di Memphis oppure alle supernova canadesi Alannah Myles e Sass Jordan (dal secondo album in poi).
Cresciuta ascoltando i Creedence, il country e la black music della Motown, Dorothy realizzava un ibrido di istantaneo effetto, esorcizzando anche i propri fantasmi personali in brani espliciti quali “Wicked Ones”, “Raise Hell” e “Dark Nights”, mentre “After Midnight” non è il classico di Eric Clapton, ma sfoggia la splendida voce blueseggiante della cantante.
Due anni dopo, Dorothy replicava con il secondo “28 Days In The Valley”, confermando la sua dinamica versatilità nel ravvivare il rock classico attraverso una vena a tratti più intimista, nella ballata “Flawless”, nella spirituale vena country di “Mountain” o nel folk dall’atmosfera paludosa e voodoo della title-track, sconfinando nel rock psichedelico di “White Butterfly”, dove l’affinità con la Divina dei Jefferson Airplane è palese.

Poi, durante il tour conseguente all’uscita dell’album, un accaduto imponderabile sfiora la tragedia, ma viene interpretato come “miracoloso” da Dorothy; a causa di un’overdose, il suo tecnico delle chitarre che viaggiava nello stesso pullman sembrava ormai deceduto, invece riprendeva conoscenza mentre la cantante pregava per la sua sopravvivenza. L’episodio è descritto nel sito ufficiale dorothyonfire.com, che dichiara la “rinascita spirituale” della Martin, sulla quale ha rifondato la propria vita e carriera artistica.
La conseguenza è il terzo album dal titolo rivelatore, “Gifts From The Holy Ghost”, dove Dorothy rinuncia fin dalle veste grafica all’immagine di sex symbol esibita in passato, presentando solo in copertina un suo ritratto fotografico dal fascino misterioso. Ma la vera sorpresa, per chi giudica principalmente il contenuto musicale è il deciso cambio di direzione verso l’hard rock. Con i contributi del navigato produttore Chris Lord-Alge, che si affermò a New York negli anni ’80, del chitarrista Trevor Lukather, leader dei Levara ma soprattutto figlio d’arte del grande Steve, e del chitarrista di Bon Jovi, Phil X, “Holy Ghost” è un album che ha meritato di competere per il podio fra i migliori del 2022.
Dieci brani, tutti avvincenti e dotati di un impatto smisurato, pilotati dalla voce altisonante di una Dorothy in costante progresso, quasi fosse davvero baciata da un “intervento divino”. L’iniziale “A Beautiful Life” è una bomba arena rock, dove la cantante riconosce di aver vagato fra le tenebre dell’”inferno” ma sconfiggendo i propri demoni grazie all’amore, ha iniziato una nuova, bellissima vita. “Big Guns” innesca un mid-tempo esplosivo quanto promette il titolo, mentre “Rest In Peace” risplende come un diamante melodico, dove la cantante inizialmente si esibisce sul solo arpeggio acustico, per rendersi protagonista di un magnifico crescendo, dall’afflato gospel. L’interpretazione è davvero toccante e Dorothy riconosce nelle liriche di essersi lasciata alle spalle un doloroso itinerario esistenziale: “R.I.P.” rappresenta l’epitaffio sul sepolcro del suo passato auto-distruttivo.
Al di là dei temi trattati, “Top Of The World” e “Hurricane” sono granitici anthem di grande effetto, e “Black Sheep” dalla pesantissima ritmica ma con un refrain da intonare in coro con il pubblico, è ancor più trascinante.
Invece “Close To Me Always” è la rituale ballata, cantata in maniera ancor più suggestiva nella strofa, con gli echi che si moltiplicano nel finale. “Made To Die” si spinge nei territori del classico heavy metal, con uno slancio rimbombante che ricorda addirittura i classici Riot! Infine, i gloriosi accenti di rock sudista del brano guida “…Holy Ghost”, con Dorothy al top della forma e gli avvincenti slanci della solista di Phil X che ne scandiscono il tempo, suggellano l’album con un brano meraviglioso. Che aggiungere? Un’apoteosi dopo la scampata tragedia, e da parte mia un plauso al compagno di “fede” Marco Garavelli, il conduttore di Linea Rock che ha sempre creduto nel talento della fuggiasca ungherese.

CHEZ KANE

Recensendo l’ultimo album dei Crazy Lixx, “Street Lethal”, riconoscevo a questi svedesi spiccate doti nel raccogliere l’eredità del movimento hair metal degli anni ’80, rilanciandolo nella contemporaneità. Il loro leader Danny Rexon ha dimostrato di saper andar oltre, calandosi nel ruolo di scopritore di talenti e proponendo alla sua stessa etichetta (Frontiers) un’autentica rivelazione, la cantante Chez Kane, già sul “fronte” di un trio di sorelle gallesi, Kane’d. Rexon ha così dimostrato di esser molto più di un cultore di revival di glorie trascorse, ma artista completo capace di calarsi nei panni di one man band per la sua “protetta”, oltre che arrangiatore, produttore, compositore. Segnale evidente di chi ambisce a reinventare il genere musicale che vive con autentica passione, impegnandosi per conferirgli una continuità moderna.
Chez ha così esordito nel marzo 2021 con un omonimo album dove sfoggiava indiscutibili risorse vocali ed una personalità che avanza idealmente la sua candidatura alla successione di protagoniste femminili a cavallo degli anni ’70-’80, quali Pat Benatar, Teri De Sario, Robin Beck e Lisa Price.
Nomi non facilmente accostabili a proposte contemporanee, che rende l’apparizione sulle scene di Chez più eccitante e meritevole d’approfondimento. In seguito, la cantante gallese veniva convocata per l’album di Jim Peterik (Survivor) dal titolo programmatico: “Tigress – Women Who Rock The World”, uscito in novembre, al quale partecipava con il brano “A Capella”.
Circa un anno dopo la Kane, sempre affiancata dal suo mastermind scandinavo, ha rilanciato con il secondo album “Powerzone”.
La copertina, ideata dallo stesso Rexon, imita quella dei vecchi 33 giri, un po’ usurata proprio intorno al cerchio di vinile incluso e con una piccola etichetta sul fronte, dove anziché il prezzo, è esibita la data di pubblicazione (10.21.22, ovvero 21 ottobre 2022).

Nell’intera sessione fotografica, Chez gioca la carta sexy con qualche forzatura di troppo che forse non le s’addice, disponendo di un’immagine più naturale che da vamp. Molto convincente la musica, che colloca “Powerzone” fra gli album dell’anno sotto l’egida del rock melodico.
Sia il brano che rompe gli indugi, “I Just Want You”, sia la title-track espongono al meglio l’intensità vocale di Chez, paragonabile ad una versione hard rock di Pat Benatar, dominatrice degli anni ’80 oggi un po’ dimenticata; nella prima appare in gran spolvero l’arrangiamento delle tastiere, ed in entrambi i casi gli interventi in assolo della chitarra di Rexon sono concisi e ficcanti.
“Rock You Up”, avvicina il rock anthemico, da cantare in concerto, scandito dal battito di mani e con l’accompagnamento del pubblico, nello stile soprattutto di Def Leppard e degli stessi Bon Jovi.
Molto più originale il singolo “Love Gone Wild”, nonostante un video piuttosto kitsch, dove Rexon ha il colpo di genio di inserire un sax alla maniera dei Ghost di “Prequelle”, e che forse ci illumina su una certa mossa futura…”I’m Ready” si avvicina piuttosto alla Lee Aaron di “Metal Queen”, con il suono più heavy…metal, appunto, esibito da “Powerzone”. Immancabile la power ballad, “Streets Of Gold”, ravvivata da un elegante assolo di chitarra nella vena di Richie Sambora.
I due brani più impegnativi, che rendono ancor più consistente l’offerta chez…Kane (!), sono “Children Of Tomorrow Gone”, con pianoforte e tastiere elettroniche che gettano le basi per un’atmosfera maliosa e vagamente celtica, pungolata dai “picchi” vocali davvero potenti della cantante, fino ad un epico finale. In conclusione, anche la melodrammatica “Guilty Of Love”, di memoria Survivor-esque, che punta sulla gloriosa cavalcata della chitarra per varcare il limite degli otto minuti.
In sintesi, efficacissima la combinazione fra la voce di Chez, che esce altamente valorizzata dalla sfida, e l’operato complessivo di Danny Rexon, che restituisce l’idea di un vero e proprio lavoro di gruppo, senza ricorrere a palesi trucchi di studio computerizzati per sopperire alla mancanza di “risorse umane” adeguate.
Ma la coppia non si ferma qui, ed in febbraio divulga un nuovo singolo, la cover della facciata B più clamorosa degli anni Duemila, “Mary On A Cross” dei Ghost. Chez Kane coglie assai bene lo spirito di resurrezione AOR esibito da Tobias Forge soprattutto nell’ultimo “Impera”, e probabilmente lei e Rexon avevano ascoltato da tempo i Ghost, come dall’evidenza enunciata di “Love Gone Wild”.
Al di là di riferimenti disparati, si pensi anche alle sue interpretazioni su YouTube di “Dream Warriors” dei Dokken o di “Love Bites” dei Def Leppard, Chez Kane è un’artista in netta ascesa, da non perdere di vista per gli amanti del rock melodico, energico ma con un tocco di classe!

NEVENA

Da lungo tempo ormai il fenomeno della “globalizzazione” ha investito anche il mondo del rock, andando ben oltre il monopolio delle origini, riservato a musicisti anglo-americani. In quest’ottica la Germania è stata all’avanguardia negli anni ’70, rappresentando un mercato particolarmente remunerativo, ma all’inizio degli Ottanta ancora ci meravigliavamo quando gli spagnoli Baron Rojo conquistavano il loro spazio di pari passo con l’esplosione della scena britannica hard’n’heavy; oppure, se a decennio inoltrato, gli svedesi Europe andavano in vetta alle classifiche emulando usi & costumi dell’hair metal americano.
Oggi, nella capillare estensione del rock ad ogni latitudine, anche la Serbia reclama il suo spazio nelle sfere dell’hard melodico; ne abbiamo avuto un assaggio l’anno scorso con l’esordio, “First Bite”, di The Big Deal su Frontiers, e proprio il leader di quella formazione, il chitarrista Srdjan Brankovic, ha segnalato all’etichetta italiana un’artista della stessa terra di provenienza, Nevena Dordevic.
Per molti appassionati della vecchia guardia, scoprire che una rivelazione rock si è affermata grazie ad un concorso stile X Factor è una sorta di spada conficcata nel cuore, ma “rassegnamoci”…anche Nevena si è fatta conoscere giungendo in finale di un talent show televisivo della sua nazione.
La cantante e pianista serba si dichiara però maturata in differenti scuole musicali, dal musical al jazz, senza naturalmente trascurare il pop-rock e si è voluta mettere ulteriormente alla prova, frequentando il Berklee College Of Music di Boston.

La Frontiers l’ha affidata alle cure di uno dei personaggi iperattivi dell’attuale scena hard rock svedese, Michael Palace, leader dell’omonima formazione ed appassionato di lungo corso del classico AOR americano.
Così Palace è diventato ufficialmente il nuovo mentore di Nevena, incaricandosi di produrre il suo omonimo primo album, di registrare la quasi totalità delle parti strumentali e di comporre gran parte degli undici brani in lista. Uscito nel dicembre 2022, “Nevena” presenta la cantante serba in ammiccanti scatti fotografici più consoni ad una pin-up o ad una potenziale diva pop che ad una stella nascente del rock, ma al di là degli aspetti iconografici, vale la prassi musicale.
L’album si presenta infatti con una durata “classica” di circa 39 minuti, che non è un limite ma semmai l’ottimizzazione del repertorio, con l’eliminazione di superflui riempitivi.
Inoltre assistiamo alla riproposizione della formula hard rock “commerciale”, che non è necessariamente sinonimo di compromesso e di revival di uno stile immutato; con un approccio giovanile ed esuberante, il binomio Nevena & Palace elabora la sua efficace sintesi pop-metal (così l’avremmo battezzata ricordando nostalgicamente gli anni ’70 e ’80), realizzando un incrocio fra quella tradizione e sonorità attuali, legate ad un’impronta tecnologica meno creativa rispetto ad un tempo, ma probabilmente più accessibile alle nuove generazioni.
Di conseguenza, si potrebbe identificare Nevena come la versione contemporanea dell’appariscente svedese Erika, già moglie di Yngwie Malmsteen, che esordì con il pregevole rock melodico dell’album “Cold Winter Night” nel 1990.
In apertura, la chitarra di Palace conferisce un taglio assai incisivo a “Bulletproof”, addolcita – ma non edulcorata – dal coro a presa rapida intonato da Nevena. Subito dopo, “Bad Sun Rising” provoca uno shock emotivo agli appassionati di lunga data, perché il riff iniziale (solo quello…) è lo stesso di “So Young So Bad” dei monumentali Starz, un brano che a dispetto della scarsa notorietà ha avuto varie filiazioni, più o meno legittime.
“Straight Into Madness”, cadenzato brano d’atmosfera, è un altro apprezzabile indizio delle ambizioni di Nevena nell’arena del rock melodico, mentre qualche artificio di produzione cosiddetta “moderna” rende “Too Late” più indirizzata verso un pubblico pop-rock giovanile, analogamente a “Outrageous”, in chiusura, che ha il potenziale di un singolo da classifica.
“Miracles” invece si appropria del codice power-ballad, introdotta dal piano davvero celestiale (nessuna relazione con gli Angel!) della bionda cantante, poi “You Two” esibisce un’incalzante vena AOR mentre “Fire In Me” dimostra come Nevena sappia padroneggiare un suono voluminoso e convincente, confermando di valere assai più di un’immagine prefabbricata da copertina. Palace inoltre non rinuncia ai suoi assoli brevi ma “vendicativi” risolvendo così anche il pop-rock ben arrangiato di “Brand New Heart”.
Ascoltate Nevena con fiducia e senza troppi pregiudizi, il talento c’è per andar oltre questa accattivante opera prima. La aspettiamo al varco nel futuro prossimo.

15 Commenti

  • Luca ha detto:

    Buongiorno Beppe,
    interessato dall’entusiasmo e dalla competenza con cui scrivi tuoi pezzi ho ascoltato con attenzione queste artiste che ci suggerisci;
    mi spiace, allo stato attuale non convincono, per quanto ci siano possibilità di crescita. Sono cantanti tecnicamente valide, anche con capacità d’interpretare (specie Dorothy). Lei pare la più consistente: Lukather dopo l’esperimento Levara prosegue sulla via d’un AOR attualizzato verso il Pop e l’Hard più muscolare del momento. La voce però è un po’ troppo più esposta degli strumenti e le composizioni potrebbero osare di più.

    Chez Kane ammicca al passato, ma la produzione fa quel che può con pochi mezzi mentre le canzoni vanno troppo sul sicuro.
    Sembra un girare attorno agli 80 ravvivandoli senza dargli però sostanza, con la paura di scontentare gli appassionati, limite di Rexon.

    Nevena anche lei ha delle potenzialità, però in un disco dai suoni Hard e con la voce Pop. Dalla sua produzione (molto Dance) sembra una personalità un po’mercenaria alla Jennifer Rush ma senza HArold Faltermeyer a scrivere i brani.

    Per giungere a livelli d’efficacia come Debbie Smith, Alannah Myles, Joanna Dean o Robin Beck, mancano ancora molte cose.
    Grazie come sempre per gli stimoli che dai noi aficionados!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Luca, le tue considerazioni sono certamente frutto di conoscenza (la citazione di Jennifer Rush non è affatto banale, quanti se la ricorderanno da noi?) ed ovviamente le mie valutazioni le ho già esposte. Mi dai però l’occasione di affrontare sinteticamente un tema: non sono affatto dalla parte di chi tende al nuovo a tutti i costi (certa stampa furbetta) ma nemmeno di chi si richiude nel passato e rifiuta ogni novità; magari questi “classicisti” si parano dietro i soliti nomi storici, ma non hanno mai ascoltato un brano dei Fantasy, Necromandus o Silverhead, tanto per citare tre nomi di differenti generi dei seventies. Analogamente, penso che si tenda a “divinizzare” gruppi o artisti degli anni ’80 (per gli appassionati dell’epoca), sottovalutando nomi nuovi che si rifanno a quel decennio. Ritengo ad esempio che Dorothy sia un personaggio autentico, che ha vissuto, sofferto, dimostrato talento non inferiore alle chanteuses che tu citi, tutt’altro. Anche Chez Kane possiede doti vocali non certo inferiori al suo modello, che secondo chi ben la conosce è Lita Ford. Nevena ha fatto un solo album, vediamo come proseguirà, fermo restando che il pop-rock non è una “parola sporca”. Grazie dell’attenzione.

  • Lorenzo ha detto:

    Ciao Beppe
    Argomento veramente interessante che potenzialmente potrebbe dare il la’ ad una miriade di articoli di approfondimento.
    Ho particolarmente apprezzato l’introduzione in cui citi artiste e female fronted band afferenti all’hard rock / AOR che conosco e di cui posseggo i dischi.
    Mi permetto di evidenziare tra tutti i nomi una grande cantante come Joanna Dean autrice di un bellissimo disco solista e di altro LP forse ancora migliore sotto l’egida di una band, i Bad Romance (Code of Honour il titolo del disco).
    Delle tre “novità” di cui parli conosco solo Chez Kane, e personalmente i suoi due dischi non mi hanno entusiasmato; tutto ben suonato e cantato, ma purtroppo soprattutto in questo specifico genere il confronto con le iperproduzioni degli 80 e primi 90 traccia un solco troppo profondo per essere colmato.
    Approfitterò comunque per dare un ascolto a Dorothy e Nevena.
    Chiosa finale…Al di fuori del genere di cui si parla in questo articolo, in Italia abbiamo una grande band con una straordinaria voce femminile, che non citerò per riguardo al fatto che non ti vuoi “esporre” in relazione a gruppi italiani ..
    Grazie per questo contributo.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, sorprendente trovare qualcuno che ben ricorda quell’album dei Bad Romance. Fu recensito su Metal Shock, sinceramente non ricordo se me ne occupai io (fra migliaia di recensioni eseguite!) o altri. Se io mi astengo dall’occuparmi di un argomento, non invito per questo i lettori ad imitarmi…Anzi, mi avrebbe incuriosito sapere chi detiene la “straordinaria voce femminile” che ti ha incantato. Peccato! Grazie dell’intervento comunque.

      • Lorenzo ha detto:

        Non mi ricordo, purtroppo, se all’epoca lessi o meno la recensione su MS, di conseguenza non mi ricordo nemmeno l’estensore della stessa…certo quel titolo era sicuramente nelle tue corde.
        Io lo recuperai anni fa ad una fiera del disco pagandolo nemmeno così poco..
        Per il resto, ho citato i Messa credo un paio di volte in questo blog e non vorrei nemmeno passare per adulatore interessato😁 …incantato è però la parola giusta, mai avrei pensato che una band contemporanea, peraltro italiana mi avrebbe esaltato in tal modo.
        Indubbiamente però rispetto al mood dell’articolo siamo sicuramente fuori tema..

  • Giuseppe ha detto:

    bellissimo (in tutti i sensi …) pezzo, Beppe! grazie per le ottime segnalazioni, in particolare per quella di Chez Kane (davvero strepitosa la sua cover di Mary On A Cross!) … a quando una retrospettiva sulle rockeuse del passato da te citate nell’introduzione al presente articolo?

    • Beppe Riva ha detto:

      Eh si, Giuseppe, dovrei trovare una formula “snella” per riaccendere l’attenzione su tante cose belle del passato. Intanto qualche passo è stato fatto. Grazie per aver apprezzato. Ciao!

  • Marcello ha detto:

    Ciao Beppe, complimenti per questo articolo che dà spazio a queste tre interpreti, molto diverse tra loro, ma che ben rappresentano l’attuale scena hard rock/aor.
    Delle tre women in uniform mi ha piacevolmente sorpreso i’unica che non conoscevo, Dorothy, per me la più versatile, capace di rileggere in modo intelligente e moderno i classici canoni rock , incuriosito ho prima ascoltato su youtube e poi acquistato il suo ultimo ottimo album.
    Permettimi una citazione anche sulla tua introduzione, riaguardo alla meravigliosa Sass Jordan. artista di cui posseggo solo due album “Racine” e “Rats”, che riascolto sempre volentieri, musica senza tempo, che riesce sempre ad emozionarmi, perchè si sà ….. it’s only rock’n’roll, but we like it!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Marcello. Bravo! Dorothy è un’eccellente vocalist ma dalla sua vanta anche brani memorabili (la canzone ben realizzata lascia sempre il segno!) e la backing band è davvero di grande impatto. Sass Jordan è una più che illustre semisconosciuta (da noi) ma meriterebbe accurati ascolti, a cominciare dal primo album “Tell Somebody”, più AOR, di cui è qui riportata la copertina. Grazie

  • lorenzo ha detto:

    Grande pezzo! Mi ha permesso di conoscere artiste per me ignote sino ad ora. Non si smette mai di imparare. Negli anni addietro ricordo Siuxie e Chrissie dei Pretenders (anche se non HM). Ora tantissimi gruppi Gothic e non solo hanno donne come cantanti e che cantanti! Solo per citarne alcune Floor Jansen, ALyssa White Glutz e la lista potrebbe essere molto molto lunga

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo. Colgo l’occasione della tua giusta considerazione per dire che ho volutamente limitato il “campo” introduttivo, precisandolo, perché altrimenti ne sarebbe risultata una filippica infinita. Per esempio nel folk-rock, musica che mi è sempre piaciuta, da Joan Baez a Sandy Denny dei Fairport Convention in poi, ci sarebbe da sbizzarrirsi. Idem in campo punk-new wave; ad là delle grandi stelle Patti Smith e Blondie, e delle stesse Siouxsie e Chrissie, sono numerose le presenze da culto in quella scena. Infine, dagli anni ’90 in poi, è massiccia la leadership di voci femminili in gruppi metal di stampo sinfonico/gotico, a partire dai seminali Nightwish della straordinaria Tarja, in seguito la Olzon e l’attuale Floor Jansen. Non sottovaluto nessuno/a, è stata fatta solo una scelta di campo. Grazie

  • paolo ha detto:

    Ciao Beppe, un po’ di gloria anche per le women in rock! Molto bello il disco di Dorothy. Ma come sempre nei tuoi precisi articoli risvegli ricordi. Tra le artiste citate, ho rispolverato quel grandissimo album di Sass Jordan “Rats”, che credo aver comprato dopo una tua recensione (ma va’?). E le italiane? Ti ricordi di Felli ? e il suo disco “Peligroso” del 1993? Un autentica chicca.
    Grazie per il tuo lavoro
    Paolo

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Paolo, spero proprio che le rockeuses abbiano il successo che meritano, il mio è solo un piccolo contributo, vedremo in seguito se riproporre l’argomento.
      Sass Jordan vale sempre attenzione, ho visto un filmato su YouTube dov’è stata chiamata sul palco, durante uno show, da uno dei gruppi più famosi del mondo, ossia i Foo Fighters. Sugli artisti/e italiani in generale preferisco astenermi, “fiaccato” dalle polemiche del passato sulle riviste. Tanto ci sono molti competenti che se ne occupano. Grazie

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe. La maggior parte delle artiste che citi nel cappello introduttivo sono ovviamente tutte “mie conoscenze”, grazie anche ai tuoi articoli dell’epoca. Riguardo alle tre eroine odierne che approfondisci nell’articolo, ho approfondito soltanto Dorothy, il cui “Gifts From The Holy Ghost” mi ha veramente esaltato. Farò lo stesso con le altre due, perché i brani postati incontrano sicuramente il mio favore. Thanks!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro, ti ringrazio dell’attenzione che sempre manifesti. Il “cappello introduttivo” è un pò la mia maniera per introdurre l’argomento dell’articolo, in modo che gli artisti trattati non siano slegati da un contesto più generale. Anch’io penso, pur essendo figlio di un’altra epoca, che sia istruttivo ed interessante valutare proposte attuali, quando lo meritano.

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