IRON MAIDEN? Sui campioni del metal ho abbondantemente dato fin dagli esordi; dovrei parlarvi del concerto di sabato 15 luglio a Milano? Sospetto sia abbastanza superfluo. Qualche affezionato lettore commenterebbe sbuffando: “Anche lui?” Però a dimostrazione che i tempi sono cambiati, c’è da registrare lo smacco della ben superiore affluenza alla contemporanea esibizione degli Arctic Monkeys…Ma soprattutto, preme sottolineare come entrambi gli spettacoli – di grande richiamo – siano stati programmati nella stessa serata, in due ippodromi ad un tiro di schioppo l’uno dall’altro, in zona S. Siro. La folla complessiva, stimata intorno alle 100.000 unità, è stata poi costretta ad affrontare un inaudito ingorgo stradale per uscire dalla metropoli a notte fonda, provocato da un’indegna gestione organizzativa che ha impedito “ad arte” l’accesso degli odiati automezzi privati (ma tagliando fuori anche la rete pubblica) con strategiche chiusure delle vie d’accesso. Alla fine, auto e pedoni si sono riversati sulle limitate vie percorribili a stretto contatto, con elevati rischi di sicurezza. Incredibile, se si pensa che per le partite di calcio allo stadio di S. Siro, non “Eravamo in Centomila” come cantava Celentano, ma spesso si registra il tutto esaurito da circa 75.000 presenti, ed il deflusso post-gara, se si ha l’accortezza di parcheggiare ad un quarto d’ora (di buon passo), avviene in tempi rapidi. Povero pubblico tartassato!
Scacciamo quest’incubo e tiriamo in ballo i WARLORD: mi ricordano ciò che di veramente buono ci ha tramandato il metal degli anni ’80; epico, solenne, ricco di soluzioni creative ispirate da un chitarrista, William J Tsamis (alias Destroyer) che purtroppo ci ha lasciato. C’è poco da discutere: quello è stato il decennio d’oro del vero heavy metal. Oggi non sono attratto da riproduzioni di “metallo classico” dove i cliché sono sempre gli stessi: cori vocali che si pretendono imperiosi ma il più delle volte risultano grossolani, rullate di tamburi che risuonano come una scarica di mitragliatrice, svolazzanti effetti prefabbricati di testiere sinfoniche ed assoli di chitarra che sembrano in competizione con Verstappen per il “giro più veloce”, senza citare le pose minacciose dei protagonisti, non meno stereotipate. Ma l’iniziale ode ai californiani Warlord è solo un pretesto…
Infine GHOST: lo sapete, sono i miei preferiti fra i gruppi di natali passabilmente recenti. Ma il nuovo singolo “Stay”, ennesima cover che risuonerà sui titoli di coda del film horror “Insidious – La porta rossa” (replicando l’accoppiata “Hunter’s Moon”/”Halloween Kills”) e sarà incluso nell’imminente edizione in box set, “Extended Impera”, del quinto album, è davvero troppo poco per tornare su un argomento ampiamente sviscerato.
Dunque? Questi nomi celebri (Iron Maiden, Ghost) o comunque amati dal pubblico competente (Warlord) sono solo l’occasione per l’ennesima calata nell’underground degli anni ’70. Infatti, già allora esistevano gruppi con quello stesso nome, che non ebbero la fortuna di diffonderlo, a differenza degli epigoni di maggior fama. Per certi versi si può parlare di una sorta di “immersione nel Maelstrom”; tutte le tre leggende chiamate in causa esibivano parvenze sinistre, occulte.
Resti di Iron Maiden e Warlord furono riportati alla luce da Audio Archives, etichetta inglese fondata all’inizio degli anni ’90 e specializzata in rarità “Downer Rock”. E’ questo il caso dei gruppi citati: downer rock nasceva dalla fantasia di Bill Ward, che con questo termine “depressivo” definiva i connotati mortiferi della scena heavy rock d’inizio ’70, trainata dai suoi Black Sabbath. Si trattava dunque di un archetipo del genere che sarà divulgato come doom metal. D’ispirazione dark, anche se con radici musicali diverse (nel rock psichedelico e nel folk) anche The Ghost, gli unici che all’epoca pubblicarono un solitario album nel gennaio 1970, poi divenuto un pezzo da collezione. Vogliamo parlarne?
Con l’occasione, auguro a tutti i lettori del Blog buone vacanze!
The Original IRON MAIDEN
No, non si tratta di un’invenzione di qualche cacciatore di scoop. Molto prima che il barbaro strumento di tortura medievale fosse indissolubilmente legato alla più famosa heavy metal band inglese dagli anni ’80 ad oggi, esisteva un quartetto originario di Basildon, nell’Essex, chiamato Iron Maiden. Grazie alla fantasia di un roadie, così si ribattezzarono nel 1970 i Bum, che già avevano suonato con stelle in ascesa quali Fleetwood Mac, Jethro Tull e King Crimson dal 1967 in poi. Rivelando una vena particolarmente inquietante, i Bum realizzarono un acetato del brano proto-doom “God of Darkness” e della crepuscolare “Ballad Of Martha Kent”. Sempre nel 1970, Iron Maiden vennero scritturati dall’etichetta Gemini, per la quale incisero un singolo, “Falling”/”Ned Kelly”, che doveva preludere all’album “Maiden Voyage”, registrato ma rimasto inedito, a causa del fallimento della label. Fortunatamente per i cultori di rarità, molti anni dopo Audio Archives è entrata in contatto con il bassista e membro fondatore Barry Skeels, che si unirà ai sinistri Zior dopo lo split dei Maiden; così l’album, o comunque le registrazioni sopravvissute, appare per la prima volta sul mercato discografico nel 1998, presentato come “archetipo doom-metal degli originali Iron Maiden”. Al fianco di Skeels si esibiva fin dal nucleo embrionale del ’64 l’efficace front-man Steve Drewett; il quartetto era completato dal chitarrista Trevor Thoms, mentre alla batteria figuravano Paul Reynolds e (nei brani del singolo) Steve Chapman. Lo stile del gruppo è in realtà più differenziato rispetto ai codici doom oggi riconosciuti, a partire dall’iniziale “Falling”, con il suo splendido arpeggio cortigiano, limitrofo al feudo “Argus” dei Wishbone Ash. All’epoca fece sensazione per la sua durata di circa sei minuti, debordante per un sette pollici, ma a prescindere, “Falling” resta un classico underground a 24 carati.
Il brano era accoppiato a “Ned Kelly”, più tipica performance hard rock di quegli anni; il titolo è lo stesso del film western interpretato da un barbuto Mick Jagger ed uscito contemporaneamente, nel giugno 1970. Poiché il manager dei Maiden, Stan Blackbourne, aveva lavorato con i Rolling Stones, si trattò probabilmente di un espediente per propagandare l’esordio discografico del quartetto.
Nella loro città, Iron Maiden inaugurarono uno show dove la principale attrazione erano i leggendari High Tide, e subito dopo di loro si esibivano The Hype, il gruppo di David Bowie che ebbe vita breve!
I brani di “Maiden Voyage” vivono soprattutto sui virtuosismi di Trevor Thoms, un chitarrista capace di assoli inenarrabili, che in seguito suonerà negli Spirit Of John Morgan, poi nelle band di Steve Gibbons e di Nik Turner (già negli Hawkwind). I mesmerici fraseggi psych di “Liar”, che si estende per oltre dodici minuti, rievocano “Vol. I” degli Human Beast, mentre nell’incalzante evolversi di “Ritual”, Trevor emula i fasti del Tony lommi di “Warning”, ed è la piena consacrazione di un gran talento.
“CC Ryder” è sorprendentemente boogie sulla scia della voga british blues anni ’60, dove Trevor si fa valere anche all’armonica. Con i cupi presagi di “God of Darkness”, nello stile heavy-dark di un’altra oscura formazione dell’epoca, Horse, si chiude la parabola di “Maiden Voyage” e resta il rammarico di chissà quali potenzialità inespresse.
A dimostrazione della notevole qualità e dell’interesse collezionistico, “The Original Iron Maiden” sono stati oggetto di una ristampa definitiva (edizione limitata: doppio LP più 45 giri/replica dell’acetato dei Bum e copioso booklet) da parte della Rise Above Relics dell’archeologo del rock antidiluviano Lee Dorrian.
Una postilla: nella prima metà degli anni ’70 esistevano anche dei “secondi” Iron Maiden, di Bolton…(non la star americana Michael, ma la città a nord di Manchester). Questa è però un’altra storia.
I see the (first) WARLORD...
Quando nel 1983 i Warlord fecero irruzione nell’arena dell’heavy metal americano, affermandosi fra i pionieri di quello scenario con il magistrale mini-album su Metal Blade, “Deliver Us”, chi mai sapeva che prima di loro erano esistiti antesignani inglesi dallo stesso nome?
Il mistero fu svelato quasi vent’anni dopo, quando Audio Archives riesumò reperti d’epoca di questa “sotterranea” doom-metal band, ricomponendoli in un omonimo CD.
A dar vita a quest’infausta congrega fu un tastierista, Ivan Coutts, che aveva lasciato per divergenze musicali nel 1974 la sua precedente esperienza, The Blacksmiths, attratto da un genuino interesse verso il misticismo occulto, a differenza dei suoi compagni d’avventura, con i quali aveva registrato la tenebrosa “To The Devil A Daughter”. Non a caso, prima di avvicinarsi alle arti magiche, lo “stregone” delle tastiere si dichiarava influenzato da Vincent Crane (Atomic Rooster) di “Death Walks Behind You” e dagli irrinunciabili Black Sabbath e Black Widow. In comune con questi ultimi, si dichiarava ispirato dal Gran Sacerdote del culto neo-pagano di Wicca, Alex Sanders.
Nel 1975, Ivan raccolse attorno a sé un quintetto, con due musicisti di estrazione sudafricana – John Alexander, chitarra e Andy Dunlop, basso e chitarra acustica – oltre a Richard Roffey (voce) e Paul Cantwell (batteria); con loro era convinto di aver coagulato un’ideale chimica di gruppo, e a sua detta, “i musicisti suonavano come posseduti”. Avevano iniziato ad esibirsi dal vivo e previsto un primo singolo, “I See The Warlord”, prima di una rapida fine dovuta a ragioni non meglio precisate. Il tastierista ha dichiarato che sia lui, sia il cantante avevano ricevuto minacce di morte. Il trio rimanente aveva proseguito ribattezzandosi Stallion ed incidendo un demo nel 1977; naturalmente non si tratta del gruppo americano che esordì nello stesso anno su Casablanca.
Ivan Coutts si ritirò per qualche tempo, dedicandosi alla composizione di un musical rock, “Turn Of The Century”, al quale si narra contribuì anche il grande Jeff Beck. Questo secondo le note di copertina del CD edito da Audio Archives nel 2002 (e più recentemente in vinile), che in chiusura ne riporta un estratto, “Warlord (pt.II) reprise”. Si tratta di una raccolta di brani assemblati senza rispettare un ordine cronologico, tant’è che i due iniziali appartengono alla formazione postuma, Stallion; “Jasmine Queen” e “Explorer” sono infatti esercitazioni da classico power-trio con qualche aggancio al soprannaturale nella voce lamentosa e nell’atmosfera malsana della seconda. I veri e propri Warlord si presentano assai bene con l’intro evocativa, poi sommersa dalla ritmica-mammut di “Face Of The Sun”, che esibisce anche la voce discretamente maligna di Roffey ed aperture strumentali maliose. Avrebbe meritato, come il resto, una produzione all’altezza. “Warlord” è una vera e propria dichiarazione di guerra ultra-heavy con qualche stacco acustico ed un feeling che preannuncia la prossima invasione della NWOBHM. “Lady Killer” sfoggia un sorprendente mix fra le caliginose tastiere dei Black Widow e la teatrale follia espressiva di Clive Box nei loro eredi Agony Bag, mediate da un suono assai pesante. Segue il pomo della discordia che minò l’unità dei Blacksmiths, “To The Devil And Daughter”, che riecheggia il rock psichedelico del Crazy World Of Arthur Brown, con le stimmate di potenziale hit da fine anni ’60.
E’ poi la volta delle grezze registrazioni demo, apparentemente sotto l’influsso delle droghe. Sarà pura stravaganza, ma è difficile ascoltare un organo dal suono tanto cupo come quello che conduce il riff di “Devil Drink”. “Wild Africa” richiama “Traveller In Time” degli Uriah Heep, prima di estendersi in un allucinato viaggio strumentale.
Con una più dignitosa resa sonica, “I See The Warlord” poteva risultare un significativo prototipo stoner-doom, mentre in “The Ring” i rintocchi di campana del Sabba accompagnano paradossalmente la recita più soffice e vagamente liturgica della raccolta. Peccato, in essa ci sono gli indizi di quello che avrebbero potuto essere e non sono stati i Warlord britannici (da non confondere con i Warlord UK dediti al metal estremo!). Per ultrà dell’occult-wave anni ’70, il disco è comunque una testimonianza attendibile e spesso immaginifica, purtroppo lontana da un’opera compiuta.
GHOST...For One Second
Della trilogia di misteriose formazioni delle quali state leggendo, Ghost, o meglio The Ghost, sono gli unici che realizzarono il solitario album “When You’re Dead – One Second”, assurto a miraggio collezionistico…The Ghost ed il loro strano amore per i cimiteri, immortalato in copertina, caratterizzarono con esoterica creatività la tendenza misticheggiante che investì il rock nell’anno magico 1970. Nonostante il quintetto provenisse dalla stessa Birmingham dei sulfurei Black Sabbath, nessun ascendente diabolico gravava sulla sua ispirazione; infatti dopo una prima comparsa nei tardi anni ’60 come Resurrection, modificarono il secondo nome, The Holy Ghost, temendo che apparisse blasfemo (mai Tobias Forge avrebbe così battezzato i loro epigoni svedesi!).
Sorprendentemente, sia il chitarrista e vocalist Paul Eastment, già negli psichedelici Velvet Fogg (anche per loro un album da collezione, l’eponimo del 1969), sia la cantante Shirley Kent dichiaravano origini italiane. La Kent scrisse di suo pugno le note di copertina della riedizione ufficiale in CD di “When You’re Dead…” (colpo messo a segno nel 1999 da una nostra etichetta, Mellotron) dichiarandosi piacevolmente impressionata dal fatto che «lo spirito dei Ghost potesse risorgere nel Bel Paese». Sostenere che la musica dei Ghost sia squisitamente originale non è certo retorica; le sonorità dell’organo Farfisa e l’asciutta, incalzante sezione ritmica, svelavano impressioni di acid rock americano, ma la forza espressiva dei cori, con il suggestivo mix delle voci di Paul e Shirley (e dello stesso tastierista Terry Guy), oltre allo stile chitarristico, erano prettamente inglesi, spesso con una sensibilità ‘gotica’ ante-litteram. La sintesi operata dai Ghost è splendidamente espressa nelle tracce iniziali del disco, uscito nel gennaio 1970 su etichetta Gemini, la stessa dei “primi” Maiden di cui s’è detto; spiccano “When You’re Dead” e “In Heaven”, aizzate dall’organo sfuggente e spettrale, a supporto di cori brividosi e di un’incisiva solista. Questi brani di innegabile impatto sono alternati alle deliziose scritture folksy della Kent, che risentono della sua seconda patria, l’Irlanda. “Hearts And Flowers”, dove sfoggia una vocalità potente e “Time Is My Enemy”, ancor più bella per eterea atmosfera, espongono le virtù di un’artista che si avvicina a icone quali Sandy Denny, Jane Relf (primi Renaissance), Alison Williams (Mellow Candle) e nondimeno Grace Slick. Proprio il citato titolo-guida “When You’re Dead” suggeriva l’ardita ipotesi dei Ghost come eredi in chiave brumosa dei Jefferson Airplane, ed affinità di Shirley con la più celebre Musa della West Coast si riscontrano ad esempio in “The Storm”. La cantante dei Ghost si dimostra una talentuosa compositrice, anche in stile rock, come si evince dalla bonus-track “I’ve Got To Get To Know You” (la stessa della prima ed esaurita ristampa del 1987 su etichetta Bam-Caruso), ovvero il secondo singolo che concluse nella primavera 1970 la parabola del quintetto.
Non a caso, dopo la sua rapida fuoriuscita, lei saprà ripetersi come solista, con lo pseudonimo Virginia Tree nell’album del ’75, “Fresh Out” (ristampato da Akarma), anche qui accompagnata da Paul Eastment. Tornando al gruppo d’origine, anche il tastierista Terry Guy è songwriter di rilievo, responsabile di memorabili stesure: “Indian Maid” e “Night Of The Warlock”, vigorose e solenni, e la seconda title-track “For One Second”, dall’impronta più bluesy. Purtroppo il ‘Fantasma’ di Birmingham ossessionerà una sola stagione del rock, strozzato dal proprio insuccesso, ma ancor di più dalla gelosia del manager Gordon Henderson, ex-boyfriend di Shirley, che “le rese la vita quasi impossibile” quando lei si innamorò di un altro, inducendola a lasciare il gruppo. Ricordiamo The Ghost quali incantevoli ed originali perdenti di un’epoca speciale.
ciao ragazzi
esagerando si può dire che c’era un’altra band dal nome
fonte Discogs
li ho ascoltati , ma nulla di eclatante
The Bolton Iron Maiden
Vero nome: Iron Maiden
Profilo:
Blues-based hard-rock band from Bolton, UK. Went through a few names and member changes. Changed name from Birth to Iron Maiden, lasted from 1970-76.
*Added Bolton to the name for CD release in 2005.
Members: Ian Boulton-Smith (aka Beak, d. 1976), Paul T.J. O’Neill, Derek George Austin, Noel Pemberton Billing.
Ciao Lorenzo, infatti nel finale del capitolo Iron Maiden ho citato anche gli omonimi di Bolton, ma i primi a suscitare attenzione come “originali” (oltre ad essere più interessanti) sono quelli trattati. Grazie
Ciao Beppe,
dei tre sapevo solo degli Iron Maiden, come sempre sei fonte di ispirazione e, dopo aver assaggiato i demo che hai pubblicato, mi attivo alla ricerca di materiale su internet.
Grazie per le perle che ci proponi.
Civi
Ciao Civi, contento di risentirti. Quando i lettori vanno alla ricerca di approfondimenti/ascolti, incuriositi da quanto proposto, posso dire che la mia “missione” (termine un pò troppo manageriale…) è compiuta. Spero sempre che le “scoperte” siano di vostro gradimento. Grazie!
Che dire, Beppe? Che esistessero “degli altri” Iron Maiden proprio non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello. Quindi complimenti per l’originalità di questo articolo che, penso, lascerà di stucco la maggioranza dei lettori. Se volevi confermare l’unicità dei tuoi scritti sul blog, credo che questo pezzo la confermi in toto. Ciao. Alessandro.
Ciao Alessandro, ti ringrazio molto per l'”unicità”…Ho l’età e di conseguenza l’esperienza, per far da “tramite” fra il mondo sommerso dell’underground rock anni 60-70 e l’hard’n’heavy dagli anni 80 in poi. Mi è sempre piaciuto coltivare questo rapporto fra epoche diverse, perché io stesso, da ascoltatore, ero molto interessato. Sicuramente un Blog di questo tipo non starebbe in piedi con argomenti troppo comuni, sebbene sia giusto prender posizione anche su fenomeni più diffusi. Spero sempre di trasmettere qualcosa di positivo ai lettori.
Ciao Beppe..
Inutile aggiungere che ogni tua discesa in..blog è sempre troppo poco per saziare la nostra richiesta di tuoi scritti!!!
Dato che hai appena accennato ai rientri di gruppi gloriosi degli 80’s ti vorrei chiedere cosa ne pensi dell’ ultimo Fifth Angel,gruppo che ci presentasti su Rockerilla e che ci entusiasmò con i primi due capolavori..
Tolti gli Angel che con gli ultimi due lavori mantengono inalterato il loro trademark,se non ci fosse il logo Fifth Angel in bella mostra nulla farebbe ricondurre ai nostri vecchi eroi..
Grazie Beppe..
Ciao Paolo, molto gentile. Tieni presente che anche gli Angel, gruppo fra i miei preferiti di sempre, con il come-back di “In The Beginning” erano un pò distanti dal loro “marchio di fabbrica”, rilanciato con successo in “Risen” e “Once…”. Spesso il ritorno di gruppi che aveva entusiasmato in passato non è all’altezza dei migliori trascorsi e come dici tu nel caso dei Fifth Angel, lontano dal loro DNA. Non ho ancora ascoltato il nuovo disco, però non mi meraviglia…Grazie a te.
Ciao Paolo, purtroppo sono d’accordo con te. Se The Third Secret, tutto sommato, suonava FA quasi al 100%, l’ultimo è talmente tronfio ed iperprodotto da ricordare gli ultimi Kamelot et similia. Peccato, perché il nuovo cantante è veramente bravo.
Grazie Beppe e grazie anche ad Alessandro..
Due mostri sacri al prezzo di uno🤟🤟