L'estate sta finendo...
Ormai l’estate sta finendo (un ritornello già sentito, vero?) e non ha regalato “capolavori” ai veterani d’incrollabile fede rock. La musica preferita di chi, come noi, è cresciuto al ritmo di guerrieri elettrici e delle loro incalzanti colonne sonore, segna il passo di fronte al dilagare di orripilanti tendenze d’ascolto della Generazione Z. Il tempo passa e non è più dalla nostra parte.
Ad inizio giugno, qualche fuoco d’artificio per il ritorno discografico di gruppi rilevanti (FOO FIGHTERS, AVENGED SEVENFOLD, EXTREME, RIVAL SONS) sembrava annunciare una stagione “calda” non solo per le temperature africane, ed intorno alla metà del mese ecco apparire altre attraenti novità. Se non erro, il 16 giugno uscivano contemporaneamente l’ottavo album degli stoners (più mutanti che convenzionali) QUEENS OF THE STONE AGE, “In Times New Roman”, che giudicavo davvero fondamentali allo scoccare del Terzo Millennio (si, 23 anni fa!); inoltre, STEVE LUKATHER raccoglieva l’eredità del più grande gruppo di session men del mondo (Toto, che pare non incideranno più insieme) accompagnandosi ai vecchi compagni David Paich e Joseph Williams nel suo nono album solo “Bridges”, che almeno a sprazzi resuscita glorie del passato. Conclude questa trilogia di uscite simultanee “Peace…Like A River” dei GOV’T MULE, stimati epigoni del rock classico di estrazione southern, di cui Giancarlo ha spesso e volentieri tessuto le lodi.
Entrando in pieno solstizio estivo, assistiamo anche al risveglio di superstiti della NWOBHM: con “All Hell’s Breaking Loose” i RAVEN hanno preceduto di circa un mese “WTForty Five” delle attempate GIRLSCHOOL, da lunga data orfane della carismatica Kelly Johnson; entrambi i casi possono suscitare qualche nostalgia dei tempi irrimediabilmente andati.
Altri rimpianti induce il titolo del nuovo album di ALBERT BOUCHARD, “Imaginos III: Mutant Reformation”, con varie rivisitazioni del repertorio dei grandi Blue Oyster Cult, di cui è stato membro fondatore. Erede legittimo di un gigante scomparso della musica rock, Edward Van Halen, il figlio Wolfgang ha lanciato in agosto il suo secondo capitolo a nome MAMMOTH WVH; assai benvoluto da certa critica, non è affatto paragonabile al genitore ed il suo stile, seppur competente, non mi accende entusiasmi.
Un’altra fatidica data estiva, il 25 agosto, ha riportato in pista una triade di novità contemporanee; per i cultori degli anni ’80, uscivano “Touchdown” di U.D.O. e “Sin” di VANDENBERG. I due titolari sono reduci dalle fortune di quel decennio (dagli Accept ai Whitesnake) ma certamente non vantano più la freschezza espressiva di quei tempi. Infine l’artista più popolare dei tre, ALICE COOPER, è ad un passo dal traguardo del 30° album di studio con il nuovo “Road”, che segue ad oltre due anni di distanza il rinvigorito “Detroit Stories”. Peccato che proprio lui, il 75enne pioniere dello Shock Rock e simbolo di trasgressione per antonomasia nell’America puritana d’inizio anni ’70, faccia parlare di sé più per essersi dichiarato contrario alla “transizione di genere dei minori” che per il nuovo disco. Tale presa di posizione è costata all’esplicito Alice la rescissione di un sostanzioso contratto con una ditta di cosmetici!
Giungendo all’inizio di settembre, ecco il nuovo disco degli indomiti scandinavi ECLIPSE, “Megalomanium”, atteso dagli specialisti dell’hard rock melodico ma che difficilmente andrà oltre quella nicchia.
GRETA VAN FLEET: “Starcatcher”
Dunque, senza affatto pretendere di esser esaustivo nel riepilogo sopra esposto, ho la sensazione che il “disco per l’estate” 2023 di maggior richiamo, ma anche fra i più controversi, sia il terzo album completo dei (non più giovanissimi) rampanti del Michigan, Greta Van Fleet.
A loro riguardo, mi sono apertamente esposto in occasione del precedente “The Battle at Garden’s Gate” (https://www.rockaroundtheblog.it/greta-van-fleet-the-battle-at-gardens-gate-giorni-di-un-futuro-passato/). Non li ho certamente “scoperti” io, nemmeno nelle nostre lande, tant’è che non ebbi occasione di occuparmi del primo album, “Anthem of the Peaceful Army”, a mio avviso acerbo nella sua etimologia zeppeliniana. Ma ho salutato con piacere la crescita esibita nel successore e non sto a ripetermi sulle motivazioni per cui non ritengo assolta da “saccheggi”, neanche quella che si può legittimamente giudicare – ma non è certezza assoluta – la più grande rock band della storia, proprio Led Zeppelin.
Dunque un test decisivo è il terzo “Starcatcher”, uscito verso fine luglio su etichetta Lava/Republic e affidato alle cure del produttore Dave Cobb, insignito di Grammy (ormai senza quel premio sei un perdente, e pazienza…) ma non certo per meritocrazia hard rock. Comunque il “titolato” ha accolto i suoi protetti nei rinomati studi di RCA di Nashville, dove due stiliste della stessa città si sono affaccendate nel disegnare nuovi costumi ai quattro ragazzi del Michigan, accentuandone l’immagine androgina. Nulla di male in ciò, ve lo dice uno che in altri tempi (certamente meno compiacenti) girava con gli LP dei New York Dolls sottobraccio, peccato che la foggia dei manufatti esibiti con accessori di gioielleria sia tutt’altro che irrinunciabile. Probabilmente vorrebbero rappresentare il carattere “mitologico” del rock dei Greta Van Fleet e quel concetto cosmico del titolo “Starcatcher”, che gioca sull’eterno fascino delle origini del mondo e dell’umanità, dell’ignoto e del futuro, accendendo la fantasia di Josh Kiszka, voce del quartetto. Un gusto “astrale” e dai richiami psichedelici, che legittimamente i tre fratelli musicisti Josh, Jake e Sam – completa i ranghi il batterista Daniel Wagner – hanno ereditato dai genitori hippy confinati in un piccolo comune del Michigan, Frankenmuth (fino al loro avvento sconosciuto sulle mappe del rock) e condensato nella loro musica.
Il brano d’apertura, “Fate Of The Faithful”, non minimizza certo la polemica sulla dipendenza dai Led Zeppelin, con quel mood esoterico perseguito dalle tastiere nel solco di “No Quarter”. La voce di Josh è acrobatica, seppur particolare e a tratti stridente; non è destinata ad unanimi consensi, ma conviene ricordare che persino il primo Geddy Lee o l’incompreso fuoriclasse dei Pavlov’s Dog, David Surkamp, subirono disinvolte critiche.
Un alone di misticismo pervade comunque la musica dei GVF, fra accenti psych e pomp-rock, che non smentiscono la scuola Zeppelin, ma ne elaborano la lezione in termini sofisticati e per niente grossolani.
“Waited All Your Life” è una ballata ben arrangiata ed anche in questo caso sono innegabili vigore e sensibilità che emergono dall’interpretazione vocale. Per contrasto, “The Falling Sky” è un hard rock ispido e blueseggiante, e la voce sfoggia la sua timbrica più esacerbata; piaccia o meno, è il marchio di fabbrica dei GVF come succede a tutti i front-man di personalità; una viscerale armonica completa organicamente lo stile retrò del pezzo.
In “Sacred The Threat” è vistosa l’impronta dei maestri inglesi nel disegno ritmico della batteria e nei fraseggi di chitarra, ma il refrain vocale la rende davvero epica, e la composizione raggiunge i 5 minuti e mezzo di durata attraverso spunti spettacolari come l’afflato sinfonico del mellotron (o qualcosa che suona come tale…) ed il tocco limpido dell’arpa in chiusura.
Invece “Runway Blues” è un rock’n’roll sparato e succinto, a mio avviso un omaggio all’attitudine proto-punk dell’eroica scena di Detroit 1969. Certo, non significherà nulla per chi ha trascurato MC 5 e Stooges.
“The Indigo Streak”, è il singolo più accattivante, non a caso apripista dell’album nel corso dell’ultimo tour; è giocato su soluzioni nient’affatto scontate, specie i controcori d’effetto realmente ipnotico, come succedeva per i leggendari Fleetwood Mac di “The Chain”, ma con una struttura sonica che evoca spunti prog degli Styx.
“Frozen Light” è hard rock dall’imponente riff; si riallaccia ad una tradizione Seventies americana che non significa solo “grossi nomi”, ma anche vascelli andati alla deriva (Granicus, Centaurus…) in litorali dimenticati dai più; l’assolo di brother Jake Kiszka è letteralmente arroventato. Prelude ad un’altra costruzione musicale di scala epica, “The Archer”, dalle potenti divagazioni strumentali elettroacustiche che non disdegnano richiami al rock psichedelico.
Se condizionati dalla discussa dipendenza, “Meeting The Master” suggerirebbe di andare a ritroso verso “Going To California”, invece l’ispirazione dichiarata è “Can’t Find My Way Home”, il classico dei Blind Faith che molti di noi hanno amato anche nella versione 1990 degli House Of Lords; poi, un emozionante crescendo della solista che rilancia a suo modo il concetto di power ballad.
Infine “Farewell For Now”: ancora un clima onirico e meditativo, che però non disdegna il taglio heavy rock.
In conclusione, “Starcatcher” non è una stella abbagliante, ma avanza nel processo di maturazione del gruppo e nessuno dei dieci capitoli inclusi può esser tacciato di mediocrità. E’ davvero una colpa tanto insanabile esser influenzati dal gruppo non a caso valutato fra i capisaldi storici del rock? E poi il capo d’accusa nei confronti dei Greta Van Fleet (altrimenti detto “plagio”) non vale per i molti discepoli dei Beatles nell’esponenziale fenomeno brit-pop anni ’90? Oppure per le innumerevoli copie stereotipate degli AC/DC? Infine, e tocco un argomento che mi è stato a cuore, perché abbiamo accolto a braccia aperte l’ispirazione – non sempre creativa – al songbook dei Black Sabbath in ottica stoner-doom? Domandatevelo.
Nemmeno vale il paragone dei GVF con i cosiddetti Led Clones degli anni ’80, specie Kingdom Come e gli stessi Whitesnake di “1987” (nell’esplosiva “Still Of The Night”), che accesero l’ira funesta del “tenero” Robert Plant. Costoro adattarono il verbo zeppeliniano (anche nel linguaggio musicale e nella produzione), alla moda hair metal dell’epoca, mentre le radici dei ragazzi del Michigan sono decisamente più retrospettive, traggono linfa vitale dagli umori mutevoli dei Seventies.
Lungi da me qualsiasi pretesa di conversione degli scettici, ma la decadenza ormai stagionata del rock non si risolve affatto nelle crociate contro i Greta Van Fleet. Tanto meno con le genuflessioni di molta stampa d’ampia diffusione al cospetto di altri falsi idoli.
Non mi piacciono i GVF, non tollero la voce stridula del cantante che, purtroppo per lui, non ha niente a che vedere con il grande Plant.
Sento tanti strilli inutili.
Detto questo devo però ammettere come hai scritto che nella tristezza discografica odierna questo album ha una marcia in più.
Si tenta di andare in una dimensione già trattata ma dimenticata da tempo e sicuramente meno stereotipata.
Fosse uscito negli anni settanta sarebbe passato inosservato vista la ricchezza e l’ inventiva di quegli anni.
Oggi è un disco top!
Non so se disperarmi o rassegnarmi.
Ma faccio come consigli tu, continuo a sentirlo e mi adatto!!!😔😔😔
Ciao Francesco, voglio precisare: ho consigliato di ascoltare il nuovo GVF per le ragioni che ho spiegato, ma se non piace, non è il caso di essere masochisti ed insistere. L’aspetto che mi premeva sottolineare è che considero molto scorretto fare dei GVF un capro espiatorio della crisi attuale del rock, perché il loro lavoro, piaccia o meno, è di qualità. Qui si aprirebbe una lunga parentesi su chi ciancia a vanvera, e magari ha ascoltato poco o nulla di loro, o sul “mistero” di formazioni inferiori a quella citata, eppure dipinte come salvezza del rock. Ma non è il caso. Grazie della chiara opinione.
Buongiorno Beppe.
Voglio premettere che purtroppo non ho ascoltato nessuna delle nuove uscite relative alle band che citi nel cappello introduttivo, se non qualcosa di sfuggita.
Me ne dispiace, ma mi trovo sempre più ad investire in recuperi di dischi vecchi, più o meno noti, che non ho, e che mi danno molta più soddisfazione delle nuove uscite, anche quando si tratta di ensemble storici come quelli da te evocati.
I nuovi dischi, troppo spesso poveri di contenuti e magari registrati in fretta e male, servono solo come scusa per i tour. E chi come me trova ancora fondamentale il prodotto fisico, deve necessariamente fare scelte orientate al proprio gusto e alle proprie inclinazioni.
Trovo tristemente indicativo che il nuovo disco di Alice Cooper sia stato messo in ombra dall’ennesima, ridicola polemica di stampo gender che ha interessato lo stesso Alice; si è parlato più di questo che del disco nuovo, è tutto ciò rappresenta bene il termometro dei tempi calamitosi che stiamo attraversando.
Per quanto riguarda i GVF, ho ascoltato il singolo, e analogamente alle precedenti uscite, non mi ha entusiasmato. Quindi onestamente non sono in grado di esprimermi in maniera compiuta, ma certamente quella voce così invadente non può trovare trovare un approvazione plebiscitaria, al di là delle assonanze fin troppo forzate con Robert Plant, anche a livello di atteggiamenti on stage. Il quale Robert Plant aveva anche un phisique du role che gli consentiva un certo approccio al palco…
Indubbiamente la band sa suonare, e questo è un punto di indiscusso pregio.
Questo aspetto avrò la possibilità di verificarlo direttamente, poiché mi è stato regalato un biglietto per la loro esibizione del 30 ottobre qui a Bologna, e in quell’occasione sperò sinceramente di rivedere il mio giudizio.
Mi scuso quindi con te Beppe, per un commento che è essenzialmente monco, in quanto mi manca l’ascolto del materiale di cui parli.
Concludo con una nota off topic, che, specifico, è priva di qualsivoglia polemica, ma anzi spero invogli magari ad un nuovo pezzo sul blog.
Vedo che nei commenti precedenti si parla dei canadesi Crown Lands. Band che ho ascoltato con attenzione, in quanto segnalati da un amico attento ed esperto. Da grande fan dei Rush da una parte ho apprezzato la perizia filologica con cui il duo ripropone le atmosfere dei loro più noti connazionali, ma dall’altra parte mi pare anche un enorme spreco di talento. Questi Crown Lands sono bravissimi, tecnicamente eccezionali, anche in ragione della giovane età; ma sono anche una cover band sotto falso nome, piacevoli da ascoltare, ma l’originale è un’altra cosa.
Ciao Lorenzo, non è affatto un commento monco il tuo, anzi è accurato sulle ragioni (spesso condivisibili) che ti inducono ad esser perplesso su tante nuove uscite. Giustamente sospendi il giudizio sui Greta VF perché non li hai compiutamente ascoltati. Purtroppo, anch’io alludo al fatto che molte nuove uscite non sono affatto irrinunciabili. Sui Crown Lands è possibile un futuro approfondimento. Sicuramente sono molto capaci e promettenti, ma evidenziano a loro volta chiare fonti d’ispirazione. Si può mai distaccarsi dall’aureo passato del rock? E’ questa dipendenza la causa del suo declino? Arduo e soprattutto spiacevole sentenziarlo. Molte grazie.
Ciao Beppe! Tantissime le uscite discografiche di un estate calda che sto ancora digerendo incluso il nuovo GVF che hai come sempre recensito minuziosamente. Faccio parte della frangia che inizialmente li ha bollati come zeppelin cloni e così li avevo archiviati e dimenticati, salvo riconsiderarli fortemente con il secondo disco dove gli echi settantiani venivano quantomeno differenziati (Pavlov’s dog su tutti) denotando un tentativo di percorso più personale. Li ho quindi ascoltati molto con il secondo disco. Devo passare ora a questo nuovo di cui aimè ho sentito solo il singolo (mea culpa). Per gli amanti del suono vintage mi permetto di consigliare il duo canadese dei Crown Lands (molto Rush/Pomp nella loro proposta e non lontani dai GVF se vogliamo) davvero meritevoli. Un salutone. L.
Ciao Luca Tex, piacere di risentirti. Davvero opportuna la tua citazione dei canadesi Crown Lands, che trovo molto meritevoli di ascolto e fra l’altro hanno fatto un’ottima figura, a quanto mi risulta, come support-band in tour proprio con i Greta VF. Il brano “Citadel”, presentato su YouTube con un’immagine stile Starcastle, rincorre maliose sonorità in stile pomp-rock americano anni ’70. Grazie!
Ciao Beppe, giusto un breve intervento per mandarti un saluto, prima di tutto, e per aggiungere alla carrellata di titoli “estivi” gli Alcatrazz con il nuovo “Take no prisoners”. E ora vediamo cosa combineranno Heavy Load e Cirith Ungol… 😉
Ciao Massimo, ricambio il saluto e ringrazo; l’elenco di dischi era solo un’introduzione generalista pertinente all’argomento principale, quindi non un dossier completo; penso con un po’ di nostalgia, com’è tipico di chi ha vissuto quegli anni, ai primi Cirith Ungol e Heavy Load.
Ciao Beppe. Bella la sintesi iniziale che hai fatto dei nomi rock/hard/metal più accreditati che ci hanno allietato l’estate. Fra i nomi da te citati, ho trovato una bella sferzata di energia “mainstream” (Foo Fighters, Green Day) negli insospettabili melodic rockers Eclipse, che ovviamente trattano poi la materia a modo loro. Riguardo ai Greta Van Fleet, ammetto di non averli seguiti più di tanto, ma la tua “benevolenza” nei loro confronti mi ha messo la classica pulce nell’orecchio di chi si è perso qualcosa, magari “traviato” da certe critiche preconcette che accompagnano sempre i gruppi che si ispirano (più o meno palesemente) ai Led Zeppelin. È una retorica fastidiosamente snob che mi sono già dovuto sorbire negli 80’s quando uscirono i Kingdom Come oppure quando Coverdale impresse la svolta di Still Of The Night. Mi riferisco solo a quella canzone perché francamente definire tutto “1987” una copia degli Zep è una scemenza talmente esagerata che non ha nemmeno bisogno di essere confutata. Mi dispiace che la stragrande maggioranza dei fans LZ abbia la puzza sotto il naso, oggi come allora, esattamente come Sir Robert Plant. E mi stupisce che il nipotino Jason, quando uscì coi suoi Bonham, nonostante l’abbondanza di materiale in stile Zep sui suoi album, non ricevette alcuna critica. Polemiche a parte, ascolterò con molta attenzione il nuovo GVF, sbattendomene di riferimenti e citazioni.
Grazie.
Ciao Alessandro, il riepilogo delle uscite estive serviva un po’a fare il punto della situazione e per introdurre un album, “Starcatcher”, che sicuramente è fra i più significativi della stagione. Poi sappiamo che storicamente ci sono artisti/gruppi, anche importantissimi, che sono bersaglio della critica o di critiche, altri che ne sono immuni. I motivi talvolta sfuggono ad una logica trasparente, ma tant’e’. Per quanti riguarda gli Eclipse, hai certamente ragione sul fatto che singoli del nuovo album come “Got It!” o “The Hardest Part…” riflettono quell’inclinazione verso i nomi di vasta popolarità che hai citato. Ci sta che questi ultimi esercitino la loro influenza, poi bisogna valutare i risultati. Gli Eclipse sono carichi, ma preferisco il disco precedente. Grazie della partecipazione.
Ciao Beppe,
Non avrei commentato per conclamata incompetenza sui GVF: non riesco proprio a metabolizzare la voce e questo mi inibisce il resto.
Però dopo due commenti che parlano dei “Crown Lands” non posso esimermi, scusandomi se sposto nuovamente il baricentro del discorso.
A livello di “volontariato sporadico” mi capita di collaborare con una web radio/blog in cui opera un amico: ad inizio giugno ho scritto una recensione sui Crown Lands (propostimi dalla a.i. di Spotify) e ad oggi, verificando sul web, penso sia ancora l’unica al momento scritta in italiano (almeno da mie ricerche…).
Questo non per porre l’attenzione sulla recensione che a livello editoriale è puro “cialtronismo dilettantistico” ma per dire che questa scarsissima attenzione, a mio avviso, è un vero peccato.
Il lavoro è sicuramente molto derivativo ma secondo me di ottimo livello, cosa non così scontata ai giorni nostri.
Mi scuso nuovamente per l’ “off topic” ma…non c’è due senza tre…
Grazie,
Un saluto
Ciao Fulvio, non c’è nulla di cui scusarsi e l’argomento di discussione è interessante, tanto più che questi Crown Lands riscuotono (meritatamente) consensi. Al momento devo ancora recuperare loro materiale, so per certo che non verranno distribuiti in Italia anche se hanno suscitato importanti attenzioni in casa discografica. Come ho scritto, la loro “Citadel” mi ha colpito vivamente. Prendo nota e ringrazio del contributo.
Buongiorno a tutti,
Beppe ha scritto come sempre un pezzo giusto ed equilibrato: i GVF sono migliorati;
(per me) finalmente sono influenzati e non derivati dai LZ.
Le uscite rilevanti quest’anno son ancora più scarse degli ultimi lustri pure nei generi vicini (metal heavy e glam, rock prog e blues). Negli ultimi anni il Metal epico va meglio, ma 4 gruppi d’uno stile storicamente più underground non reggono un intero genere.
I Crown lands: anche loro con Universal, produzioni curate da nomi possenti, strumentazione costosa, in crescita musicale, tour con i GVF e stile accostabile (Hard sperimentale).
Ipotesi: un settore della grande etichetta prova a sondare il terreno per un ritorno di sonorità aborrite dai sofismi degli ultimi 30 anni. Mossa commerciale per capitalizzare una nicchia d’orfani, elemento d’una strategia complessiva più ampia, reale impulso per riprendere dove ci si è fermati (nel 1993 come dicono i Crazy lixx), combinazioni di queste o altro?
Buongiorno Luca, grazie del “giusto ed equilibrato”, era l’obiettivo di partenza risultare tale. E meno male che ti schieri dalla parte della “maturazione” di questi ragazzi spesso bistrattati. Per quanto riguarda i Crown Lands, ho recepito che dall’America non è giunto l’input di promuoverli dalle nostre parti. Peccato. Sulle strategie del business è arduo entrare in merito. La storia del rock, heavy e non solo, ha avuto i suoi “corsi e ricorsi”. Tornerà in auge? Speriamo ma è arduo scommetterci.