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ALBUM & CDC'era una volta HARD & HEAVY

HEAVY METAL 2024: I vecchi leoni ruggiscono ancora?

Di 9 Aprile 2024Aprile 10th, 202420 Commenti

Sfido chiunque abbia varcato la soglia di una certa età a negare tuffi nostalgici nel passato, o meglio, viaggi retrospettivi nella memoria e questo avviene regolarmente per gli appassionati di musica rock; li trovo del tutto legittimi, non solo in quanto rievocazione di “rampanti” decenni trascorsi; allora le proposte musicali erano davvero di livello superiore, non semplicemente perché noi eravamo più giovani e freschi. Certo, ci sarà sempre qualche saccente pronto a chiarirci che chi non comprende ed apprezza le tendenze attuali non sa cogliere le istanze della modernità, ma è difficile distoglierci da certe convinzioni.
Siccome i lettori che ci seguono sul blog non fanno parte della Generazione Z, e molti ci commentano rammentando quegli anni (i migliori anni?), non è un segreto che io mi sia affacciato nel mondo della stampa musicale con un preciso scopo: fare del mio meglio per diffondere un genere dalla reputazione negativa, se non del tutto ignorato nella penisola, l’hard’n’heavy. In particolare, l’Heavy Metal era considerato un “bad name” dalla critica intellettuale, così ne feci il titolo di un corposo articolo nel lontano giugno 1979. Fra le schede raccolte in quella rassegna, una era dedicata proprio ai Judas Priest, di cui mi occuperò anche in questa sede. Nello stesso anno sarebbe esplosa la NWOBHM (New Wave Of British Heavy Metal) ed io mi accanivo a presentare sulla stessa rivista, prettamente punk/new wave, tutti i nomi emergenti, a costo di numerosi ordini postali al negozio inglese specializzato Bullet, che proponeva, oltre agli LP, ogni singolo underground di quella scena.
Il resto è storia…Da tempo l’hard rock e l’heavy metal degli anni ’70/’80 hanno conquistato una dignità che ha collocato i loro esponenti più in vista nelle sfere del “rock classico” di un certo lignaggio. Vantando un seguito di fedelissimi, evidente in alcuni oceanici festival europei, il metal resta indiscutibilmente vitale e di estrema attualità, grazie anche ai numerosi sottogeneri che ne sono derivati dopo l’esplosione negli Eighties. Ovviamente persistono schiere di detrattori che si mantengono a debita distanza da esibizioni di “forza bruta” a tutto volume.
Siccome ormai proliferano a livello di stampa ed internet i divulgatori di musica heavy che si gettano a capofitto su ogni uscita importante in quest’ambito, le mie motivazioni per rimestare il tema non erano altissime. Ma visto che nel primo trimestre 2024 si è rilanciata, quasi contemporaneamente, una triade di capostipiti del classico heavy metal, perché non cogliere l’occasione per raggrupparli e fare il punto su questi veterani, che si sono dimostrati tanto resistenti da superare (in tutti i casi esposti) gravi problematiche di salute pur di tornare ancora in sella?
Quella che segue è l’opinione di chi “c’era” ed ha acquistato i loro dischi prima dei terremoti metallici di massima magnitudo, quando, almeno dalle nostre parti, erano pressoché sconosciuti e che oggi riconosce, semmai ce ne fosse bisogno, che ancora ci sono ragioni per aver fede in loro.

JUDAS PRIEST: ”Invincible Shield”

Al traguardo del diciannovesimo album di studio, i Judas Priest festeggiano idealmente i cinquant’anni della loro produzione discografica, iniziata con il non-strettamente metallico “Rocka Rolla” nel 1974. Si proclamano protetti da uno “scudo invincibile”, che è la loro interpretazione del motto l’unione fa la forza, ovvero la coesione della comunità heavy metal che a detta di Rob Halford “nessuno può dividere”, spingendo il gruppo di Birmingham verso nuovi orizzonti, a dispetto delle drammatiche circostanze avvenute negli ultimi anni.
Nel 2018, mentre il fiammante “Firepower” irrompeva nelle prime cinque posizioni in classifica, sia in patria che negli USA, veniva diagnosticato il morbo di Parkinson al chitarrista e fondatore Glen Tipton, rimpiazzato dal vivo dall’ex Sabbat (nonché affermato produttore) Andy Sneap. Due anni dopo lo stesso Halford si scopriva affetto da un cancro alla prostata, mentre nel 2021, dieci anni dopo aver sostituito KK Downing, il suo sosia e chitarrista Richie Faulkner accusava un malore durante un festival, che lo costringeva ad un intervento chirurgico d’urgenza al cuore!
Insomma l’”Invincible Shield” ha funzionato, e così battezza il nuovo album di studio (Sony), pubblicato nella prima settimana di marzo. I musicisti appaiono in uno stato di grazia difficilmente ipotizzabile per veterani di lungo corso, compresa la collaudatissima sezione ritmica Ian Hill/Scott Travis, e si confermano – finalità da sempre dichiarata – baluardo per eccellenza dell’heavy metal. Probabilmente paga la norma del non inflazionare il mercato di dischi con il ritmo degli anni ’70/’80, che certamente induceva a passi falsi, ma l’energia dei Priest è inarrestabile e la qualità delle composizioni, senz’altro più meditate, ne trae giovamento. Alla stesura dei brani ha partecipato lo stesso Glen Tipton, che molto raramente appare dal vivo ma che a detta dei compagni è fondamentale nel preservare l’identità del marchio di fabbrica british steel alias Judas Priest.
Certo la dote primaria è la voce di Halford; il gruppo potrebbe avvalersi di “replicanti” negli altri ruoli, ma il cantante è insostituibile (Ripper Owens si consoli nei KK’s Priest), e la sua performance in “Invincible Shield” ha un quid di soprannaturale, da autentico Metal God; come sia realizzabile per un 72enne esula dai confini della razionalità.
Naturalmente non aspettatevi nulla di rivoluzionario dai brani, ma sia chiaro, le istanze rivoluzionarie sono finite da tempo nel rock (non solo heavy) e le “invenzioni moderne” fanno spesso vomitare. Vi troverete invece energia, feeling e carisma degni di questi protagonisti assoluti dell’arcobaleno metallico.
“Panic Attack” ne dà subito la misura, con un’intro che riecheggia “The Hellion” prima di “Electric Eye”: folate di synth si accoppiano a scintillanti chitarre per innescare una scorreria metallica a folle andatura, con i registri vocali di Halford che si dimostrano immuni all’usura del tempo.
Echi del passato? Ebbene, ce ne fossero come “The Serpent And The King”, che suona come un tributo alla grande era di “Stained Class”: un assalto in stile “Exciter” che nel chorus rinfocola l’anima dark del periodo, ivi comprese distorsioni chitarristiche da brivido. La title-track riesce nella non banale impresa di risultare anthemica nonostante il dirompente ritmo impresso dalla doppia cassa del super specialista Scott Travis. La dinamica si stempera nel roccioso mid-tempo di “Devil In Disguise”; in un passaggio vocale Halford assomiglia sorprendentemente a Ozzy Osbourne, ma più in generale il brano riecheggia la metà anni ’80, quando anche i capostipiti inglesi stringevano alleanza con il metal melodico americano.

In tale ottica ancor più riuscita “Gates Of Hell”, che dimostra come il metal possa esibire refrain e sonorità avvincenti ma accessibili, che poi è la formula determinante per le attuali fortune degli eredi Ghost. Un altro classico moderno dei Judas è “Crown Of Thorns”, che dopo un’eroica apertura strumentale affidata alle chitarre si trasforma in una semi-ballata meravigliosamente caratterizzata dalla melodia intonata da Halford.
Nessuna critica? Oggettivamente, dopo quest’impareggiabile sequenza iniziale, il livello emozionale cala un po’ di tono, anche se l’aggressione è sempre impetuosa, basti ascoltare “As God Is My Witness”; lo stesso singolo “Trial By Fire”, con un’introduzione che ricorda le ombre doomy di “Victim Of Changes”, è tipico ma senza spunti memorabili. Però l’album finisce in gloria con l’epica “Giants In The Sky”, che lascia immaginare l’incedere di titanici robot futuristici, ed affascina con un bridge di chitarra classica vagamente anni ’70. Ai collezionisti consiglio certamente l’edizione con tre bonus tutt’altro che trascurabili, dal riff alla Deep Purple, con virtuosismi di chitarra solista in “Fight Of Your Life”, alla melodia d’atmosfera di “The Lodger”. Per chi non lo sapesse è una canzone scritta da Bob Halligan Jr., che ha accumulato successi milionari componendo per Cher, Michael Bolton, Kiss , Joan Jett, Blue Oyster Cult, ma è anche l’autore di “(Take These) Chains” e “Some Heads Are Gonna Roll”, ovvero, quando i Judas andarono alla conquista dell’America negli Eighties.
In conclusione, se pensavamo che Judas Priest avessero scritto il loro testamento a lettere di fuoco con “Firepower”, “Invincible Shield” ci garantisce che si poteva andar valorosamente oltre.

BRUCE DICKINSON: “The Mandrake Project”

La figura di Dickinson mi induce a rinfocolare la nostalgia dei tempi andati, quando da entusiasta della prima ora NWOBHM, fui colpito dalle sue prove d’eccellenza nei Samson (cito “Vice Versa” e “Riding With The Angels” fra le più memorabili) che deponevano a favore di un luminoso avvenire di quel cantante che si faceva chiamare Bruce Bruce.
Non meravigliava dunque che fosse chiamato alla corte degli Iron Maiden, destinati a regnare fino ai giorni nostri come più famosa heavy metal band britannica, sottraendo lo scettro di carismatico front-man a Paul DiAnno, del quale all’epoca, tutti noi appassionati eravamo invaghiti.
E l’avvicendamento dava immediatamente i suoi frutti, perché il terzo album “The Number Of The Beast”, del marzo ’82, non solo segnò l’esordio di Bruce alla voce, ma fu anche il primo di Steve Harris e compagnia belligerante a salire al numero uno della classifica inglese.
Precedentemente, avevo assistito alla performance di “Iron Bruce” (non propriamente ineccepibile) al Teatro Tenda di S. Siro, e nel corso di un incontro-stampa sul tour bus dei Maiden, gli avevo chiesto con scarsa diplomazia le ragioni della sua scelta, in seguito all’eccellente “Shock Tactics” dei Samson: “Avevamo approntato gran parte del materiale per il prossimo album, ma era ormai piuttosto distante dall’heavy rock, con un orientamento più tipicamente bluesistico, mentre Iron Maiden rappresentavano l’ideale per me. Così non mi sono lasciato sfuggire l’occasione, e ritengo si sia trattato di una scelta positiva, sia per quanto mi riguarda, sia per la mia nuova band!”. Parole profetiche (tratte dall’intervista pubblicata su Rockerilla n.19-Dicembre 1981), pronunciate da un personaggio che non ha mai avuto timore di affrontare nuove sfide, come dimostra la sua decisione di lasciare i Maiden, costantemente all’apogeo del successo (1993), per poi convincersi che era giunto il momento di rientrare alla base (1999). E fa piacere che Bruce abbia ribadito gli stessi concetti in una recentissima intervista ad una rivista di ampia diffusione.
Giungendo all’attualità, perché non è certo il caso di riepilogare una storia investigata da qualsiasi organo d’informazione, Dickinson ha pubblicato all’inizio di marzo il nuovo album “The Mandrake Project” (BMG), il settimo di una carriera individuale iniziata nella prima era-Maiden con “Tattoed Millionaire”. Il precedente “Tyranny Of Souls” risale addirittura al 2005, anche perché lui stesso, destino che lo accomuna ad una moltitudine di veterani del rock, ha dovuto battersi contro un male ignobile, un cancro alla gola; ne è uscito vincitore ed alla luce di “The Mandrake Project”, senza alcun danno alla sua rinomata estensione vocale.
Il titolo non ha nulla che fare con il mago protagonista di un fumetto celebre ai tempi dei boomers, ma una collezione di fumetti accompagna davvero l’uscita del disco, a dimostrazione della poliedricità di un artista che si è già cimentato come scrittore, schermidore di talento e pilota d’aereo (e probabilmente dimentico dell’altro…). Il “Progetto Mandrake”, a detta dell’autore, non è un album-concept ma è focalizzato sull’esperimento di due sinistri personaggi, Lazarus e Necropolis, che vogliono resuscitare defunti dai reami della morte…Il cantante è affiancato dal suo collaboratore storico, il chitarrista e produttore americano Roy Z, ed il brano d’apertura, “Afterglow Of Ragnarok” dimostra che la gestazione decennale dell’album non l’ha certo depotenziato, tutt’altro. Il titolo non ha nulla a che fare con l’apocalisse della mitologia vichinga, ma il riff epico che s’impone dopo i tenebrosi effetti iniziali è degno del Tony Iommi di “Eternal Idol”, mentre nell’appassionante refrain, Bruce canta come il Geoff Tate della grande epoca Queensryche, anni ’80.

“Many Doors To Hell” si ricollega invece ad una delle dichiarate fonti d’ispirazione di Bruce, i Deep Purple Mk II, con quel corposo riff frutto della combinazione fra la chitarra di Roy e l’organo Hammond dell’italiano Maestro Mistheria (artefice del Vivaldi Metal Project). Le tastiere caratterizzano anche l’atmosfera da incubo di “Rain On The Graves”, insieme alla voce tenebrosamente teatrale di Bruce.
Sul piano dell’arrangiamento, ben più diversificata è “Resurrection Men”, dal mood esplicitamente morriconiano in apertura, ulteriori citazioni di Nero Sabba e con Bruce sempre in grande spolvero. “Fingers In The Wound” è inaugurata dal grandioso clima sinfonico allestito da Mystheria, Dickinson in stile risolutamente eroico ed in generale (per me un gran pregio) il brano suona come un tributo ai classici Magnum.
“Eternity Has Failed” è una rielaborazione dell’Ironiana “If Eternity Should Fail” ed anche in questo caso si segnala il gusto creativo dell’arrangiamento, che contempla un flauto ispirato al folklore delle Ande; ma niente paura, il clima poi si riaccende spronato da una chitarra fiammeggiante. Dopo il barbaro riff di “Mistress” ed il suo finale quasi space-rock à la Hawkwind, Bruce abbandona i territori più heavy e si concede alla melodia: credetemi, è un successo!
In “Face In The Mirror”, il cantante illustra con l’accompagnamento del piano una ballata che conquista, e merita di essere ricordata fra le canzoni dell’anno: impossibile non aver voglia di riascoltarla! “Shadow Of The Gods” sfoggia una melodia assolutamente elegante ed un crescendo altrettanto suggestivo e potente. C’è un’enfasi prog-rock sviluppata nell’estesa e conclusiva “Sonata Immortal Beloved” (non dimentichiamo ad esempio la passione di Bruce per i gotici Van Der Graaf) caratterizzata anche da una drammatica parte recitativa del Nostro e da un finale di chitarra alla Gilmour! Non c’è altro da aggiungere, se non che “Mandrake” è l’album più sorprendente della trilogia presentata.

SAXON: “Hell, Fire And Damnation”

(Foto: Ned Wakeman)

Ricordo quando ai primordi della NWOBHM, descrissi il sound dei Saxon come un fuoco-di-fila di riffs “allineati come le truppe dell’Armata Rossa sovietica”. Semplicemente immaginavo parate militari, adesso succede ben di peggio ed il paragone è ormai anacronistico; invece i “guerrieri sassoni”, orgoglio dell’heavy metal britannico, insistono senza tregua nella formula musicale che li ha resi celebri nei decenni.
Poco importa se nella battaglia ideale di difensori di quella fede hanno rischiato i loro “caduti”: l’aitante Biff Byford ha sofferto scompensi cardiaci, mentre il batterista Nigel Glockler (apprezzato anche nel supergruppo Syx By Six, con Robert Berry dei 3 e Ian Crichton dei Saga) ha rischiato grosso per un aneurisma cerebrale; quello che può sembrare un “bollettino di guerra” si completava con la defezione dello storico chitarrista Paul Quinn, insofferente al ritmo dei concerti dal vivo. Un duro colpo, se si considera che il ventiquattresimo album di studio “Hell, Fire And Damnation”, era programmato per novembre 2024, ma l’irrinunciabile invito dei Judas Priest ad affiancarli in tour a partire da marzo (unica data italiana il 6 aprile a Milano) ha costretto gli irriducibili Saxon a forzare le tappe. Così il nuovo album è uscito il 19 gennaio – su etichetta Silver Lining – ed il prestigioso sostituto di Quinn, Brian Tatler dei Diamond Head, a loro volta emeriti eroi NWOBHM, è riuscito a partecipare al processo compositivo, caratterizzando con un suo riconoscibile riff il brano che intitola l’opera (lo evidenzia il videoclip ufficiale).
A differenza di altre istituzioni metalliche, che hanno centellinato i loro lavori discografici con l’avanzare della maturità, il glorioso quintetto di Barnsley ha mantenuto un’incalzante cadenza di produzione anche nel Terzo Millennio.
Passando in rassegna “Hell, Fire And Damnation”, la breve intro “The Prophecy” esordisce con effetti horror che anticipano la narrazione di Brian Blessed, attore inglese noto per la sua partecipazione al film “Flash Gordon” e per la voce altisonante, che infatti ricorda l’enfasi teatrale dell’indimenticabile Orson Welles con i primi Manowar. Sfocia nella title-track che è un serrato, rimbombante saggio di classico heavy metal, con Biff perfettamente a suo agio nel canto declamatorio.
Più melodica invece “Madame Guillotine”: al di là dell’arioso assolo di chitarra, esibisce un refrain che dimostra la riconosciuta influenza dei Saxon sui campioni dell’hard rock deluxe, Dokken. “Fire And Steel”, un altro titolo che più cliché – nei canoni HM – non si può, si getta in una corsa speed-metal per risolversi in un variegato show di chitarre (c’è sempre Doug Scarratt a gestire il passaggio di consegne fra Quinn e Tatler) che più in generale è fra i punti di forza del disco.

Basta ascoltare lo “scambio” di assoli lancinanti nella successiva “There’s Something In Roswell”; a proposito della fascinazione di Biff per i dischi volanti, e al di là del brusio alieno in apertura, mi sarei aspettato qualcosa di più fantasioso da tale ispirazione. Un episodio di tutt’altra natura è “Kubla Khan And The Merchant Of Venice”, che si rifà ad un’opera famosa tanti anni fa, “Il Milione”, resoconto dei viaggi in Estremo Oriente del veneziano Marco Polo nel Medioevo; ancora un riff insistente ed un accattivante refrain fanno da colonna sonora al racconto. Avrei gradito una scrittura più epica per “1066”, rievocazione della storica battaglia di Hastings fra Sassoni e Normanni, piuttosto monocorde se non fosse per il bridge melodico e gli assoli di chitarra. “Pirate Of The Airwaves” è invece un omaggio di Biff alle radio pirata (Luxembourg e Caroline) che diffusero la nuova cultura pop giovanile negli anni ’60, ma non aspettatevi musica che possa alludere a quell’epoca, Saxon permangono al 100% d’inflessibile acciaio.
Infine “Witches Of Salem” (con le urla delle streghe al rogo…) e l’assalto finale di “Super Charger”: il gruppo resta “nei secoli” fedele alla sua epoca aurea, insensibile a variazioni stilistiche; se questa è per molti accaniti fans la sua forza, per gli altri è inevitabilmente un limite. “Hell, Fire And Damnation” è un album di inossidabile impatto (la produzione è curata da Andy Sneap, lo stesso dei Judas Priest) ma prevedibile; le composizioni, ça va sans dire, non hanno il carisma – cito una triade di classici esemplari – di “Heavy Metal Thunder”, “747 (Strangers In The Night)” e “Strong Arm Of The Law”, ma la coerenza nella propria espressione musicale non si discute. Scegliete voi da che parte stare.

20 Commenti

  • Maurizio ha detto:

    Presi entrambi. Bene i Judas ma dopo il rischio preso con Nostradamus sono andati sul sicuro. Non mi strappo i capelli perché con Sad Wings of Destiny British Steel e Painkiller in catalogo (e ne tralascio altri belli spessi) è dura fare di meglio. Bruce da solista continua a fare musica di livello se supportato da una band notevole come anche in questo caso. Soldi ben spesi per entrambi .

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Maurizio, da parte mia non pretendo affatto che i Judas Priest superino i classici del passato (nelle mie preferenze non dimentico mai “Stained Class”) ma che siano all’altezza della loro meritata fama di Metal Gods. Legittimo anche per Dickinson il tuo apprezzamento. Grazie

  • Stefano ha detto:

    Ciao Beppe, il disco dei Judas non riesco a toglierlo dal mio lettore: cresce ascolto dopo ascolto e colgo sempre sfaccettature differenti che me lo fanno apprezzare ancora di più. Incredibili davvero!
    I Saxon che dire…sono sempre loro, anche se Hell, Fire and Damnation mi sembra un pò sotto Carpe Diem, riconosco che non è facile rimanere su certi livelli e non posso che inchinarmi anche a loro perchè sono inossidabili. Discorso a parte per Bruce, al primo ascolto non mi ha fatti impazzire e non ho trattenuto qualche sbadiglio, poi lentamente è cresciuto: va ascoltato con calma e posso affermare che è davvero un gran bel disco. Occorre prendersi del tempo: ascoltare, riascoltare ed ascoltare ancora. Infine, ultima battuta sul concerto di Milano, Beppe, davvero è stato un evento, ho ancora i brividi e le standing ovation per Saxon e JP sono state tutte meritate. Grazie, Beppe!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Stefano, spesso si finisce per ritenere “scontati” gruppi ed artisti che calcano le scene, pur con successo, da molti anni. È una conseguenza quasi ineluttabile…poi, dando loro l’attenzione che meritano, ci accorgiamo che riescono ancora ad essere avvincenti. Come ho già scritto, a mio avviso, uscite discografiche non troppo ravvicinate aiutano a ritrovare la verve creativa. Grazie a te.

  • Roberto Torasso ha detto:

    Ciao Beppe, aldilà delle valutazioni oggettive e soggettive dei dischi in discussione mi preme ribadire che la differenza tra i gruppi di oggi e quelli di ieri è la mancanza di personalità riconoscibile tra la marea di proposte moderne… nessuno o pochissimi possono permettersi di essere ricordati e riconosciuti come gruppo guida nei vari generi per ovvie motivazioni ,come ad esempio la facilità di promuovere e diffondere la propria musica senza avere un solido background o gavetta live oppure avere una reale cultura musicale che non rimandi alle radici… i nomi in questione si sono fatti le ossa e partiti da situazioni che oggigiorno sono diverse o impensabili e hanno sviluppato uno stile diventando qualcuno di cui si parla ancora dopo 40-50 anni .. dubito che i gruppi di oggi avranno la stessa longevità e considerazione … è altresì vero che l’ heavy metal ha detto tutto quello che aveva da dire e il fuoco che animava British steel,Wheels of steel o Shock tactis è un lontano ricordo e in questi nuovi album c’è tanto mestiere ,ma il carisma dei protagonisti e la freschezza nel rinnovare anche lo stesso riff ce li fa amare ancora una volta di più..e non c’è modernissimo che tenga..

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Roberto, sottolinea pure ciò che tieni ad evidenziare. Sicuramente e’ “ingiocabile” la partita fra i protagonisti dell’heavy metal classico rispetto agli attuali, pur con le differenze dovute ai cambiamenti in corso nello scenario post-2000. Sembra passata un’eternità anche pensando ai mezzi di diffusione; oggi ci si può affermare dal nulla tramite i discussi social…È un processo irreversibile, spiace che le nuove generazioni si siano perse tantissimo! Grazie.

  • Giorgio ha detto:

    Salto sul divano dopo aver attivato i video da te proposti. I Judas erano un vecchio ricordo eppure leggendo la tua recensione e ascoltando le canzoni ho avuto una piacevole sorpresa. Niente di nuovo, vero, ma solidita e una certa armonia hanno rinfrescato un sound che avevo perso troppi anni fa. Bruce lo ricordo solo con i Samson e Maiden, se chiudo gli occhi e ascolto la musica la trovo una proposta interessante. Saxon, ero fermo a Crusader (se non sbaglio titolo), be `piacevole sorpresa. In tutto questo tempo, ottenebrato dalle derivazioni del metal in tutte le sue sfaccettature sia melodiche che rumoristiche, mi ero calato sempre piu alla ricerca di oscure band dei * seventies. Grazie Maestro, mi hai dato una bella sferzata per riassaporare suoni e atteggjamenti che avevo accantonato nei mendri dell ` eta` dell ` amore.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Giorgio, trovo divertente il tuo senso dell’ironia e penso che ogni serio appassionato di musica posso finire nel trip di differenti generi, salvo poi riscoprire il piacere di ascoltare artisti provvisoriamente accantonati, a meno di essere “inflessibili” sulle proprie priorità. È sempre gratificante per chi scrive che certe valutazioni siano condivise dai lettori, quindi ti ringrazio.

  • Fulvio ha detto:

    Ciao Beppe,
    pur considerandomi aperto alle novita e alle contaminazioni mi trovo spesso a chiedermi se le vecchie proposte musicali fossero realmente migliori o se noi fossimo “giovani e freschi” come tu giustamente dici.
    Insomma, è la nuova musica oppure sono io a non funzionare più?
    Poi, quando esce qualcosa degno di nota (che siano nuove proposte o nuovo materiale di vecchie glorie) mi rinfranco un po’: arrugginito forse ma l’istinto è ancora vivo.
    Questa volta è toccato ai Judas: lavoro che mi è piaciuto molto.
    A tratti mi sembra una sorta di giusto “balance” tra gli estremi di “Turbo” e di “Painkiller”, come ad esempio nel brano Panic Attack.
    Saxon valido ma mi è piaciuto meno: questione di gusti personali.
    Devo recuperare Bruce Dickinson che non ho ancora avuto modo di sentire.
    Grazie, come sempre, per l’articolo
    Un saluto

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fulvio, anche tu commenti spesso e mi fa piacere: penso che le valutazioni dei lettori, a maggior ragione se esperti, abbiano sempre la loro importanza ed infatti non discuto le preferenze. Quello che ho scritto lo giudicate senza bisogno che lo confermi! Chi conosce da tempo la musica rock, non deve certo sentirsi arrugginito dagli anni. Grazie a te

  • Giampaolo P. ha detto:

    Caro Beppe Riva non dimenticare i Tygers of Pan Tang che nella settimana santa di passione hanno servito un appetitoso antipasto ai più noti maestri con un setlist molto vicino al prossimo album live in uscita a fine mese. Con tre date per il sud, il centro e il nord Italia (e qualche tutto esaurito) hanno portato il loro originale ruggito che tanto ha influenzato la nwobhm e soprattuto gruppi più giovani e blasonate quindi mi piacerebbe leggere un prossimo commento di quel lavoro giusto per non dimenticare i maniscalchi del metal e continuare a glorificare i maestri.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Giampaolo, come penso tu sappia, sul blog faccio scelte mirate perché, da tempo, non sono più parte di una rivista (che si può occupare dell’intera scena), ma mi piace scriver ancora per chi ha voglia di leggermi. Rispetto i Tygers (di cui a suo tempo mi occupai, al loro esordio ed anche in seguito); ho ascoltato un loro efficace singolo recentemente a Linea Rock dell’amico Marco Garavelli, e mi pare che il loro cantante Jacopo Meille scriva anche su una nota rivista italiana, quindi penso che non manchino d’esposizione tutt’altro. Non mi sembra di “glorificare i maestri”, tant’è che scrivo spessissimo di gruppi da culto. Certo è che come tutti ho la mia scala di valori. Grazie.

  • Lorenzo ha detto:

    Buongiorno Beppe. Posso commentare questo tuo articolo in maniera molto parziale in quanto non sono un fan dei Saxon, pur riconoscendone il valore e l’importanza in prospettiva storica; ma proprio non fanno per me. Per quello che riguarda Dickinson solista, ho apprezzato particolarmente The Chemical Wedding e Accident at Birth (e magari anche Balls to Picasso, in misura minore), ma il resto della sua produzione mi ha sempre lasciato abbastanza indifferente. Per i Priest invece il discorso è diverso: credo sia inutile ribadire l’impatto della loro proposta, chiunque legga questo blog immagino sappia tutto di loro. Sono da sempre loro supporter e ovviamente ho ascoltato l’ultimo disco su nota piattaforma di streaming, prima di procedere ad eventuale acquisto del supporto fisico. Alla fine dell’ascolto non ho ritenuto di procedere, purtroppo trovo IS un disco dignitoso, forse anche ottimo vistE le vicissitudini che hai opportunamente ricordato, sta di fatto che l’ultimo disco dei JP che ho apprezzato è stato Nostradamus, non perchè sia un disco riuscito (in effetti non lo è), ma perchè è un disco coraggioso. Tutto quello che è venuto dopo mi pare una rincorsa verso un novello Painkiller, che ovviamente non può arrivare. Parere personale ovviamente, anche perchè leggendo in rete le varie recensioni (a mio parere spesso fin troppo esaltanti), sono in netta minoranza. Ho apprezzato particolarmente la misura della tua recensione, che mi pare ristabilisca le proporzioni corrette in relazione ad un prodotto buono ma non eccelso. Che poi i Priest rimangano musicalmente immortali, non ci sono dubbi.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, rispetto assolutamente il tuo parere ben motivato, ma posso dirti che anch’io ho ascoltato questi dischi con iniziale diffidenza (non si può pretendere che i grandi nomi siano sempre al top, anzi); ti ringrazio per le “proporzioni corrette” ma ti invito a dare un ulteriore chance al nuovo Priest, potresti convincerti che vale l’acquisto. A presto.

  • cristiano ha detto:

    sono reduce dal mega concerto di sabato dove le attese non sono state disilluse anzi andrebbero clonati , secondo modesto parere Richie Faulkner ha portato quel pizzico di freschezza, il veder salire sul palco glen tipton mi ha davvero emozionato cosa mai accaduta a me in concerto, biff e i saxon hanno sfoderato una prestazione solida poi lui ha guardato tutto il concerto dei priest dal mixer impassibile

    la domanda è scontata ma quando questi e altri della vecchia guardia si ritirano?(oddio alcuni forse farebbero meglio a deporre gli strumenti)
    Band valide magari ci sono ma a livello di carisma ???

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Cristiano, non ho potuto esser presente a Milano, ma spettatori degni di fede mi hanno confermato la tua stessa opinione sull’evento. Il carisma cresce anche alla prova del tempo che passa, difficilmente chi non ne possiede può restare a lungo sulla cosiddetta cresta dell’onda. Grazie.

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe. Sono sostanzialmente d’accordo con le tue analisi. Dickinson sicuramente il più “coraggioso” o quanto meno il più variegato. Judas, per quanto mi riguarda, nettamente il migliore dei tre. Saxon solido ma prevedibile, e senza grandi guizzi creativi. Diciamo comunque che lo stato di salute di questi vecchi leoni è generalmente invidiabile per gente con quasi 50 anni di carriera sulle spalle.
    A presto.
    Alessandro

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro, prescindendo dalle tue legittime preferenze personali, la conclusione è da sottolineare. Durare così tanto nel tempo è da applausi, riconosciamolo a questi tenaci veterani! Grazie.

  • Alfredo ha detto:

    Grazie Beppe per non esserti dimenticato di noi tuoi fedeli seguaci di quei magici anni. Hail Metal!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alfredo, mancare di “memoria storica” per me è un difetto, quindi non voglio dimenticare assolutamente chi si è interessato ai miei lavori di un tempo! Grazie.

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