Inutile dilungarsi, ormai sapete di cosa si tratta: un tuffo nei ricordi del rock “antidiluviano” del Novecento, alla ricerca di artisti delle specie più rare, o dei quali non è agevole ritrovar traccia oggi. Poco importa se sono ormai sepolti nel passato e non si manifesta diffuso interesse nel riesumarli.
C’è chi ha vissuto momenti di gloria, come i Beggars Opera – che inaugurano la rassegna – fautori di un energico prog-rock classicheggiante – altri invece relegati in qualche remoto angolo degli States, vedi i misconosciuti Companion che la concludono. Nel bel mezzo, spazio a due vigorosi power trio – Head Over Hills e Road – ed infine, ai misteri stregoneschi di Salem (Mass).
Come nelle precedenti puntate, di tutti o quasi è arduo reperire sul web fotografie ben riproducibili, ed il particolare la dice lunga sulla “nicchia” in cui son racchiusi questi ormai remoti gruppi per conoscitori.
BEGGARS OPERA: “Act One” (Vertigo, 1970)
Fra le molte illusioni suscitate dall’egemonica tendenza progressive agli albori dei Settanta, si ipotizzava persino che l’organo Hammond potesse competere con la chitarra elettrica quale strumento dominante nel rock… Ipotesi nemmeno troppo insensata, se si pensa che fra i musicisti più acclamati dell’epoca spiccava Keith Emerson, in competizione con il suo rivale nei rock poll, Rick Wakeman.
Altri virtuosi delle tastiere, specie Vincent Crane e Pete Robinson, avevano coltivato lo stesso stile dinamico ed aggressivo, perseguito anche da formazioni hard rock di primo piano, come i Deep Purple di Jon Lord e gli Uriah Heep di Ken Hensley.
Ma soprattutto l’organo Hammond era impareggiabile nel trattamento in chiave rock di famose arie della musica classica, un esperimento imposto dai Nice con la loro rivisitazione d’avanguardia dei Concerti Brandeburghesi di Bach in “Ars Longa Vita Brevis”. Su questa scia si affermavano i Beggars Opera, originari di Glasgow e subito scritturati dalla leggendaria “etichetta-spirale” Vertigo, che pubblicava nel 1970 l’album d’esordio “Act One”, corredato da una fantasiosa copertina del più creativo fotografo di quei tempi: Marcus Keef, autore di vere opere d’arte a favore di Black Sabbath, Colosseum, Spring, Warhorse, Dando Shaft, Affinity, per nominarne alcune!
Beggars Opera era un nome bene augurante, trattandosi di una commedia inglese del ‘700 che valse un’autentica fortuna al suo autore, il poeta John Gay. Lo stile musicale del gruppo era invece molto ispirato al compositore classico austriaco Franz Von Suppé: proprio l’elettrizzante arrangiamento della sua “Poet and Peasant Overture”, pezzo iniziale di “Act One”, diventava il più celebre cavallo di battaglia del quintetto, che insisteva riproponendo in chiusura un’altra pièce di Suppé, “Light Cavalry”. A differenza di altri gruppi dell’epoca, i Beggars Opera non rinunciavano all’apporto della chitarra solista, affidata all’abilissimo membro fondatore Ricky Gardiner, destinato ad un ruolo di rango dopo il declino della band; infatti lo ritroveremo al fianco di celebrità del calibro di David Bowie e Iggy Pop (con il quale compose la memorabile “The Passenger”). L’irruzione della fiammeggiante chitarra heavy di Gardiner in “Passacaglia”, che introduce un bridge d’organo funky dell’eccellente Alan Park, dà la misura della capacità dei Beggars Opera di avventurarsi ben oltre l’impronta classicheggiante. Quest’ultima resta comunque la loro specializzazione preminente, risolta con freschezza ed inventiva ben superiori alle esercitazioni accademiche di troppi musicisti neo-progressive a partire dagli ’80. Basti ascoltare l’irrinunciabile “Raymonds Road”, sfida aperta ai pionieri Nice di “America” e “Rondo”, che si risolve nell’incandescente miscellanea di citazioni di musica colta, fra le quali l’epica “Karelia Suite” di Sibelius, già rilanciata da Emerson e compagni.
Da sottolineare anche l’apporto di Martin Griffiths, dotato di un’enfasi vocale affine ai cantanti hard rock, occasionalmente sostenuta da ritmi galoppanti: in certi passaggi alla Deep Purple della stessa “Poet And Peasant”, preludono a future svolte prog-metal.
Nel 1971, con il definitivo inserimento del mirabile mellotron di Virginia Scott, il sestetto pubblicava “Waters of Change” un disco di progressive melodico, a mio avviso il più personale della loro discografia; nel 1972, sperimentando la propria validità artistica al di fuori di ogni classificazione, realizzavano un terzo album completamente differente, “Pathfinder”. Gli scozzesi continueranno con minor fortuna fino al ’79, arrendendosi con qualche tempo d’anticipo rispetto alla resurrezione prog comandata dai Marillion. Ma soprattutto “Act One” e “Waters of Change” restano fondamentali per qualsiasi appassionato di rock barocco: presumo che in Italia, le Orme di “Collage” ed il Banco all’esordio ne abbiano tratto insegnamento.
HEAD OVER HEELS: “Head Over Heels” (Third Story, 1971)
Molti protagonisti della scena del Michigan ed in particolare di Detroit – dalla fine anni ’60 – sono celebrati come essenziali nella storia del rock americano (Stooges, MC 5, Alice Cooper, Ted Nugent…), altri restano nomi da culto (Frijid Pink, Third Power, Frost, Brownsville Station etc.) ma ben saldi nella memoria degli appassionati; meno conosciuti sono certamente gli Head Over Heels. Eppure, agli albori dei Seventies erano finiti nell’orbita della Capitol, che forse sognava di bissare con questo power trio – descritto fra i più fragorosi in assoluto e con uno stile affine – il successo dei Grand Funk Railroad, allora i più famosi in assoluto fra i rockers del Michigan; per una sua succursale, Third Story, incisero infatti l’auto-intitolato “Head Over Heels”, edito nel giugno 1971.
Paul Frank, chitarra e voce, con il bassista Michael Urso ed il drummer John Bredeau, esibivano una solido assetto triangolare sul modello dei Cream e degli Experience, rifacendosi prevalentemente alla loro energica matrice rock-blues, senza inerpicarsi sul versante psichedelico. Esemplare in quest’ottica è la rilettura di “Little Red Rooster” di Willie Dixon, registrata dal vivo all’Eastown Theatre di Detroit; il pezzo che i Rolling Stones incisero nel 1964 nei leggendari Chess Studios di Chicago, è rilanciato dagli Head Over Heels in una versione dilatata dalle improvvisazioni ultra-elettriche della solista di Frank.
Anche un altro episodio, “Circles”, dimostra come la dimensione live fosse privilegiata dal trio, capace di liberare tutta la sua intensità, ed in entrambi i casi qui immortalati, di tenere le braci ardenti per oltre sette minuti di torrida durata. I brani in studio – registrati agli studi Paramount di Hollywood – risultano meno debordanti, ma l’album esprime subito la sua natura hard-blues in “Road Runner” (memore dei Led Zeppelin!), poi si distende nelle melodie ad ampio respiro di “Children Of The Mist” e soprattutto “Right Away”, giungendo fino al country-rock di “In My Woman”, a dimostrazione di una vena piuttosto duttile, tipica delle facoltà espressive di quegli anni.
Nonostante una consistente attività dal vivo, fra le quali spicca l’impegnativa apparizione al Fillmore East di New York in apertura di Frank Zappa e dei suoi Mothers Of Invention, si dissolsero rapidamente nel nulla, anno 1972.
Tuttora possono rappresentare una tonificante riscoperta negli archivi del manicomio rock della Motor City.
SALEM MASS: “Witch Burning” (Salem Mass, 1971)
In tempi ormai lontani, i più assidui indagatori degli incubi rock tramandavano il nome dei misteriosi Salem Mass, presunta incarnazione del cuore di tenebra dell’America, quella delle congreghe di “adoratori del demonio” che proprio una formazione d’Oltreoceano, Coven, aveva introdotto nello scenario post-hippy marchiato dai crimini di Charles Manson e della sua “famiglia”. Con il primo album “Witchcraft” (giugno 1969), il gruppo – rifondato circa 2016 dalla maliarda Jinx Dawson – aveva anticipato il filone del rock inglese ispirato all’occulto, precedendo gli esordi di Black Sabbath e Black Widow; senza dimenticare il nome del loro bassista originale, tale “Oz” Osborne, pressoché identico a quello della futura superstar.
Il battesimo dei Salem Mass sembrava originato da un evento storico realmente accaduto, il più imponente processo di stregoneria della storia americana, avvenuto alla fine del ‘600 a Salem (Massachusetts, altro che l’inno floreale dei Bee Gees!). Anche il titolo del solitario album “Witch Burning” – registrato in un bar di Caldwell (Idaho) – chiamava in causa le streghe giustiziate da quel tribunale, seppur condannate all’impiccagione e non al rogo: ma si sa, le licenze poetiche sono concesse.
Nel 1998, la sua prima riedizione ufficiale su etichetta Gear Fab (già rinomata nello scoprire reperti di psichedelia U.S.A.) ha svelato un segreto racchiuso per lungo tempo nel forziere della musica underground, ed almeno i dieci minuti di “Witch Burning” giustificano pienamente le attese di un suono tenebroso, annunciato anche dall’eloquente copertina.
Per certi versi, il titolo-guida è riconducibile al macabro rituale di “Sacrifice” (Black Widow) con affinità riscontrabili nel prologo misticheggiante e thrilling, nei toni concitati della voce e nelle ipnotiche trame descritte da chitarra ed organo, che avvicinano anche capisaldi prettamente americani come gli Iron Butterfly di “In-A-Gadda-Da_Vida” o gli indimenticabili Bloodrock di “Breach Of Lease”. Caratteristica precipua dei Salem Mass è però un diabolico, sibilante moog, che si impone nelle lunghe fasi strumentali, ricordando il contributo di Rick Wakeman a “Sabbath Bloody Sabbath”.
Proprio la supremazia delle tastiere e del sintetizzatore di Jim Klahr (che ha autorizzato la ristampa) hanno indotto Roger Maglio, l’esperto titolare della Gear Fab, ad avvicinare i Salem Mass ai grandi architetti del rock inglese, Emerson, Lake & Palmer e Yes. Ma è altrettanto certo che il suono di “Witch Burning” risulta decisamente meno tecnicistico rispetto ai maestri inglesi, mentre prevale il gusto di un’impronta musicale più misteriosa. Ascoltando la trasognata melodia progressive di “My Sweet Jane”, con un tocco di church organ, e l’altrettanto suggestiva “Bare Tree”, che ripresenta soluzioni da brivido di organo e moog su riff hard rock, si evince che Salem Mass non ammettono facili similitudini; infatti “You’re Just A Dream” riecheggia piuttosto il modello dei Doors.
Modificando spesso la line-up, Salem Mass resteranno attivi dal 1970 fino al ’77, senza aver altre opportunità discografiche per raggiungere platee più estese.
ROAD: “Road” (Natural Resources, 1972)
Può sembrare paradossale contemplare nella “Cripta” l’album di un gruppo che includeva il bassista del più leggendario triangolo rock degli anni ’60 ed oltre, Jimi Hendrix Experience: Noel Redding era stimato fra i personaggi dotati di maggior sensibilità fra quanti hanno frequentato il difficile ambiente della musica pop. Forse per questo non è più riuscito a ritagliarsi lo spazio che avrebbe meritato, oltre i confini dell’Electric Ladyland.
Inizialmente Redding era un chitarrista molto promettente, e come tale si mise in viaggio dal Kent verso Londra, nel settembre 1966, per rispondere ad un annuncio di Eric Burdon & New Animals, orfani di uno specialista delle sei corde. Giunse in ritardo, ma fu invitato a considerare l’eventualità di suonare il basso, al fianco di un giovane e prodigioso solista di colore, venuto dall’America. Nacquero Jimi Hendrix Experience, “tre teste afro da far girare la testa”, come scrisse un critico ispirato, Mauro Radice. Lo storico power-trio rifulgeva fino al ’69, quando Jimi congedava i compagni per formare la Band Of Gypsys.
Dopo lo scioglimento, mai del tutto rassegnato al ruolo di nobile gregario, Noel Redding fondava i Fat Mattress, dove torna ad impugnare la chitarra, ma senza troppa fortuna. A quel punto allestisce una formazione triangolare che sembra ricalcare il modello glorioso del recente passato, Road.
Per ironia della sorte, ancora una volta è subordinato ad un chitarrista americano: si chiama Rod Richards e proviene dai Rare Earth, una formazione di soul “bianco” di Detroit. Oltre ad offrire un sostanzioso contributo alla stesura dei brani, é verosimilmente lo stesso Richards ad assicurarsi il contratto discografico con Natural Resources/Rare Earth, sussidiaria della Motown, per la quale incideva la sua precedente band (curiosamente con lo stesso nome dell’etichetta…). Inoltre i Road avevano sede a Los Angeles, e l’inglese Redding dovette trasferirsi sulla West Coast per registrare l’unico album, accompagnato da un altro musicista del Kent, il drummer Leslie Sampson.
Uscito nel ’72, “Road” è un disco notevole, che rivela la personalità di Richards, sfrenato chitarrista capace di assoli wah-wah al calor bianco; raggiunge il massimo killer-instinct nel pezzo che intitola album e formazione, un tour de force di dieci minuti, dove Noel è a sua volta autore di una gran prova virtuosistica!
La catena dei brani non denuncia anelli deboli, e non si può dire che Road sia un’opportunistica “derivazione” hendrixiana, perché l’iniziale “I’m Trying”, con la sua ariosa vena melodica, evoca i grandi spazi desertici di copertina, suonando piuttosto come una risposta americana ai Wishbone Ash. Dopo i solitari accenti country di “I’m Going Down”, il trio manifesta un’accesa impronta psichedelica nell’allusiva “Mushroom Man” ed in “Man Dressed In Red”, strutturata da Redding su una base funky, ma stravolta in allucinazioni acid-rock.
La linea di tendenza psych viene confermata nelle restanti tracce, “Spaceship Earth”, che flirta con l’heavy rock, e “Friends”, eccellente composizione di Noel, dal gusto sixties tipicamente anglofilo.
Purtroppo quest’avventura non avrà seguito, e di lì a poco, ritroveremo Leslie Sampson negli Stray Dog, altro robusto trio hard-blues scritturato dalla Manticore di EL&P. Noel Redding deciderà di esiliarsi in Irlanda, riducendo le sue apparizioni sulla scena musicale. Com’è noto, l’11 maggio 2003, è scomparso a soli 57 anni. Tristemente, Noel Redding ha trascorso gli ultimi tempi della sua vita nel preparare un’azione legale contro gli amministratori del catalogo hendrixiano, che non gli hanno mai riconosciuto le royalties di spettanza.
Riscoprire “Road”, un’opera trascurata ma d’indubbio valore, è un atto encomiabile per onorarne la memoria.
COMPANION: “Reap The Lost Dreamers” (Rav Records, 1977)
Episodicamente, viene riportata alla luce qualche reliquia sommersa del pomp-rock a stelle & strisce, un genere spesso liquidato con supponenza, ma capace negli anni ’70 di fornire una risposta significativa al progressive melodico inglese; lo si evinceva anche dalle opere iniziali di Styx e Kansas, prima che si orientassero verso uno stile sempre di qualità, ma più fruibile. All’epoca esisteva una vastissima, sottovalutata scena sotterranea di gruppi dediti a fornire una risposta prettamente “americana” ai capiscuola britannici: fra questi i Leviathan, una formazione di Memphis, Tennessee (nulla a che fare con il gruppo inglese di “Unleashed”, della serie rarità di Record Collector) che incise l’unico album nel 1974, e dei suoi legittimi eredi, Companion.
Disciolti i Leviathan, con i quali aveva trascorso tre anni – distinguendosi come principale compositore insieme a Grady Trimble – Wain Bradley (voce, basso e tastiere) continuava la sua opera con i Companion, insistendo sulla stessa matrice stilistica. Al suo fianco un altro leviatano, Brit Warner (voce, chitarra e tastiere), che stavolta divide con il compagno il ruolo di autore dei brani.
L’unico album del quintetto, “Reap The Lost Dreamers”, è un tripudio di tastiere e di melodiose armonie vocali, e può ben definirsi una sorta di “paradiso” pomp-rock, quantomeno per ambientazioni musicali favolistiche, senza palesare slanci prettamente hard.
Infatti il suono è generalmente più soffice rispetto ai Leviathan, ma rifugge gli scaltri accenti commerciali che faranno la fortuna dell’AOR negli anni ’80. I musicisti manifestano infatti una passione genuina per lo stile professato, dichiarando influenze di musica classica, elettronica, e di progressive inglese, che ritroviamo in forme accessibili nel repertorio di “Lost Dreamers”. Vale la pena segnalare che tre di loro si alternano alle tastiere ed ai sintetizzatori, due alla chitarra elettrica/acustica e 4/5 della formazione partecipano ai cori vocali: in questi dati sono sintetizzate le qualità migliori dei Companion, soprattutto la loro abilità nel ricreare un suggestivo “potere d’atmosfera”. Potrebbero essere allineati ai contemporanei canadesi Rose di “A Taste Of Neptune”.
Un tocco di distinzione si avverte fin dall’iniziale “Blackbird”, brano minore (si può dire?) dei Beatles, adattato con bravura al linguaggio del gruppo americano. Nel suo genere, “The Child Goes On” è davvero una perla: se immaginate una versione “pomposa” di Crosby, Stills, Nash & Young, non potete attendervi di meglio. Davvero raffinati anche i cori soffusi di “The Lonely Reaper” e le oniriche sonorità rilucenti di “Prelude…/Dreamer’s Finale”.
Sulla seconda facciata, le belle partiture acustiche di “You Will Know” e “Anytyme, Anywhere” dichiarano la maggior influenza inglese di Bradley e compagni, che risiede nei classici Yes.
Per i “perduti sognatori” del trascurato rock melodico USA squisitamente anni ’70, è consigliabile ascoltare il solitario disco dei Companion, un lavoro di grande dignità (ristampa CD/LP Akarma del 2003 con differente copertina).
Ciao Beppe tardivamente riesco ad esprimere un commento sulla tua incommensurabile cultura enciclopedica…dei gruppi trattati ricordo solo i Road che recensisti sulle relics di MS ed un mio amico riuscì a reperire il disco duplicandomelo in cassetta (ai tempi si usava così altro che Spotify)…beh Space ship earth è un brano che ancora oggi mi fa saltare dalla sedia….
Ciao Roberto. Non è mai troppo tardi per un commento e ti ringrazio tanto della stima: non sono un “tuttologo”, a differenza di altri che si presentano come tali, dico la mia quando penso di poterlo fare con cognizione di causa. Insieme ad ascoltatori di lungo corso come te, cerchiamo di tener vivo il ricordo di certo rock che rappers, trappers & company vorrebbero ormai relegato nel passato. Non importa se ascoltiamo su Spotify, YouTube, vinile, CD oppure cassetta. Basta che l’interesse rimanga! Alla prossima.
Un altro bellissimo e interessante capitolo di una rubrica che attendo con trepidazione. Le “novita” proposte, sono sempre molto intriganti e spaziano su vari stili. I Road mi sono piaciuti molto, mi hanno riportato a qualche suono dei Catus, West Bruce Laing, Ursa major. Un mio limite e’ quando leggo pomp rock penso sempre ad un suono commerciale finto muscolare, grazie a te, invece posso apprezzare questi Companion , eterei e sognanti dopo i tribali apprezzatissimi Salem mass ed i rocciosi head over….. novita’ assoluta. Il bello di questa rubrica, oltre a conoscere band del passato , sono le loro storie di cui spesso si trova poco o per come me che difetto anche di inglese rendi un gradito e grande servigio. Alla prossima fumosa e umida cripta !
Ciao Giorgio, complimenti per le citazioni di Cactus, West Bruce & Laing e Ursa Major che non sono universalmente (eufemismo…) ricordati. Mi fa naturalmente piacere che trovi utile la rubrica, ti invito a non sottovalutare il pomp-rock perché c’è davvero materia interessante in quel genere, al di la’ dei difetti che riscontri. Fai benissimo ad utilizzare Spotify per approfondire e scegliere, se io non lo utilizzo è perché ho altre abitudini consolidate, tutto qui. Un tempo eravamo costretti ad acquistare a scatola chiusa, oggi c’è mezzo di ponderare la scelta, anche se un certo fascino si riscontrava anche nello scoprire il contenuto ascoltandolo fra le mura domestiche…Grazie!
Salve Beppe, come sempre “riesumazioni” interessanti e stimolanti per l’attuazione/realizzazione di un “archivio” a futura memoria (sempre se il futuro avrà memoria diceva Sciascia) di un periodo irripetibile della musica giovanile (una volta si diceva così?). I Beggars li conoscevo da tempo, i Road solo di nome mentre Salem Mass , Companion e Head Over Heels li sto scoprendo solo ora. Su Spotify si trovano facilmente le loro opere e con un numero di ascolti da parte degli utenti tutto sommato lusinghieri per delle band underground dei “seventies”.
Riguardo alla situazione attuale concordo con te.
Ciao Gaetano, fa piacere sapere che su Spotify (piattaforma che non uso, da attempato consumatore di musica…), si trovino facilmente i nomi proposti e che tu li stia ascoltando. Al di là delle valutazioni soggettive sulle scene storiche ed attuali, è bene che certe memorie del passato non vadano perse, anche tramite mezzi d’ascolto moderni. Grazie della buona volontà!
Pensa che io ho cominciato ad ascoltare spotify proprio grazie ai tuoi articoli ! E l unico modo che ho trovato per ascoltare gratis le band che proponi in modo da poter acquistare quelle che ritengo per me piu’ interessanti. Certo manca la sorpresa dell ‘acquisto a scatola chiusa di quando ero pischello, ma obbligatoriamente economicamente devo fare delle scelte !
Buongiorno Beppe
Delle band che citi conosco purtroppo solo i Beggars Opera, le altre saranno oggetto di eventuali mie ricerche e approfondimenti; questo è infatti il motivo per cui questi articoli sono così importanti, nel recupero di nomi che certamente non meritano di essere consegnati all’oblio, magari a vantaggio di una scena attuale sempre più povera e vuota di contenuti.
La riflessione che faccio è la seguente: nomi di artisti nuovi, validi e contemporanei ci sono se si fa lo sforzo di cercarli (anche grazie a questo blog), ma non è più possibile paragonarli alla qualità e alla ricchezza di contenuti che si può trovare tra gli artisti che vanno dalla metà degli anni 60 fino ad inizio anni 2000.
I motivi di questo decadimento sono molteplici e spesso sono stati discussi anche in questa sede; decadimento a mio giudizio irreversibile.
Tornando all’articolo, dei Beggars Opera possiedo una raccolta del periodo Vertigo edita dalla benemerita Esoteric Records, e sono una band estremamente valida, soprattutto per i primi due dischi, come viene sottolineato. Un paragone che mi viene in mente potrebbe essere con gli Ekseption olandesi, spero sia attinente.
Grazie per questo contributo anche in pieno periodo estivo.
Ciao Lorenzo, certamente la Esoteric ha il merito di diffondere con riedizioni ufficiali l’opera di artisti del passato. Gli olandesi Ekseption all’epoca erano probabilmente più noti degli stessi Beggars Opera, si rifacevano esplicitamente alla musica classica e sicuramente il paragone con gli scozzesi di “Act One” è azzeccato. La tua posizione nel confronto fra gli artisti, diciamo del “Novecento”, e gli attuali è condivisibile; sbagliato non accorgersi di ciò che di significativo può portare la contemporaneità, ma devo riconoscere che il paragone con la diffusa creatività del passato è insostenibile. Irreversibile decadimento? Temo di sì, ci sono corsi e ricorsi ciclici nella storia del rock, ma le nuove generazioni sembrano interessate, ed INDIRIZZATE verso tutt’altro, quindi…Grazie sempre dell’attenzione.
Ciao Beppe. Ennesima puntata “didattica” per il sottoscritto. Devo dire che mi sono piaciuti molto tutti i nomi che hai proposto, almeno dai link che hai scelto. I Beggars Opera per il lato più prog, i Salem Mass per quello più “dark”, Road una forza della natura. Molto intense anche le melodie “flower” offerte dai Companion. Mi ricollego un attimo anche ad un tuo commento ad un lettore riguardo ai Warhorse: fenomenali, non solo l’omonimo, ma anche il Red Sea che hai citato. Grazie.
Ciao Alessandro, ti ringrazio per il commento più che lusinghiero. Si potrebbe discutere sul perché molti gruppi di valore di un passato sempre più lontano (sempre vivi nel ricordo di chi li ha stimati, come nel caso dei Warhorse) siano generalmente finiti nel “dimenticatoio”. Può essere il caso di approfondire l’argomento prossimamente. A presto.
Ciao Beppe,
come sempre fonte di ispirazione per allargare gli orizzonti della conoscenza di un genere molto amato e come sempre anche motivo di “litigi” con la consorte quando vengono poi recapitati i pacchetti con i cd acquistati 😂
Scherzo naturalmente…..
Da un primo ascolto direi che Beggars Opera e Salem Mass saranno presto nel mio scaffale, gli altri saranno oggetto di ulteriore approfondimento.
Grazie ancora,
Civi
Ciao Civi. Beh, essere “fonte d’ispirazione” sarebbe un traguardo significativo per chi scrive; a maggior ragione se invoglia all’acquisto di un disco, soprattutto quando non ci sono in ballo interessi economici ma solo l’intento di comunicare a chi legge le proprie considerazioni. Con l’ausilio dei link, a differenza di un tempo, il lettore può essere introdotto all’ascolto senza dover per forza fare un atto di fede verso lo scribacchino! Grazie di aver apprezzato.
I Beggars Opera…quei gruppi in cui ci si imbatte da sempre e che alla fine non si ascoltano mai.
Ottimo!
Adesso so cosa fare in questi ultimi giorni di ferie.
Gli altri gruppi, come ogni volta che ho letto i tuoi articoli, beh…non pervenuti.
E di conseguenza parte la caccia con in testa i Salem Mass.
Il che è splendido perché si tratta di un genere, quello underground dei ’70, che adoro sviscerare in lungo e in largo.
E grazie per i link che posti, perché temo che un gruppo che si chiama ROAD sia pressoché introvabile su certe piattaforme di streaming.
Articolo come sempre preziosissimo se si vuole andare oltre i soliti sconosciuti nomi (Captain Beyond in primis. Mi stupisco che non abbiano raggiunto il milione di copie vendute visto che il milione di persone che li citano come imprescindibili lo hanno raggiunto sicuramente – e sul punto ho qualche riserva. Ex Mark I per Ex Mark I, ad esempio, ho sempre preferito i Warhorse. E di molto).
Ciao Paolo, penso a mia volta che i link siano utili come “introduzione” ai gruppi presentati, perché in certi casi i nomi si prestano ad equivoci. Sono d’accordo, alcuni nomi da culto sono “sovraesposti”, altri decisamente sottovalutati. Sui Captain Beyond (il primo album è un classico) è iniziata una rivalutazione in tempi di ascesa dello stoner rock come “pionieri” del genere, poi il fenomeno si è ingigantito perché il passaparola è amplificato sul web. I Warhorse non sono considerati come meriterebbero, se “ricordo perfettamente” (come è abitudine di Giancarlo), sul nazionalpopolare Ciao 2001, all’epoca il loro “Red Sea” era stato “album della settimana”. E’ un discorso lungo, che vorrei riprendere nella prefazione di un prossimo articolo. Se ricerchi sul Blog, ai Warhorse ho dedicato uno scritto molto elogiativo. Grazie della concreta attenzione.