Tempo fa (non chiedetemi quando…) assistevo ad un evento sportivo in TV, e nell’intervallo mi stavo allontanando per evitare la solita, tediosa sequela di spot pubblicitari, quando rimasi colpito dalla superba musica che fungeva da colonna sonora di uno di essi: non credevo ai miei timpani, ad accompagnare la propaganda di un’automobile Ford, era stata scelta “The Four Horsemen”, cavallo di battaglia di uno dei più originali album dell’era progressive, il doppio “666” degli Aphrodite’s Child.
Oggi mi domando se le innumerevoli repliche di quella pubblicità si siano trasformate nel volano promozionale che ha indotto l’edizione deluxe del 50° – o più precisamente – 52° Anniversario di quel grande classico, riproposto sul mercato l’8 novembre (Mercury/Universal).
Il ricordo degli Aphrodite’s Child presso il pubblica di massa di fine anni ’60 è legato soprattutto a singoli pop di grande successo anche in Italia, “Rain And Tears”, “It’s Five O’Clock” e “Spring, Summer Winter And Fall”; Vangelis e compagni si imposero come un’inattesa risposta ellenica ai Procol Harum, caratterizzati dall’enfasi della voce in falsetto di Demis Roussos. Se il gruppo inglese produsse l’hit da dieci milioni di copie “A Whiter Shade Of Pale”, frutto di pionieristica commistione fra musica classica e pop/R&B (adattando un’aria della Suite n.3 in D Maggiore di Bach), i greci risposero con “Rain And Tears”, rielaborazione del Canone di un altro compositore barocco tedesco, Johann Pachelbel.
In realtà Aphrodite’s Child costituivano una delle migliori formazioni dell’Europa Continentale di quell’epoca, efficace nel conciliare la vena commerciale dei 45 giri con uno stile sperimentale che fondeva ai massimi livelli componenti di psichedelia, progressive e antico folklore greco.
Le origini risalivano all’incontro fra il tastierista Vangelis Papathanassiou e Demis Roussos (basso & voce) alla fine del 1966. Entrambi avevano alle spalle una presenza attiva nella scena beat ellenica, e con l’aggregazione del chitarrista Silver Koulouris e del drummer Lucas Sideras, allestivano The Papathanassiou Set. Nell’autunno 1967 entravano per la prima volta in studio onde registrare un singolo di loro composizione, “Plastics Nevermore”; sul retro “The Other People”, un magico infuso di psichedelia e folk misticheggiante. Ma quando il regime reazionario del colonnello Papadopoulos conquistò il potere in Grecia, Silver era costretto al servizio militare mentre il resto del gruppo espatriava, temendo ripercussioni anche sulla libertà d’espressione artistica. Incontrando ostacoli nel trasferirsi per lavoro in Inghilterra, i musicisti si insediavano a Parigi, assicurandosi un contratto con la Mercury francese. Un discografico li convinceva a ribattezzarsi Aphrodite’s Child, ovvero Figlio di Afrodite, la mitologica Dea della bellezza e dell’amore che rende facilmente riconoscibile il trio, sia per provenienza, sia nello scenario più generale degli ideali hippy di love & peace. Sbancavano subito le classifiche con “Rain And Tears” (maggio ’68), al quale faceva seguito il debut-album “End Of The World”, in ottobre. Contempla brani d’eccezione, specialmente “The Grass Is No Green”, esemplare unico di creatura lisergica, contraddistinta da un malioso refrain di Roussos; di grande rilievo anche il rock viscerale di “You Always Stand In My Way” – con gli interventi risolutivi delle tastiere di Vangelis – il prog pastorale di “Day Of The Fool” e la concezione folk prettamente greca di “The Sheperd And The Moon”. Estremamente apprezzato nel nostro paese, il trio realizzava anche un emendabile singolo cantato in italiano, che includeva le versioni di due popolari canzoni di musica leggera, “Quando l’amore diventa poesia/Lontano dagli occhi”, ma fortunatamente tornava sui suoi passi con il successivo 45 giri: al pop melodrammatico di “I Want To Live” è abbinato “Magic Mirror”: dagli accenti hard rock di quest’ultima, sembrerebbe discendere una nostra gloria di nicchia, il Balletto Di Bronzo di “Sirio 2222”.
Chiudeva il loro fortunato 1969 il secondo album, che reca il titolo dell’acclamata “It’s Five O’Clock”, ed include fra le altre “Let Me Love, Let Me Live”, gemma psych.
Nonostante le esorbitanti vendite dei singoli in Europa, Vangelis non accettava di buon grado i compromessi che gli imponevano una vena più commerciale, limitando la sua creatività. Nel 1970 manifestava la propria disaffezione verso il gruppo, ritirandosi in studio di registrazione a Parigi e facendosi sostituire da un altro tastierista per i concerti in Italia e in Spagna.
“666 (The Apocalypse Of John, 13/18)”
La svolta era avvenuta quando Vangelis ritrovava nella Ville Lumière il regista greco Costas Ferris, che realizzò nel 1966 un documentario sul primo gruppo del musicista, The Formynx, ed a sua volta era emigrato per reazione al regime politico in patria. Ferris propose a Vangelis di comporre la colonna sonora di un film ambientato sui moti studenteschi del ’68 ed altre manifestazioni di protesta giovanili, ad esempio contro la Guerra in Vietnam, ma il progetto non andò in porto.
Diventava invece fonte d’ispirazione del canto del cigno degli Aphrodite’s Child, certamente il loro lavoro più ambizioso e sperimentale, il doppio album-concept “666”.
Il titolo si ricollega all’Apocalisse del Vangelo di San Giovanni (ma non nell’ottica satanica diffusa anni dopo nell’heavy metal); lo stesso Costas Ferris che ne ha scritto i testi, lo interpretava alla luce della controcultura di fine anni ’60, teorizzando una connessione fra la “fine del mondo” del Nuovo Testamento e la burrascosa atmosfera socio-politica dei suoi tempi. Non a caso l’opera è introdotta dal coro rivoluzionario “Abbiamo il sistema per fottere il sistema” (“The System”)!
Il progetto riscuoteva l’approvazione del luminare Giorgio Gomelsky, primo mentore degli Stones e quindi degli Yardbirds, che in Francia era impegnato con i leggendari Magma. Nell’occasione il gruppo reintegrava il chitarrista Silver Koulouris, che aveva concluso gli obblighi di leva; si erano però acuite le divergenze artistiche fra Vangelis e Demis, che aspirava a valorizzare le sue indubbie doti di cantante e ad esibirsi dal vivo, sentendosi limitato dalle lunghe fasi strumentali di “666”. Effettivamente, le sue parti di voce solista nel doppio album sono assai circoscritte, presagendo lo scioglimento del quartetto.
Il costoso prodotto finale suscitò anche la manifesta disapprovazione della casa discografica, già irritata dalla suddetta intro, “The System”, ma ancor più dalla scandalosa partecipazione dell’affermata attrice greca Irene Papas, che annunciava il secondo avvento del Cristo con una recita ritenuta blasfema in “(Infinity)”, conclusa con la simulazione di un orgasmo…La Papas era una celebrità anche da noi, avendo recitato nel ruolo di Penelope in uno sceneggiato di successo della Rai, l’“Odissea” (1968).
Vangelis rifiutò qualsiasi censura e la Mercury reagì sospendendo la pubblicazione del disco per un anno. Per nulla scoraggiato, il gruppo organizzò una “festa di compleanno” ad un anno dalla mancata pubblicazione, presente anche un entusiasta Salvador Dali e la sua musa, la giovane Amanda Lear. L’opera uscì infine su Vertigo, etichetta progressive della Mercury, nel giugno 1972 e a nulla valsero le insistenze per modificarne l’inquietante titolo, “666”: Vangelis e Ferris lo giudicarono insostituibile e perfettamente rappresentativo delle “violenze che porterebbero all’estinzione dell’umanità”. E’ questo il fattore che rende l’opera una sorta di tempio laico, eretto sulle rovine delle crisi ed i conflitti novecenteschi, dunque senza l’afflato spirituale che suggerirebbero i riferimenti alle sacre scritture.
Il doppio LP è scandito anche da segmenti narrativi che fungono da raccordo nella successione dei brani, ad esempio la toccante recita affidata ad un giovanissimo sconosciuto, Daniel Koplowitz, in “Loud, Loud, Loud”; ma naturalmente è la musica a rifulgere, a partire dai ritmi incalzanti di “Babylon”, che agitano l’arrangiamento a base di chitarra acustica e fiati, illuminato anche dal furore lisergico della chitarra elettrica. Poi il capolavoro assoluto “The Four Horsemen” (che non è la stessa dei Metallica!), caratterizzato dall’inconfondibile melodia vocale di Roussos e da un assolo di Kolouris altamente evocativo. Che però la musica basti a sé stessa nell’illustrare ammalianti atmosfere, lo dimostra “The Lamb”, dove certi slanci creativi non risultano anni-luce distanti dal folk-metal d’ispirazione celtica.
Le sonorità soffuse di “Aegian Sea” preludono alla new age ed alle famose colonne sonore di Vangelis, si estendono fra interludi poetici e cori sfumati, ma vi trova spazio anche un assolo di chitarra che pare rendere omaggio a David Gilmour e a spazialità Floydiane. La varietà espressiva si estende nella musica etnica medio-orientale punteggiata da lugubri cori in “The Wakenig Beast”, o nel clima da soundtrack teatrale di “The Beast”. Ritmo serrato e chitarra heavy-psych tornano in primo piano nelle rapide ed irruente “The Battle Of The Locusts” e “Do It”, affini a vigorose trame underground della scena inglese.
Dopo l’iniziale declamazione di “Seven Trumpets”, nel secondo 33 giri spicca in apertura “Altamont”, dove si intrecciano la singolare base musicale heavy-prog ed un’eccentrica linea vocale, mentre il concitato assolo di sax si riallaccia a contemporanee memorie di Van Der Graaf e Audience. Non meno avventurosa la fusione fra progressive e musica etnica di “The Wedding Of The Lamb”, con il flauto di Vangelis a suggerire l’atmosfera costellata da tenebrosi cori liturgici.
Gli esperimenti elettronici si amalgamano con le turbolenze delle percussioni in “The Capture Of The Beast” e dopo la performance erotica della Papas, riecco la voce di Roussos che ravviva gloriosamente la tradizione beatlesiana in “Hic Et Nunc”. Un altro omaggio al pop psichedelico anni ’60 è reso nella pianistica “Break” (incrocio fra Beatles e Pink Floyd!) , che conclude il capitolo finale del gruppo greco dopo l’ennesimo, suggestivo episodio strumentale, “All The Seats Were Occuped”, quasi venti minuti che concedono spazio anche al riepilogo creativo di precedenti episodi dell’opera.
A quel punto, per il gruppo non c’era più futuro; Roussos intraprese una carriera solista di grande successo, iniziata con l’album “The Greek Side Of My Mind”, e rilanciando la vena più “leggera” del gruppo d’origine, affiancato da Sideras e Kolouris. Includeva il singolo “We Shall Dance”, che gli valse la vittoria nel Festivalbar 1971. E’ scomparso nel 2015, dopo aver venduto circa 60 milioni di dischi. Anche Lucas Sideras fu titolare di un paio di album solo, decisamente underground, nella prima metà degli anni ’70.
Vangelis affinerà negli anni il suo talento di compositore di colonne sonore, consacrata dall’Oscar nel 1981 per il film “Momenti Di Gloria”(“Chariots Of Fire”) e nondimeno dal capolavoro di Ridley Scott, “Blade Runner”, che lo eleveranno al rango di star internazionale. A dimostrazione della propria integrità artistica, nel 1974 aveva declinato l’invito a sostituire Rick Wakeman negli Yes, benché particolarmente stimato da Jon Anderson; questo non gli impedirà di instaurare con il cantante una collaborazione nel duo Jon & Vangelis, iniziata a livello discografico nel 1980 e particolarmente apprezzata dalla critica.
Le nuove configurazioni di questo masterpiece progressive sono tre: disponibili il doppio LP, in vinile nero (e in vinile rosso in edizione limitata) entrambi rimasterizzati; oppure il box di 4 CD: 2 per il remaster dell’edizione internazionale del 1972, gli altri 2 annoverano il differente mix della versione pubblicata in Grecia nel 1974, “resuscitata” esclusivamente per l’occasione. Completa il box un quinto disco, il Blu-Ray con tecnologia audio Atmos di alta qualità, curata dallo stesso Vangelis, che include contenuti visivi trasmessi nel giugno ’72 dal programma televisivo francese Discorama. Infine è allegato un corposo libretto dalla ricca documentazione fotografica.
Si lo ammetto non li avevo mai considerati, a parte il 45 giri che girava in casa di It’ five….. non mi ero mai appassionato o meglio interessato al gruppo. Mi ricordo un Demis Roussos che passava in tv bianco e nero e piu’ poppettaro, che piaceva anche ai miei genitori, e quindi automaticamente cassato da me come melodico. Il tuo articolo e’ stato quindi prima fonte di stupore e poi di interesse appassionante. Gli assaggi video che inserisci sono sempre molto istimolanti e permettono di farsi un idea di cio’ che scrivi. Non aggiungo niente, il loro sound non mi affascina, ma sono contento che dal tuo pezzo, si inserisce un altro tassello di storia della musica . Grazie.
Ciao Giorgio. A suo tempo, anche tu lo confermi, gli Aphrodite’s Child entravano nelle “case degli italiani” con famosi singoli pop. Quell’etichetta è rimasta appiccicata al nome del gruppo, anche se 666 era tutt’altra “bestia” (permettete il gioco di parole), non certo di facile ascolto. Infatti i musicisti si sarebbero separati in corso d’opera per divergenze musicali. Per me è importante cogliere occasioni propizie per recuperare cimeli discografici che ritengo di tutto rispetto. Ovviamente ai lettori spettano le proprie valutazioni, dunque ti ringrazio dell’interessamento.
Gli Aphrodite’s Child sono un gruppo che ha fortemente segnato la mia adolescenza, dato che in casa i miei fratelli maggiori avevano portato il singolo “Rain and Tears” e poi l’LP “It’s Five O’Clock’. Ascolti a raffica, come si faceva spesso allora, ammaliato dalla loro musica e dalla incantevole voce di Demis. Più avanti lessi del disco “666” e incuriosito lo cercai a lungo senza mai trovarlo! Riuscii ad ascoltarlo molto tempo dopo facendomelo duplicare su una cassetta. Bella la tua retrospettiva sul gruppo e su quel disco in particolare, da considerare come un’opera senza compromessi.
Eh si Paolo, è un’opera cara a noi “anzianotti” avidi di tutto ciò che accadeva in quei tempi ma anche un paio di decenni dopo, che siamo contenti di aver vissuto. Senz’altro un doppio album “senza compromessi”, come dici tu, quindi non facilmente fruibile a posteriori. Ti ringrazio della solidarietà (ahaha!). Alla prossima occasione…
Ricordo che al liceo (quindi stiam parlando di fine anni 80 inizio 90) mi fecero ascoltare The Four Horsemen ed ebbi come unico obiettivo trovare l’album da cui era tratto.
D’altra parte c’era Vangelis che aveva nel carnet quelle due colonne sonore da brividi.
E poi c’era Demis Roussos che all’epoca passava molto in TV da noi.
E vogliamo mettere il titolo? A quell’età faceva indubbiamente presa.
Me lo prestarono.
Una ROTTURA DI ZEBEDEI DISUMANA ED INFINITA!
O così me lo ricordavo da decenni. Già…Dalla maturità son passati 33 anni. Gli anni di Cristo. Beh, visto l’argomento biblico ci sta anche.
Così, con questo a dir poco stupendo ed esaustivo articolo, mi è tornata la voglia di rimetterci su (grazie a Spotify).
Canzone per canzone con la spiegazione sotto di Beppe Riva.
Non si può sbagliare.
Che dire…
Una ROTTURA DI ZEBEDEI DISUMANA ED INFINITA parte II.
Il pezzo con Penelope, pardon Irene Papas, è di una noia mortale.
Da quel punto di vista Meg Ryan resterà imbattibile, saecula saeculorum.
Poi, è chiaro, ci sono pezzi veramente belli, ma continuo a non capire le ragioni di tanto successo di questo disco, quanto meno sotto il profilo musicale.
Altro che Deluxe edition; lo prenderei solo in formato EP con i pezzi migliori e come bonus All The Seats Were Occuped.
(e dire che leggendo l’articolo mi ero appassionato. Quando si dice “saper scrivere”…)
Ciao Paolo, devo dirti che il tuo commento mi ha divertito. Non cerco mai unanimi consensi, anche perché a mia volta giudico tediosi non pochi album “classici” incensati dalla critica. Ovviamente non è il caso di “666”, superfluo ripetere quanto ho già scritto e ti ha persino convinto a riascoltarlo. Aggiungo che l’orgasmo è un altro sport, l’ho citato per dovere di cronaca e si trattava verosimilmente di una provocazione, associata al “Second Coming” di Cristo. Sfruttava la scia di un grosso successo censuratissimo (ma melodicamente attraente), “Je T’aime moi non plus” della coppia francese Birkin & Gainsbourg. Le deluxe edition da sempre includono materiale per completisti ed appassionati di un gruppo. In un mio recente incontro con discografici di alto livello ho avuto la conferma che la percentuale di vendita del “supporto fisico” rispetto al digitale è largamente inferiore, quindi è ovvio che le strategie di vendita per un pubblico “selezionato” portino a materiale bonus. Ridurre poi il doppio album alla dimensione di un EP mi sembra un tantino esagerato, ma sei padrone delle tue scelte. Grazie per esserti espresso.
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Ciao Stefano e grazie.
Ciao Beppe. Wow, ovviamente conoscevo Roussos e Vangelis nei loro percorsi “in proprio”, ma il resto di questo splendido articolo per me è stata una piacevole scoperta. Lo prenderò di sicuro. Non si finisce mai di imparare: grazie!
A presto.
Alessandro
Ciao Alessandro, non si finisce mai di imparare, il detto vale per tutte le persone di buon senso. Se poi l’articolo ti è parso “istruttivo”, ti ringrazio!