The Defiants (2015)
Una specie in via di estinzione o che si sta clamorosamente rigenerando?
Costretta ai margini del mercato discografico dal rock alternativo degli anni ’90 (non solo grunge, ma anche nu metal e varie tendenze crossover), la più vistosa generazione hard’n’heavy degli anni ’80 sembrava destinata a prematura scomparsa.
Si parla di quella che ironicamente era etichettata hair metal: più che di un’espressione musicale definita, si trattava di una fashion, un po’ come era accaduto alla fine degli anni ’70 con il movimento new romantic scaturito dalla nuova onda post-punk, che al di là dei celebri Duran, Spandau, Visage, risucchiava nello stesso calderone gruppi di differente matrice come Ultravox e Japan, accomunati da uno stile visuale più che musicale.
Una questione d’immagine dunque, che nel nostro caso raggruppava artisti di eterogenea natura, dal più tipico glam-metal alla conseguente street scene di L.A. – quest’ultima dalle radici più palesemente R&R – senza dimenticare le formazioni di hard rock melodico (altrimenti detto class metal, per evidenziare il tocco accurato delle esecuzioni) e di AOR, molte delle quali con lunghe ma curatissime criniere; val la pena ricordare che artisti storici come Ozzy Osbourne e gli stessi Judas Priest, mirando alla conquista dell’America, si agghindavano con le stesse acconciature, inadeguate ai personaggi.
Tutto ciò è confinato irrimediabilmente nel passato? Non proprio, perché se è pur vero che il look si è adeguato ai tempi e non è più determinante, la “canzone rimane la stessa” (o quasi) e a distanza ravvicinata, assistiamo davvero ad un nugolo di uscite pressoché contemporanee di redivivi musicisti e formazioni degli anni ’80. Non da oggi naturalmente, ma il movimento sembra in costante ascesa. Necessario fare le debiti proporzioni: i reduci degli eighties non costituiscono più un fenomeno di smisurata portata commerciale, però tanti nuovi album e conseguenti tour hanno aperto la strada ad una resurrezione che a fine Novecento appariva impensabile.
L’iperattiva etichetta Frontiers ci crede particolarmente, e se i loro dichiarati best-sellers sono gli svedesi Eclipse, epigoni di una più fresca generazione scandi-rock, la presenza sul mercato di vecchi eroi del decennio in questione è a dir poco assidua.
Con “Eagle Flight” sono giunti al quarto appuntamento discografico i Revolution Saints, sempre guidati dal batterista (ed efficace vocalist di “riserva”) dei Journey, Deen Castronovo, che però accusano la defezioni di Jack Blades e Doug Aldrich, sostituiti rispettivamente da altri famosi, Jeff Pilson e Joel Hoekstra. Non hanno mai mollato gli L.A. Guns di Tracii Guns e Phil Lewis, prim’attori dei baccanali del Sunset Strip di Hollywood, al traguardo del quattordicesimo album (!) con “Black Diamonds”.
Persevera anche la “strana coppia” Sweet & Lynch, costituita da Michael, front-man dei cristiani Stryper – assurti inopinatamente al successo in epoca di maggior dissolutezza della movida di L.A. – e da George, il guitar hero che detestava il suo capitano Don Dokken. Per loro è in uscita il terzo album “Heart & Sacrifice”. Risorgono addirittura gli Heavens Edge, meteore della scena di Filadelfia (Cinderella, Britny Fox etc.); ebbi un’infatuazione passeggera per l’eponimo debut-album del 1990 (Columbia), poi il quintetto fu giustiziato dal grunge, e “Get It Right” è solo il terzo album ufficiale.
Concludiamo con illustri veterani; l’inossidabile chitarrista dei Journey, Neal Schon, pubblica un sontuoso “Journey Through Time” (3CD+DVD, anche blue-ray), testimonianza di un concerto del febbraio 2018, consacrato al repertorio dei Journey, dov’è affiancato dal grande ex Gregg Rolie e dall’ubiquo Castronovo.
Le ultime tre novità discografiche succitate sono imminenti, pubblicazione contemporanea annunciata per il 19 maggio.
Bisognerà invece attendere il 16 giugno per “Dream Higher”, il settimo album di studio dei Pride Of Lions di Jim Peterik, responsabile dei fasti Survivor all’epoca degli straripanti inni dei film “Rocky” con Stallone.
Al momento ci occupiamo più specificatamente dei Winger, testa d’ariete dell’hard rock melodico di fine ’80, poi del ritorno di una stirpe ancor più rara, quella del “puro AOR”, rappresentato dalla Michael Thompson Band. Infine, in anteprima rispetto alla pubblicazione (9 giugno), presentiamo “Drive”, atto terzo di The Defiants, progetto collaterale dei Danger Danger che rischia di sgominare gli originali: il loro precedente, “Zokusho”, fu eletto nel 2019 miglior disco nella sua categoria da una diffusissima rivista rock inglese.
WINGER: "Seven"
Nel 1988, l’anno in cui Atlantic celebrava il suo 40° anniversario con l’indimenticabile concerto che riportava in scena il Martello degli Dei – Led Zeppelin – l’etichetta di Rockefeller Plaza (NY) indicava la scala verso il firmamento rock ad uno degli ultimi gruppi importanti del fenomeno hair metal, Winger.
Costituiti a New York, traevano origine da musicisti che avevano stretto alleanza nel gruppo di Alice Cooper, epoca “Constrictor”/”Raise Your Fist…”, Kip Winger (basso e voce) e Paul Taylor (tastiere); i due decidevano di mettersi in proprio, incoraggiati dal celebre veterano di Detroit. Il vero nume tutelare era però Beau Hill, che Kip conosceva da anni, quando il produttore militava negli Airbourne, pionieri dell’AOR. Proprio lui presentava ai futuri Winger il notevole chitarrista Reb Beach, che aveva suonato anche con la sua “protetta”, Fiona Flanagan, ed il quartetto era completato dal batterista Rod Morgenstein, già nei Dixie Dregs di Steve Morse.
Beau Hill credeva fermamente nei Winger, al punto di proporli a più riprese al co-presidente dell’Atlantic, Doug Morris, riluttante all’ipotesi di scritturarli. La sua determinazione ebbe finalmente successo, compensata da lucrosi contratti commerciali con il gruppo. E l’omonimo album d’esordio dei Winger, naturalmente da lui prodotto ed uscito nell’estate ’88, gli dava subito ragione, varcando il traguardo del disco di platino. Ascoltando l’iniziale “Madalaine”, si poteva ben intuire il perché: Kip e compagni rappresentavano l’ideale anello di congiunzione fra altri due successi griffati Beau Hill: il già noto “Out Of The Cellar” dei Ratt ed il futuro vertice dei Warrant, “Cherry Pie”.
Ciò che distingueva i Winger dalla media di tendenza hard rock in auge, era la qualità dei musicisti; il leader, appassionato di progressive, non aveva difficoltà a forgiare metallo di classe come “State Of Emergency” – il brano che aveva infine convinto Doug Morris – ed il quartetto osava confrontarsi con la leggenda di Jimi Hendrix, nella tonitruante versione di “Purple Haze”, dove il figlio di Frank Zappa, Dweezil, affiancava Reb Beach come solista.
Anche per questo Kip mal tollerava il ruolo di “modello maschile” per il quale era stato scelto da Cooper (poi ribadito nel duetto pop-sexy con la deliziosa Fiona in “Everything You Do”) ed aveva reagito con durezza alla provocazione dei Metallica nel video di “Nothing Else Matters”.
Le fortune dei Winger si consolidavano due anni dopo con un secondo disco (di platino), “In The Heart Of The Young”, prima di cadere in disgrazia, come tante chiome fluenti, sotto la grandine del diluvio grunge, che li induceva ad una prolungata separazione (1994-2001). Il tempo passa inesorabilmente, ma 35 anni dopo il debutto, Winger sono ancora in circolo, con la formazione originale oltre al secondo chitarrista John Roth (già nei ranghi prima dello split). Rappresentano dunque un caso piuttosto singolare di sodalizio artistico e personale; inoltre Kip appare invecchiato dignitosamente, evitando servizi fotografici imbarazzanti di altre stelle anni ’80 (Def Leppard, vi siete visti?).
Il nuovo album di studio “Seven”, esce a ben nove anni di distanza dal precedente “Better Days Comin’”; gli auspici del brano d’apertura e primo video-clip, “Proud Desperado” modificano un po’ le coordinate tipiche dei Winger classici, fomentando un clima quasi apocalittico e decisamente heavy, nonostante l’indubbia riconoscibilità melodica: forse rispecchia il più cupo mood dei tempi nostri, anche la musica può risentirne. “Heaven’s Falling” si riavvicina invece alle origini, ricreando un intrigante potere d’atmosfera, grazie alle armonie vocali e all’estensione dei flussi di tastiere.
La voce del leader risulta tuttora pienamente all’altezza, ed in “Tears Of Blood”, munita di un accenno introduttivo di “Hell’s Bells”, la combinazione melodico-drammatica appare ben bilanciata. Anche “Voodoo Fire” punta su un suono prettamente heavy, senza troppa originalità però, e lo stesso si può dire di “One Light To Burn”, che riecheggia gli Alcatrazz di Graham Bonnet. Invece “Stick The Knife In And Twist” esibisce un impatto alle soglie del metal, con refrain adeguatamente trascinante ed il furioso Reb Beach che si accanisce in un assolo a fuoco rapido. Ma a spezzare la sequenza del rock duro c’è l’inevitabile power ballad, “Broken Glass”, che non poteva mancare agli autori di un classico di tal genere, la limpida e difficilmente eguagliabile “Who’s The One”, suggello finale di “Pull” e del primo ciclo Winger (1993).
L’orecchiabile “It’s Okay” è l’unica vera concessione all’hard rock commerciale, perché il clima generale di “Seven” punta sulla dicotomia fra sonorità pesanti ed armonie vocali flessibili che ne stemperano la durezza, ad esempio, del mid-tempo di “Time To Burn”.
Non aspettatevi dunque un album incline verso l’AOR sulla scia di “In The Heart Of The Young”. Come successe con “Pull”, il masterpiece è riservato in chiusura; si tratta di “It All Comes Back Around”, una ballata “progressiva” dove Kip realizza come non mai la sua passione segreta verso un genere musicale più composito, accompagnandosi anche al pianoforte. Si sviluppa in ben sette minuti e mezzo; inaugurata da un’atmosfera eterea, scandita dal ritmo da “metronomo” di Morgenstein, è poi letteralmente infiammata dal crescendo di Kip, che mette a dura prova i suoi registri vocali; al cantante risponde un superbo, dilatato assolo di Reb Beach, che nell’occasione dà assolutamente il meglio di sé.
Eccellente, ma sarebbe stato troppo chiedere che quest’epica rappresentazione non fosse episodica?
MICHAEL THOMPSON BAND: “The Love Goes On”
Nel 1989, un anno favoloso per l’AOR che giunse a vertici mai più eguagliati in seguito, complice la decadenza del rock melodico rispetto alle nuove istanze alternative emergenti in USA, si segnalava fra le opere di maggior rilievo il debutto su Geffen della Michael Thompson Band, “How Long”.
A conferma di ciò, potete rileggere un articolo che risale al primo anno del Blog: “1989: Un Anno di AOR Heaven su Metal Shock” (giugno 2020) che annoverava nei Top 10 proprio quell’album d’esordio.
Originario di New York, Michael Thompson era un quotatissimo chitarrista di studio. Quando decise di formare la sua band, declinò l’offerta di unirsi stabilmente agli Animal Logic, un supergruppo che riuniva eccellenze come il batterista dei Police, Stewart Copeland, lo straordinario bassista jazz Stanley Clarke e la cantante Deborah Holland, con i quali aveva registrato l’omonimo album, uscito nello stesso 1989.
A Los Angeles aveva conosciuto il cantante di Tulsa, Richard “Moon” Calhoun, già con Chaka Khan e Ray Parker Jr., ma più noto agli esperti del rock per FM come cantante degli Strand, pionieristica band sulla scia dei Toto, protagonista di un solitario album del 1980, prodotto da Jeff Porcaro.
Della produzione di “How Long” della MTB, venivano invece incaricati Alan Niven & Wyn Davis, già efficaci con l’hard rock dei Great White; inoltre l’opera vantava ospiti illustri, fra i quali Bobby Kimball (Toto), John Elefante (Kansas, Mastedon), Terry Bozzio (Frank Zappa) e Pat Torpey (Mr.Big).
Brani come “Secret Information”, “Wasteland” e “Can’t Miss” rivaleggiavano con le proposte più sofisticate dell’AOR d’epoca. Purtroppo MTB si dissolveva senza lasciar ulteriore traccia, mentre il leader perseguiva una carriera di session-man d’assoluto prestigio, che annovera fra i suoi “clienti” (documentatevi un po’ a riguardo…) stelle di prima grandezza del panorama pop-rock internazionale.
Assai meno fortunata la vicenda personale di Moon Calhoun; già in cura per dipendenza dall’alcol nelle notti di vita spericolata a L.A., il cantante era vittima di una rovinosa caduta in bicicletta nel settembre ’94, e conseguente lesione alla colonna vertebrale che gli limitava l’attività motoria di braccia e gambe. Nonostante alcune ottimistiche previsioni di ripresa, Moon è tuttora costretto su sedia a rotelle.
Quantomeno la sua storia appare a lieto fine, a livello umano ed artistico, perché viene riaccolto nelle file della MTB, che ha ripreso l’attività legandosi alla Frontiers, ed inaugurando il nuovo corso nel 2007, con la ristampa del memorabile “How Long”; hanno fatto seguito altri due album di studio, l’ultimo dei quali “Love & Beyond” del 2019, oltre al Live in Italy “High Times” (2020) registrato al Frontiers Festival.
Solo nel nuovo “The Love Goes On”, Calhoun torna ad affiancare Thompson, oltre al bassista Tom Croucier (fratello di Juan dei Ratt) e al batterista Annas Aliaf.
Il quartetto riparte come era lecito attendersi con l’esemplare AOR della title-track, dove un refrain di grande effetto è ben irrorato dalle polifonie vocali e Michael pone l’accento con il suo impeccabile, elegante tocco da solista.
Minor energia si ravvisa nelle pur seduttive “Whispers And Dreams” e “War Of The Heart” dove il gruppo flirta con temi più soffici e rilassati da yacht rock.
In un contesto sempre spiccatamente melodico, MTB riavvicina i suoi migliori standard nel fascino d’atmosfera di “In Your Arms”: il valore aggiunto è ancora la raffinatezza delle armonie vocali à la Toto, unitamente al talento prezioso di Thompson, sempre protagonista di brillanti quanto misurati assolo. “All Of It” è basilarmente pop-rock dal chorus molto orecchiabile.
Un arpeggio sognante, subito doppiato dal riff elettrico, introduce “Just What It Takes”, altro buon esempio di solare AOR westcoastiano, mentre “My Forever June” è una ballata parecchio edulcorata, al di là dell’irreprensibile esecuzione. “Higher” rinfocola il ritmo e la successiva “Out Of Nowhere” si lancia verso un rock radiofonico più corposo in stile eighties, con un incisivo crescendo chitarristico.
“Picture Of You” alterna aperture d’atmosfera rarefatta a slanci verso l’hard rock melodico, con l’ineluttabile sigillo di qualità di Michael ma anche momenti evocativi illustrati dalla voce di Moon.
Infine “Wheelchair” è presentata come bonus-track, ma sicuramente il fraseggio ritmico-felpato della chitarra e la verve melodica la rende tutt’altro che trascurabile.
“Love Goes On” non è un classico del tenore di “How Long”, ma un album di AOR eseguito con classe e dal buon livello compositivo, fedele allo stile di un gruppo che non si è mai spinto verso un suono ostentatamente heavy.
THE DEFIANTS: "Drive"
Una delle ricette favorite dello chef della Frontiers, Serafino Perugino, consiste nell’amalgamare ingredienti prelibati, realizzando un piatto allettante per la sua clientela.
Senza metafore, significa riunire musicisti di notevole pedigree e costituire un progetto “All Star”. Con The Defiants non ha dovuto affaticarsi in voli pindarici, perché i tre protagonisti già militavano nei Danger Danger, ma ognuno di essi ha le carte in regola per emergere come individualità a sé stante.
Già nel 1985, il bassista Bruno Ravel si esibiva nella backing band della futura stella Michael Bolton, ma desideroso di affermarsi a livello personale si faceva lusingare dai White Lion, senza però ricevere la desiderata attenzione in qualità di compositore. La prospettiva di sostituire una primadonna come Billy Sheehan nei Talas, non gli riservava miglior sorte, allora decideva di mettersi in proprio con il batterista Steve West negli Hotshot, preludio alla fondazione dei Danger Danger, che reclutavano Ted Poley, già voce (e drummer) dei primi, leggendari Prophet.
Anche l’omonima opera prima dei Danger Danger su Imagine/Epic, è stata celebrata nel già citato articolo sul Blog, “1989: Un Anno di AOR Heaven su Metal Shock”; prodotta da due luminari come Lance Quinn e Mike Stone, rimane a mio avviso l’espressione migliore del gruppo di New York, che non si ripeterà più agli stessi livelli, a partire dal deludente, successivo “Screw It”.
Il cantante canadese Paul Laine era partito a sua volta con auspici favorevoli; immagine in perfetto stile hair metal, ma soprattutto un debut-album per la storica Elektra, “Stick It In Your Ear”, prodotto dal connazionale ai vertici della sua specialità, Bruce Fairbairn. Il brano d’apertura, “One Step Over The Line”, era ricco di effetti speciali e di sonorità estrose, protraendosi per oltre sette minuti e rivelando ambizioni che superavano i confini di una moda – come sempre – transitoria. Infatti “Stick…” aveva il torto di uscire sul filo del rasoio (1990), all’incombere della cosiddetta “epoca grunge”; quindi gli orizzonti major dell’altisonante Laine finivano inevitabilmente per restringersi, pur rimanendo attivo in varie formazioni, al di là della dozzina d’anni, capitolo chiuso, con i Danger Danger.
Infine, Rob Marcello discende da un casato di rango, fratello del già affermato Kee degli Europe, ma soprattutto è un chitarrista multistyle, che a pieno diritto può iscriversi alla categoria dei “virtuosi”, ostentando un buon gusto nel rifferama e negli assoli, sconosciuto a concorrenti fin troppo stereotipati. Per lui, fra le altre, anche una collaborazione con gli House Of Lords.
Ravel, Laine e Marcello si ritrovano dunque nei Defiants (2015) con un omonimo album che incita al ritorno dell’hard rock d’arena, ma il “capitolo successivo” – tale è il significato in giapponese del titolo “Zokusho” – è accolto ancor più favorevolmente dalla stampa specializzata; partecipa alla festa anche un quarto “dangerous”, il batterista Steve West.
Tempus fugit ma non si direbbe a giudicare dal terzo “Drive”, che realisticamente è il sequel che avremmo immaginato del precedente, con la variante di Van Romaine alle percussioni. Non solo per l’immagine di copertina, che replica il tema di un fumetto nipponico (“anime”) con protagonista il nostro super-trio: uno stile grafico che in genere trovo disdicevole, stavolta mi sembra davvero ben riuscito. Dunque, un tale e quale show (della stessa band) che ci piace, perché insiste nel riportare d’attualità l’hard rock enfatizzato da cori bombastici, che mai vorremmo relegato al passato.
Se un tempo si parlava di class-metal a proposito dei Dokken, perché il “metal” era il trend dominante degli anni ’80 e rappresentava un’attrattiva irrinunciabile, l’impatto di “Hey Life” è di QUEL tipo. Nient’affatto derivativo ma con caratteristiche proprie: il lavoro chitarristico è raffinato ed il savoir faire melodico in primo piano, nelle parti vocali come nell’arrangiamento.
“Go Big For Home” rilancia l’affinità dei Danger Danger con il Bon Jovi d’annata (non a caso entrambi esordirono con lo stesso produttore, Lance Quinn) sulla base di cori trascinanti ed un contagioso refrain.
“19 Summertime” è/era idealmente il singolo di grosso calibro commerciale, una combinazione sorprendente fra scanzonato party-metal ed un piglio alla Bryan Adams (sarà che Bryan e Paul sono entrambi canadesi?), mentre l’influenza dei primi Bon Jovi riemerge brillantemente in “What Are You Waiting For”, che avvicina “Runaway” con una peculiare enfasi Scandi-AOR nei cori alla Treat: forse un retaggio delle origini di Rob. “Against The Grain” replica la forza d’urto di “Hey Life”, mentre “So Good” è una palestra d’esercitazione per i numeri funambolici (mai logorroici, fortunatamente) della solista di Rob Marcello. E se “Miracle” è una ballata non così speciale come avremmo desiderato, “Love Doesn’t Live Here Anymore” è della stessa natura, con un tocco di melodramma ma sospinta con dinamismo da un bell’arpeggio di chitarra.
La fase finale verte in direzione AOR, con l’arrangiamento delle tastiere che non soffoca le tipiche impennate della solista (“Another Time Another Place”) e le stesse ariose atmosfere si ritrovano in “The Night To Remember” e “Nothing’s Gonna Stop Me Now”. In conclusione, nulla di cui sbalordirsi, ma il conclamato, consistente revival di uno stile musicale che tanto ha dato e tuttora può scatenare emozioni.
N.B.: Solo i primi 2 video tratti da “Drive”, di prossima uscita, sono al momento disponibili. “Fallin’ For You” è un’outtake del precedente “Zokusho”.
Caro Beppe sempre graditissimi i tuoi excursus sul metal anni 80. Ho adorato i Winger specie per il 1° magnifico disco. Kip ha una voce splendida tuttora.
Come ho amato ed amo i MIchael Thompson Band. La loro vecchia release è un capolavoro di classe enorme, suggestivo ed emozionante.
il nuovo disco, anche se non può essere all’altezza, me lo consiglieresti comunque?
Un abbraccio e a presto.. il nuovo Angel mi piace da morire. The torch è splendida e DI Mino in gran forma.
Renato ciao, mi fa sempre piacere condividere con i lettori la passione per quell’epoca. Frank Dimino in gran forma è da ammirare considerando che per un cantante l’età avanzata non è fardello da poco. Per quanto riguarda MTB, se hai amato tanto “How Long” una chance al nuovo disco la darei, l’ho scritto. Ascolta un po’ di brani su YouTube se vuoi valutare meglio, poi lo sai, molti sono critici su questi ritorni, ma serve oggettività! Grazie tante.
Ciao Beppe, l’ho acquistato e devo dire mi piace moltissimo…adoro queste sonorità come in toto gli anni 80.
Grazie di tutto e di tenere sempre viva la fiamma di quell’epoca..che poi viste queste uscte, tanto irripetibile non è…basta crederci.
Un abbraccio.
Ciao Beppe si torna a parlare degli anni 80 in questa occasione per riportare in auge nomi e protagonisti che in quegli anni hanno assaporato una notorietà che oggi è solo un lontano ricordo… l’avvento del grunge ha di fatto ridimensionato per non dire cancellato ogni forma di edonismo ed appariscenza nel rock relegando ai margini i protagonisti di quell’epoca che per sopravvivere molti di loro hanno ripiegato ad adattarsi alle esigenze di mercato virando smaccatamente il proprio sound…persino giganti come Kiss e Motley crue hanno inciso il loro disco Grunge…il risultato è che l’hair metal e soprattutto l’a.o.r negli anni a venire sono diventati effettivamente il vero alternative e underground e tale sono rimasti fino ai giorni nostri… come hai ribadito tu precedente il ritorno discografico di nomi dal passato è dettato da un reale atto di devozione alla musica più che ad un riscontro commerciale però personalmente penso sempre che le migliori cose sono già state fatte e dette anche perché le condizioni , i tempi ed anche i mezzi sono inesorabilmente diversi e a me piace ricordare un gruppo per il suono che ho amato…sono retrogrado o semplicemente nostalgico?
Ciao Roberto. Non è questione di nostalgia, anch’io mi sento (musicalmente) nostalgico. Il mio punto di vista, già espresso nella risposta al precedente commento, è che se si è amato un genere o dei musicisti, è doveroso nei loro confronti seguirne e valutarne anche l’attualità. L’esempio lo dà a sua volta Giancarlo in tutt’altro ambito, “Sognando la California”…Si è trattato anche in quel caso di un’epoca irripetibile, pure per le implicazioni sociali e di costume. Però se esce un nuovo disco di Graham Nash, giustamente il Trombetti lo valuta. E’ giusto dar credito ai “vecchi eroi”, di qualsiasi matrice, che ci hanno realmente appassionato. Se non lo facciamo noi che li abbiamo amati chi deve farlo, la Generazione Z? Impensabile. Grazie dell’opinione e comunque, viva il rock!
Buongiorno Beppe.
Come sempre sono molto apprezzati i tuoi scritti, che peraltro denotano un reale impegno nell’ascolto e nella valutazione di queste novità discografiche.
Onestamente devo dire di non essere (negli ultimi anni ormai) troppo versato nell’approccio ai dischi di coloro i quali possiamo a buon diritto definire vecchie glorie degli 80, nella accezione più positiva del genere.
Il motivo è che trovo troppo spesso questo tipo di proposte sono solo una pallida rivisitazione degli antichi splendori, e questo non mi consente di apprezzarle nella maniera che forse meriterebbero, fatte le debite proporzioni con il passato (come anche tu sottolinei).
Per motivi anagrafici ho vissuto la grande stagione dei Big 80’s solo di striscio, intercettando solo le ultimissime propaggini di quel periodo, e segnatamente gli anni che potrei identificare nel 1990 e nel 1991, cioè gli ultimi due che hanno chiuso definitivamente quella pagina, musicale e di costume.
Molto probabilmente questo mi ha portato ad idealizzare fin troppo quei dieci anni dorati, impedendomi virtualmente di apprezzare quanto di buono ha portato e porta questa sorta di rinascita del genere a cui fai riferimento.
Una cosa è certa: il motivo per cui ancora oggi apprezziamo così tanto i reduci degli anni 80 non è da ricercare solo nelle – varie – proposte musicali riconducibili all’hard & heavy; le motivazioni sono anche legate al periodo, cioè gli anni 80.
Che sono stati forse l’ultimo periodo storico legato alla speranza e alla positività, traguardando il futuro, pur con tutte le contraddizioni e i rovesci della medaglia del caso.
L’hard rock, l’aor, e derivati vari erano la colonna sonora perfetta.
Non vorrei fare discorsi troppo impegnativi e magari anche fuori luogo, ma personalmente la vedo così.
Da un punto di vista musicale, oltre all’ispirazione la differenza la facevano i budget, certi dischi oggi semplicemente non poterebbero essere nemmeno immaginati … qualche nome, 1987 dei Whitesnake, Hysteria dei Def Leppard, Slippery When Wet dei Bon Jovi. Dischi studiati nota per nota e costati centinaia di migliaia di dollari, coinvolgendo miriadi di session, produttori e songwriter di grido. Fantascienza al giorno d’oggi.
Non voglio certamente sminuire le realizzazioni che hai segnalato, anzi i Defiants sono veramante bravi, li vidi anche a un vecchio Frontiers Rock Festival e furono autori di una performance maiuscola.
Ma se devo ascoltare, per esempio, i Winger, vado sui primi tre, anzi rivalutando un grande disco come Pull. Forse sbaglio e rischio di perdermi molto di valido, ma gli ascolti che ho dedicato ai nuovi dischi mi hanno sempre riportato alla riscoperta degli “originali”.
Chiedo scusa per la lunghezza.
Ciao Lorenzo, innanzitutto non devi scusarti per la lunghezza perché le tue riflessioni sono accurate; per chi ha voglia di leggere, commenti approfonditi sono, l’ho già detto, un valore aggiunto nel Blog. Esprimi un parere condiviso da molti, ed è decisamente importante la tua nota, che ho evidenziato a mia volta in varie occasioni, della “musica specchio dei tempi”; la conseguenza è che certi exploit sono irripetibili. D’accordo, però dobbiamo fare attenzione all’attualità: “It All Comes Back Around” farebbe una gran bella figura in qualsiasi Best Of dei Winger, e per citare l’articolo precedente, “The Torch” degli Angel è la perfetta erede di “Tower” e per quanto mi riguarda, il brano dell’anno. Mi sarebbe spiaciuto molto perdermi queste meraviglie, solo perché il “meglio” è già stato dato in passato. Detto questo, anche il tuo finale che sottolinea la riscoperta degli originali, dimostra che ci sono motivazioni valide alla base di questo revival. Grazie per la dedizione.
Ciao Beppe,
Da buon nostalgico degli ’80 ho gradito molto l’articolo.
Mi sono piaciuti molto i nuovi Revolution Saints e Winger, meno M.T.B. forse perché il ritorno di Moon Calhoun mi avevo alzato l’asticella dell’ aspettativa: assolutamente non un brutto lavoro comunque.
Pur se fuori dall’orbita Frontiers ho gradito anche il nuovo Roxanne, altri autori di un ottimo disco di debutto nel 1988.
Un saluto ed un ringraziamento per i tuoi preziosi articoli.
Ciao Fulvio, quanto proposto è solo una “sintesi” del momento, non esclude affatto altri casi degni di nota. Per quanto riguarda la nostalgia è innegabile, se sostenessi il contrario sarei mendace…Grazie dell’interesse. Don’t Stop Believing!
Molto interessante questa carrellata di novità. Tutte novità che ovviamente sono state captate dai miei radar “ottantiani”, soprattutto Winger. Però leggere, proprio come a “quei tempi”, le tue impressioni al momento dell’uscita, mi dà motivazioni diverse per approfondire l’ascolto. Grazie Beppe!
Si Alessandro, anche questo scritto rappresenta una sorta di flashback sul nostro rapporto con la musica rock negli anni ’80. Siamo tutti ben più attempati, ma la passione c’è sempre, anche se tanti cambiamenti sono avvenuti e altrettante illusioni sono svanite. Grazie del pensiero.
Ciao Beppe, sono molto contento di leggere questo articolo. Tempo fa ti chiesi se era possibile un pezzo sull hair metal, e devo dire di essere stato accontentato. Escludendo i grandi nomi del periodo, spero in un prossimo pezzo con il recupero di alcune Band “minori” tipo Babylon AD , Enuff Z Nuff….
Ciao Lorenzo, come ho detto altre volte, certamente non scriviamo per “scontentare” nessuno, ma su ogni argomento ci deve essere la chiave opportuna. Si va un po’ ad “ispirazione” se mi concedete il termine, perché non siamo condizionati da esigenze di diffusione o altro. Sui “minori” perché no? Vedremo con l’occasione propizia, come è successo con queste ultime uscite. Grazie!