Può un gruppo sbagliare tutto nella vita, diventare un fenomeno nei grandi concerti da arena, lasciare una traccia indelebile nel rock americano, restare ignoto alle nuove generazioni e scomparire totalmente dalla faccia della Terra avendo un suo brano al centro di uno dei più famosi sketch del Saturday Night Live e visto da milioni di utenti di Youtube ? Sì, se ti chiami Blue Oyster Cult.
Il tendone era bianco, riflettente all’esterno e immenso, visto dall’interno. Non che non avessi mai visto un tendone in precedenza, ma era il luogo, non particolarmente ampio, a farlo sembrare fuori misura. Per terra una moquette rossa a coprire pecche e dossi di un terreno non perfettamente pianeggiante e rendere il tutto più accogliente. Su due terzi del tendone una lunga fila di tavoli era coperta da cibo e beveraggi di ogni genere; il resto era attrezzato a tavolini e sedie in plastica. Al centro uno spazio a disimpegno tra chi andava a cibarsi e chi faceva la fila ordinatamente.
Visibilmente non eravamo in Italia, dove la regola del buffet è quella del più veloce e del più furbo. Tre tavoli erano a disposizione di tre diversi musicisti che si sarebbero esibiti poco più tardi; in uno Allan Lanier chiacchierava a gambe accavallate, allampanato, rilassato, con un paio di tizi. Un paio di metri più in là Donald Roeser, detto Buck Dharma, pareva arrampicato sulla sedia e più vicino a me un tizio con un cesto di capelli ricci, una maglietta nera con maniche bianche addosso e seminascosto dietro un paio di Ray-ban a specchio, aveva quasi terminato la sua chiacchierata con due giovanotti muniti di registratori. Un altro paio di tizi in piedi, vestiti ed atteggiati a stewart, gestivano il traffico. “Mr Bloom preferisce parlare con non più di due giornalisti per volta e, se possibile, provenienti dal medesimo paese…”. Io ero l’unico italiano lì dentro, escludendo quelli del mio gruppo. Feci cenno di sì con il capo : era lui la mia scelta tra le tre possibilità. Fuori rimbombavano forte, troppo forte per il mio inglese di allora, le prove per il primo gruppo del pomeriggio. Era il 22 di agosto, anno di grazia 1981 ed eravamo piazzati alla base di una collinetta davanti alla quale, come in un anfiteatro naturale, grosso modo settantamila persone si stavano stipando.
Lontano si notava una sorta di arco che attraversava come un arcobaleno ricurvo la pista di Castle Donington prevalentemente utilizzata per le moto, una riproduzione di un pneumatico. Sopra c’era la scritta “Dunlop”.
Eravamo entrati grazie a notevoli facce da culo, espressioni di una creatività tipicamente italiana – i giornali per cui collaboravo non chiedevano accrediti per i collaboratori, sarebbe stato troppo professionale : in modo molto cialtrone ti davano qualche foglio di carta intestata e dovevi fare tutto da solo – e grazie anche alle mille cortesie di un tal Daniel, un mellifluo promotore inglese della Warner che ci aveva appiccicato addosso dei badge e che ci aveva raccomandato, lisciandoli nell’abbandonarli sulle nostre magliette in modo sospetto, di non separarci mai da loro.
I Blue Oyster Cult di Eric Bloom non erano l’attrazione principale di quell’anno, ma “gli ospiti speciali dall’America” e per me che ero impazzito anni prima, per mesi, per trovare un loro doppio album al tempo recuperabile inizialmente solo di importazione giapponese, lo erano per certo. Lo era in particolare quel tizio con gli occhiali di cui apprezzavo le doti vocali e di compositore – le virtù tecniche stavano altrove – e la curiosità di parlare con il portavoce di un quintetto che giudicavo, e giudico tutt’ora, uno dei due o tre gruppi hard rock fondamentali della scena statunitense degli anni settanta, era bruciante. Almeno tanto quanto l’emozione di dover sperare di indovinare io le parole giuste nella sua lingua e di comprenderne tutte le sue. Per questo mi ero munito di un piccolo portatile Sony che è stato da allora e per molto tempo, un mio compagno inseparabile.
Mi vergognavo a mostrare il lato “fanatico” del mio apprezzamento, quindi cercavo di muovermi con un minimo di distacco e professionalità almeno apparente. Mi misi a sedere con un paio di amici fotografi che stavano con me quel giorno ma che non mancarono di non abbandonarmi in quel momento, dimenticando il buffet, Luca Silvestri e Piergiorgio PG Brunelli ; entrambi avrebbero avuto una parte in quello che avrebbe rappresentato lo sviluppo di quella giornata. Un quarto, assolutamente digiuno della lingua e della musica, se ne stava di lato, in piedi come un cameriere. Un amico, imbucato, che la carta intestata aveva fatto passare per un collaboratore di quel mensile cui era già destinata la chiacchierata. Uno dei due fotografi, credo Luca, si alzò quasi immediatamente per andare a fotografare…boh? Chi se lo ricorda ? Qualcuno che pareva però essenziale per lui. L’altro restò un tempo minimo prima di gettarsi, pure lui, nel recinto dei fotografi. PG ebbe poi la fortuna di attendere quel tanto che gli permise di riprendere Bloom che saltava a piè pari su un riconoscimento donato dalla casa discografica, alla fine di un concerto che lo aveva fatto incazzare come un orso. Credo che quello scatto fece epoca. Ma quello avvenne più tardi
Ma torniamo nel tendone. Rimasi solo…con il cameriere…a parlare con Bloom che stava in avanti, piegato sulle ginocchia, per comunicare in sicurezza nonostante il rimbombo della musica. Il muro di suono che le pareti del tendone non fermavano certo, evidentemente dava fastidio pure a lui.
A ventisei anni avevo a pochi centimetri uno dei miei miti di gioventù : un soggetto che aveva partorito all’inizio dei settanta una trilogia di album bellissimi, dalle copertine ben poco attraenti ma intriganti e volutamente ambigue; uno che viveva in quella New York dalla puzza al naso e che era già partita alla ricerca di un suono che la distinguesse dal resto del rozzo paese ancora ubriaco della stagione di quel flower power che proprio loro sembravano nati per far concludere definitivamente. Questo solo un attimo prima che il punk facesse della Città che non dorme mai la Mecca di un suono scarno che la parte culturale della Città non amò mai e di cui fu felice di sbarazzarsi velocemente. Bloom e soci avevano elaborato un rock così aggressivo e raffinato, da attirare le curiosità di tal Sandy Pearlman, un giornalista, produttore, poeta e scrittore di fantascienza e a tempo perso dirigente di casa discografica. Pearlman – che negli anni produsse e venne coinvolto nelle avventure di Clash, Dictators, Aldo Nova, Black Sabbath e Pavlov’s Dog – in èra immediatamente post-figli dei fiori aveva deciso di affidare il compito di musicare una serie di racconti che aveva intitolato “Imaginos” a un gruppo che lui stesso aveva scelto di chiamare Soft White Underbelly, un nome che aveva rubacchiato addirittura a Winston Churchill che l’aveva utilizzato per descrivere la povera Italia del dopoguerra.
Quando a cavallo dei settanta le band inglesi esplosero anche in America, Pearlman pensò di fare di quel gruppo la risposta statunitense a quei Black Sabbath di cui più tardi sarebbe stato manager. Senza rendersi forse del tutto conto che si trovava su presupposti decisamente diversi. I testi futuribili, fantascientifici, non comuni, erano lontani dalle radici blues e e dai continui riferimenti all’occulto dei Sabbath, tutt’altra scuola, ma sopra ogni cosa erano le composizioni, non l’assalto frontale del riff di chitarra, a renderli “tutta un’altra cosa”…Pearlman, personaggio controverso, incontenibile, all’avanguardia, elaborò da una serie di suoi racconti, non solo le basi per alcuni testi del gruppo, ma anche il nome definitivo che volle imporre modificando l’originale, Blue Oyster Cult, appunto, e gli appiccicò addosso, usandolo per primo così come narra la leggenda, l’epiteto di “heavy metal”, una descrizione minimale derivante da un racconto di William Burroughs, “The soft machine”, dove un personaggio era definito “il ragazzino di metallo pesante”… heavy metal kid.
Sandy Pearlman aveva utilizzato per primo la definizione per descrivere il suono chitarristico jingle-jangle dei Byrds, solo qualche anno prima. Ma la definizione era caduta nell’oblio. Ma i critici più attenti, sempre affamati di etichette, si appropriarono immediatamente del termine per descrivere il nuovo suono rock, appesantito da chitarre distorte e batterie in primo piano che proveniva dalla madrepatria Inghilterra, appiccicandolo addosso a Led Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple e poi ai locali Blue Cheer, Mountain, Iron Butterfly…
Buffo pensare oggi a tutti questi nomi come heavy metal bands, tanto ne è mutata a definizione in modo ridicolo, visti i suoni opprimenti e insopportabili, per me, che ci aggrediscono oggi, ma ancor più imbarazzante constatare che il suono che con sufficienza da una parte della critica “nobile” viene descritto come il prodotto di soggetti ipodotati, come la quintessenza della rozzezza e la prova di uno spirito dozzinale, l’heavy metal appunto, abbia matrici nobili come Burroughs e contenuti ancor più nobili per riferimenti a stimati scrittori di fiction.
Quanti danni l’ignoranza e la superficialità nel giudizio di chi, semplicemente, apprezzava altro e avrebbe potuto limitarsi a quello evitando giudizi affrettati invece di dedicarsi a campagne denigratorie nel nostro paese, non potranno mai essere quantificati. Possiamo dire oggi di aver avuto la peggior generazione di critica specializzata come maestra. Se non è corretto giudicare un libro dalla copertina, loro hanno giudicato la musica dalla copertina, condizionando nei settanta, la formazione di un gusto musicale di un popolo, il nostro, che ha sempre vissuto il fenomeno rock come da un altro pianeta… ma torniamo a noi.
Per lanciare il gruppo Pearlman convinse la CBS a distribuire un volantino senza immagini dei componenti, con il solo simbolo del gruppo presente e con una frase che era un programma : “Their songs are fantasy distillation of reality”…la loro canzoni sono distillazione fantastica della realtà. Alla faccia della rozzezza del metallo pesante !
Dall’altra parte del mondo gli Zeppelin scoprivano i piaceri della campagna di Bron-Y-aur, i Sabbath scavavano nelle cadenze rallentate di Masters of Reality facendo scivolare basso e chitarra sui medesimi accordi un’ottava più bassa, i Purple cantavano di Zappa che aveva rischiato di bruciare dentro al casinò di Montreaux e il Culto dell’Ostrica Blu sceglieva per sé un simbolo che era l’insieme di riferimenti alla mitologia greca e romana : il logo, composto da croce e gancio, simbolo di Crono, re dei Titani e padre di Zeus per i greci e simbolo di Saturno, dio della fertilità per i latini.
Simbolo con riferimenti nazisti per gli imbecilli che nelle piramidi bianconere della copertina di Tyranny and mutation e, sopra ogni cosa, nella copertina del terzo album, Secret Treaties, vollero vedere una iconografia visibilmente filonazista a ogni costo. Aggiungete allo scenario un brano che si intitola The Red and The Black e la frittata è fatta…Gli italiani, in questa corsa all’idiozia, si distinsero su tutti. Siamo famosi, noi, a non sapere mai una beata minchia di niente ma a insegnarla a tutti, con prosopopea. Qualsiasi riferimento a Ciao 2001 o al delirio militante antifascista e ignorante del Muzak di Giaime Pintor non è casuale.
Per questo quando dissi a Bloom che ero italiano lo vidi un po’ meno rilassato di quello che mi pareva solo un attimo prima. Fuori imperversavano già sul palco i Blackfoot ed io, timidamente, chiedevo informazioni su Michael Moorcock, uno scrittore inglese di fantascienza che aveva a lungo collaborato con gli Hawkwind e che al tempo bazzicava il gruppo, gli chiedevo di Patti Smith, collaboratrice ai testi nei primi album (“…lo devi chiedere a quello lì – mi rispose indicando Allan Lanier prima di rispondermi ampiamente – era lui che ci andava a letto!”), gli chiedevo della passione per la fantascienza e dei riferimenti colti che affioravano ovunque nei loro testi ma che non sempre erano chiari per noi – non dimenticate che il web sarebbe arrivato decenni dopo – prima di toccare con deferenza ed educazione il perché non fosse mai stata chiarita l’ambiguità del logo.
Ecco, se avessi voluto far tagliar corto una chiacchierata fino a quel momento distesa e piacevole, non avrei potuto trovare argomento più definitivo. “Cazzo, ma è o non è il 1981 anche in Europa? Non avete sufficienti giornali che vi hanno spiegato che si tratta di un simbolo della vostra mitologia ? Che non esiste alcun riferimento politico nel logo ?”. E si girò a indicare un enorme manifesto che copriva un lato del tendone. Dissi velocemente che sì, certamente, lo si era letto nei giornali anglosassoni ma che non tutti avevano avuto la possibilità di approfondire…col cacchio che mi volevo prendere le colpe dei creatori di cazzate in delirio pseudopolitico… e che sarebbe stato interessante leggere la versione completa su un giornale specializzato italiano. E che comunque l’impressione che avevamo avuto da lontano era stata che Pearlman, da furbacchione, almeno agli inizi, avesse giocato un pochino su questa ambiguità… no ?
Fu così che riuscii a terminare la chiacchierata ottenendo per la prima volta quella spiegazione che se fosse stato per la critica di allora non avrei mai avuto. Anzi : se avessi dovuto dar retta alle loro considerazioni su quei primi dischi, non mi sarei neppure mai dovuto avvicinare al Culto…certo che se solo avessi saputo cosa sarebbe accaduto da lì a un’ora, avrei evitato di fare tante altre piccole cose.
Ma in testa avevo solo il mio primo concerto dei Blue Oyster Cult, per di più da seguire direttamente su un lato del palco, il sinistro, appollaiato su una specie di tribunetta da cui vedere da una distanza minima lo spettacolo ascoltandolo direttamente dai monitor degli strumenti… erano già passati i More, Blackfoot, Slade e poco stavo pensando a Whitesnake e AC/DC che sarebbero seguiti. Davanti a me avevo i cinque soggetti che avevano preso la lezione dei Cream, degli Zeppelin, delle grandi rock band inglesi e l’avevano fatta propria. A loro era stato sufficiente che fosse stata loro indicata la strada, il resto era venuto grazie a un incredibile senso della composizione, a un profumo ed un gusto completamente diverso da tutto quanto si trovava in circolazione, a una maestria nell’uso dei propri strumenti rara e non certo mutuata da marchingegni di studio. Uno di quei gruppi che nascono una volta ogni venti, trent’anni. Bravi, originali, melodici e cattivi, semplicemente perfetti. Perché in fondo la differenza tra un grande gruppo ed uno buono, sta tutto nella qualità dei pezzi ed i BOC ne hanno sfornati a dozzine, influenzando mille band anche e specialmente non del settore.
Due cose mi piace ricordare. Di quanti gruppi, talvolta inaspettatamente, mi abbiamo indicato, negli anni, i newyorkesi come loro maggiore influenza e quanto bene, di cuore, spontaneamente e con immenso rispetto mi abbia parlato di loro Patti Smith che con nostalgia raccontò di come, in un’epoca in cui pareva importante solo emergere facendosi notare per eccessi e stravaganze, i Blue Oyster Cult spiccassero sopra molti solo grazie alla qualità della loro musica e delle loro canzoni. Alla professionalità. Che poi, a ben vedere, è un ragionamento che, letto al contrario, potrebbe spiegare il fatto che gruppi come gli Aerosmith, a mio parere inferiori da un punto di vista esecutivo e spesso creativo, siano stati e siano tutt’ora immensamente più popolari, grazie proprio alla esplosiva immagine del miglior clone di Mick Jagger, Steven Tyler, e laddove i BOC siano rimasti un gruppo sostanzialmente di culto, con un potenziale commerciale fermo al palo e una immagine apprezzata solo da un pubblico maschile e sostanzialmente maturo. E tutti sappiamo bene che senza ragazzine e ragazzini si va, commercialmente parlando, poco lontano.
Facendo un passo indietro, avevo appena terminato di ascoltare uno sfogo personale di Bloom verso Albert Bouchard, batterista che li aveva mollati nel corso del tour “per colpa della sua Yoko Ono…quella troietta ...” che li aveva costretti a piazzare un roadie al suo posto, Rick Downey, che stavo già arrampicandomi su una scoscesa scaletta che conduceva al palchetto dove avrei seguito il concerto. Con me quel giovanotto italiano che si era aggregato e che si trascinava dietro un borsone affidatogli da Piergiorgio. Io avevo con me il mio piccolo Sony, e la borsa di Luca.
La vista del gruppo e di una collina brulicante di migliaia di ragazzi era una immagine indimenticabile; un po’ come essere sul palco di Woodstock, emozionante. La stessa emozione che doveva provare Downey, visto che quello era il suo debutto. Osservavo il pubblico, uno spettacolo nello spettacolo, ondeggiare e lamentarsi di un suono imperfetto di cui chi stava dietro l’amplificazione, noi inclusi, non era in condizione di capire. Ricordo che mi voltai verso l’amico aggregato proprio nel momento in cui due della sicurezza lo avevano preso di peso e lo portavano via. Si erano accorti che aveva in mano una grossa “banana”, un microfono vistoso collegato a un registratore infilato nella borsa affidatagli dal famoso fotografo.
Il tipo non parlava una sola parola di inglese e mentre lo trascinavano malamente giù per le scalette, ebbe l’illuminazione di indicarmi come per chiedere aiuto. Un gesto che venne interpretato come condivisione di colpa. Ricordo solo che un terzo tipo salì a frugare nella mia borsa e trovato il Sony, mi spinse giù dalle scalette. Intorno a noi, Roadhouse Blues, il bis del gruppo. Pensando a riuscire a scendere senza ammazzarmi, lo assecondai. Adesso spiegherò tutto, pensavo, non era quello il luogo per dare spiegazioni complicate, ero tranquillo. Avrei fatto chiamare questo Daniel della Warner e avremmo chiarito il tutto. Arrivato un tizio, uno della sicurezza che pareva avere maggior voce in capitolo, gli parlò nell’orecchio e questo, prima che potessi dare una qualsiasi giustificazione mi sequestrò le due cassette vergini, le pile e quella con l’intervista a Bloom, nonostante le mie insistenze per verificarne il contenuto. Daniel, molto femminile e garbato, si avvicinò e mi disse : “Mi spiace Mr Trombetti, ve ne dovete andare.”. Fece un cenno a una specie di mutante vestito in cuoio, un biker che mi sovrastava di almeno un palmo ed io sono oltre i 185cm… con le spalle come due ante di armadio. Ci strappò il badge con la medesima cura con cui si leva una zecca a un cane, afferrò l’aggregato come si prende un gatto sotto braccio per portarlo fuori di casa, prese me per il bavero e mi mise sulle spalle come fossi uno zaino. Non fui neppure in condizione di dire una parola al femmineo Daniel.
Passeggiando tranquillamente con noi due addosso, prese un viottolo lungo almeno un paio di centinaia di metri ma che a me parvero, sulle sue spalle e paiono tutt’oggi al ricordo, due chilometri. Ci portò esattamente in fondo a uno dei due lati della folla, ultimi di settantamila, lato sinistro. Gli Whitesnake avevano già iniziato a suonare e in quel momento imbarazzante mi accorsi che il suono era tornato magicamente perfetto; in quello stesso momento, Bloom e soci sfogavano davanti alla macchina fotografica di Piergiorgio la loro incazzatura per il boicottaggio sonoro saltando a piè pari su un paio di targhe commemorative regalate da promoter o discografici. Me lo raccontarono in seguito, visto che ero da tutt’altra parte, noi eravamo in fondo ai settantamila, ma ancora al di qua di una sorta di staccionata per cavalli, una recinzione in legno alta almeno un metro e mezzo. Vidi volare l’aggregato come un borsone ed il borsone seguirlo in sequenza. Quando toccò a me la mia stazza ed il peso impedirono il “lancio del Trombetti”, così mi presi il più forte e doloroso calcio nel culo della mia vita, concesso da uno stivalone da motociclista del 45 ma che a me parve del 55 e che mi fece alzare, letteralmente, da terra volando quasi dall’altra parte. Non fui in grado di sedermi per due giorni.
Con il culo dolorante, incazzato come una pantera, senza più la cassetta dell’intervista, con il demente aggregato che farfugliava scuse incomprensibili e con la necessità assoluta di recuperare il resto della nostra roba rimasta sul palco, certo di avere metà del mio culo inutilizzabile per il resto della mia vita, iniziai a risalire la marea dei settantamila… come fosse una cosa semplice.
Mi ci volle tutto il concerto degli Whitesnake per farlo, le maree umane non si spostano neppure davanti a Mosè, e ricordo che mi fermai solo all’inizio dello spettacolo finale per memorizzare, almeno, la campana degli AC/DC che scendeva sul palco rintoccando l’entrata del gruppo più importante di quell’anno. Credo che fossero al terzo o quarto pezzo quando arrivai alla cancellata che permetteva ai fotografi di far su e giù per svolgere il loro preziosissimo lavoro. Urlavo come un ossesso ma nessuno dei due ignari compari poteva sentirmi. Uno fotografava con i tappi nelle orecchie e l’altro troppo lontano. Così mi feci coraggio e chiesi alle prime file di chiamarmi quello della security più vicino, uno che ci dava le spalle. Dopo qualche minuto un’anima pia lo fece.
Il tipo che si girò era il mostro di cuoio che ci aveva appena quasi massacrato e che vedendo che mi sbracciavo al suo indirizzo, saltò la cancellata e iniziò a venirmi incontro. Ci misi un attimo a tornare in fondo ai settantamila e parte delle mie cose e di quelle affidatemi rimasero sul palco di Castle Donington.
Non ero incazzato : ero furibondo. Con l’imbecille aggregato non parlante inglese, con chi gli aveva chiesto di registrare il concerto con un microfono grosso come un cocomero, con quel Daniel che non aveva neppure provato a sentire le mie ragioni, con quel gigante di cuoio che se solo fosse stato colpito da una delle maledizioni che gli avevo mandato sarebbe stato trovato incenerito sul sellino della sua moto, con il consolato italiano che non mi avrebbe risposto al telefono il giorno successivo, con il mondo intero.
Una settimana dopo eravamo a Reading e se la rabbia non si era ancora sopita, il culo era ancora dolorante. Quando vidi il mio amico Daniel entrare nella piccola tenda della Warner capii cosa prova un toro quando gli si sventola un drappo rosso davanti alle corna. Presi bruscamente sottobraccio la moglie…o la compagna chissenefrega.. di Bob Harris, un famoso DJ della BBC che faceva da padrone di casa tra un concerto e l’altro, sapendo che lei era italiana. Le dissi seccamente : “Il perché te lo spiegherò più tardi, adesso voglio che tu traduca letteralmente, parola per parola, parolacce incluse, quello che ho da dire a quel tipo e voglio che lo faccia tu perché non voglio che vada perduta una sola sfumatura nella traduzione a causa della mia incazzatura !”.
Ricordo solo che gli suggerii di non varcare mai la frontiera italiana in vita perché quello sarebbe stato nei secoli, per lui, territorio Apache e non sapevo come e non sapevo perché mai io lo avrei saputo e in quel momento gli avrei sguinzagliato dietro i mastini, pagato due sicari per fargli un servizio che non avrebbe dimenticato, anche se magari gradito in altre occasioni ma non in quella e che sarei poi andato personalmente a sezionarne il cadavere prima di bruciarlo. Tutto questo perché la sua incommensurabile, isterica, testa di cazzo non gli aveva permesso di ascoltare una sola parola, facendomi perdere un gran concerto, fatto dormire su un lato per due settimane, fatto perdere occhiali, magliette e borsa. Spesso la signora Harris mi diceva “no, questo non posso tradurlo!”, ma alla terza bestemmia finiva per farlo, seppur rossa come un peperone. E ricordo che Daniel Ur… questa l’iniziale del cognome, mi prese molto sul serio, dato che nei due giorni successivi del festival sparì dalla circolazione. Ricordo anche il tono curiale al telefono al mio ritorno, di un responsabile di quel mensile dove le mie memorie di quella chiacchierata finirono, gratuitamente, che mi chiese se avessi avuto problemi con la Warner dato che avevano ricevuto una lettera di biasimo nei miei confronti. Lettera che credo sia ancora in qualche cassetto a imperituro ricordo di quella giornata.
Ma una cosa la ricordo bene : che la copia di quell’audio che non venne sequestrato, le mie cassette sì, quella del concerto no, perché l’aggregato era scemo ma italiano e se l’era infilata immediatamente nelle mutande…in cambio di una sola copia del disco, la donai a un amico molto noto nel milanese, zona Porta Romana, per farne un bootleg che lui chiamò Still Kicking ma che io avrei voluto chiamare Fuck You Daniel. Una seppur piccola vendetta personale consumata.
E oggi ? Oggi siamo nell’era del web. Oggi tutto vola nel giro di un attimo in tutti gli angoli del mondo. Un tempo ci volevano raccomandate espresso e sette giorni per consegnare i testi di un articolo, oggi basta un click. Oggi chi vuole può annusare estratti del Mito dei Blue Oyster Cult un po’ ovunque, può persino trovare scampoli inediti di esibizioni spettacolari, con versioni killer di classici del gruppo…quelle di quel giorno incluse. E oggi, nell’era del web è possibile anche digitare il nome di quel Daniel e trovarlo al primo colpo su facebook, è così fesso da mettere informazioni personali tali da renderlo riconoscibilissimo… ed è possibile rimuginare, limare, perfezionare quelle poche, ma per lui essenziali, righe che vorrei mandargli ancora oggi, quarant’anni dopo, per ricordargli che il sedere ancora brucia e che se pensava che la fatwa potesse essere decaduta, si sbagliava. Lo aspetto ancora per rompergli il… No : la testa.
(Articolo le cui basi sono state originariamente pubblicate su Outsider, mensile, nel febbraio del 2014)
DISCOGRAFIA
GLI IMPERDIBILI
“BLUE OYSTER CULT” (1972)
E’ il debutto pubblicato all’alba del 1972 e nonostante una copertina ben poco attraente da un punto di vista di marketing, mostra un gruppo già assolutamente maturo dal lato compositivo e tecnico, sicuramente uno dei debutti migliori del rock statunitense. Un Lester Bangs non sempre a suo agio con il rock…anzi , decisamente poco a suo agio con il rock, scriveva che “con un po’ di fortuna dovrebbero restare in giro almeno per un po’…” e per uno che aveva appena definito gli Zeppelin “come i Cream, però peggio”, è una eccellente recensione. Il rock dei BOC non compete né con i Cream né con gli Zeppelin anche se la solita critica miope non trovava ai tempi altri riferimenti; in realtà il suono è già orientato ad un hard rock pieno di senso della melodia, “adulto” e intelligente, che poco deve al blues come i gruppi appena citati, ma estremamente ben interpretato e e arrangiato come da scafati professionisti. Se un raffronto dovesse per forza essere fatto, un paio di riff fanno riferimento ai Sabbath, ma l’abisso della estensione vocale tra Bloom e Ozzy rende inutile il confronto. Tutto l’album, nonostante la produzione risenta dei 48 anni trascorsi e dalla compressione dei brani in minutaggi limitati – dal vivo era un’altra storia – è godibile, brano dopo brano, con la preferenza per l’apertura di Transmaniacon MC, I’m on the lamb, poi ripresa e resa più pesante nel secondo disco e la intrigante Then came the last days of may, storia vera di un duplice omicidio che affiora tra i testi e divenuta una cavalcata epica con il bellissimo solo di Roeser dal vivo.
“TYRANNY AND MUTATION” (1973)
Esce esattamente un anno dopo, ed è un luminoso esempio di…heavy rock intelligente…nel senso che se ascoltato da chi guarda con schifo al rock duro, quelli che giudicano senza ascoltare, farebbe cambiare idea a tutti. Patti Smith, donna di Lanier ai tempi, fa il suo esordio con i testi e i controcanti di Baby Ice Dog. E mentre per la prima volta i BOC vengono etichettati heavy metal, pensare al suono di quello che oggi viene chiamato metal e confrontarlo con quello pulito del disco, fa davvero impressione. I tempi cambiano… The Red and the Black dona spunti ai critici che non parlano inglese e che credono di capire chissà cosa… il rosso ed il nero… da testi che parlano della polizia a cavallo canadese… da segnalare 7 Screaming Diz-busters, O.D.’d on life itself, Hot Rails to Hell… un gran disco !
“SECRET TREATIES” (1974)
Completa la trilogia. Votato “il miglior disco di hard rock di tutti i tempi” da un gruppo di critici del Melody Maker, è in seguito etichettato come il più grande dei “proto-metal” album di sempre…tanto per inventarsi una nuova etichetta… vedete voi come chiamarlo…Secret Treaties è forse il disco per eccellenza, un diamante non perfettamente levigato che soffrirà solo, alla lunga, del gioco a doppio senso voluto e cercato dal manager Pearlman sull’immagine di copertina e sul logo. Con il senno di poi, si sarebbe dovuto cambiare già in quel momento una immagine giocata sul troppo mistero, notoriamente poco amata in America. L’assoluta mancanza di appeal dei cinque fermerà la popolarità del gruppo cristallizzandolo come gruppo di culto per antonomasia. Otto pezzi immortali su cui spicca quella Astronomy i cui testi sono estratti dalla novella di Pearlman che parla di alieni chiamati Les Invisibles e che gestiscono la vita di una sorta di androide chiamato Imaginos, appunto, o anche Desdinova, imponendogli ruoli chiave nella Storia e che lo porteranno a causare la prima guerra mondiale. Un concetto che diverrà la vicenda centrale di un intero disco che uscirà quattordici anni dopo. Ma l’intero album contiene tutti i brani che diverranno i punti di forza delle esibizioni dal vivo. Imperdibile.
“ON YOUR FEET OR ON YOUR KNEES” (1975)
E’ la colonna sonora della consacrazione immortalata su un palcoscenico. Originariamente pensato per il solo mercato giapponese (come l’omologo Twin Peaks dei Mountain) divenne immediatamente uno dei dischi più ambiti e amati dai rocker di tutto il mondo. Nonostante un suono soffocato, chiuso, a causa di una produzione che forse tendeva a renderne ancor più truce e oscuro l’impatto, il doppio è uno dei dieci dischi dal vivo da possedere assolutamente per qualsiasi fan dell’hard rock. Roeser si conferma come solista di grande gusto e inventiva pur on assumendo il ruolo di rockstar per una altezza fisica scarsina e una presenza ben poco esuberante. Bloom ha una gran voce ma resta bruttino e nessuna teenager è disposta a passarci sopra.
“SOME ENCHANTED EVENING” (1978)
E’ il secondo live del gruppo e forse il loro più grande successo discografico. Dopo una coppia di uscite discutibili, questo live riporta altissima la tensione ricordando che è quella su un palco la vera dimensione dei BOC. Al di là di un paio di cover di buona fattura, We Gotta Get Out Of This Place degli Animals e Kick Out The Jams , l’inno degli MC5, tutto il disco è un capolavoro di forza e potenza, altare a un suono limpido, mai fuori controllo. Il fatto di essere un disco singolo verrà molti anni dopo mitigato da una uscita ben rinforzata da brani aggiuntivi e da un dvd che li mostra all’apice. E che è quello che consigliamo di cercare.
“IMAGINOS” (1988)
Dopo una serie di uscite superflue e di dischi incompleti, il gruppo ha un guizzo. Imaginos riprende e completa l’originale racconto di Pearlman facendone un concept album di assoluto rilievo. Un’opera rock che la leggenda vuole in gestazione per ben otto anni e che avrebbe dovuto far parte di una trilogia di album doppi interamente dedicata alla vicenda di Desdinova, l’androide/alieno e che avrebbe dovuto attraversare duecento anni di storia, dall’inizio del diciannovesimo secolo ai nostri giorni. Mitologia, fantascienza, occultismo…la trama si snoda al limite della comprensione anche per i mille tagli che la vicenda subisce per essere compressa dentro un solo disco che viene attribuito all’intero gruppo laddove i principali autori e gestori delle registrazioni sono Pearlman e il licenziato Albert Bouchard. Con la presenza di ospiti speciali quali Joe Satriani, Robbie Krieger, Aldo Nova, Kenny Aaronson e altri, il solo racconto dello sviluppo di Imaginos meriterebbe un articolo a se stante. Disco che merita attenzione e approfondimento.
“A LONG DAY’S NIGHT” (2002)
Disco e dvd dal vivo che mostra come la forma espressiva e tecnica dei BOC sia intatta a trent’anni dall’esordio, pur a fronte di un periodo di assoluta mancanza di nuove composizioni e di un aspetto oramai da reduci del rock and roll. Chiudendo gli occhi le versioni del 2002 di brani originali sono di una bellezza ed una liricità stupefacente. The Last Days Of May diventa la loro Comfortably Numb, con un assolo di Roeser da incorniciare. Mai il gruppo si è trovato così distante da un punto di vista estetico dalla qualità della musica prodotta. Ultimo disco a essere pubblicato, i BOC rimangono vivi grazie alla attività concertistica, nonostante la morte di Allan Lanier, malato da tempo.
VALGONO L’ACQUISTO
“AGENTS OF FORTUNE” (1976)
Molti fan del gruppo lo considerano un ottimo disco; purtroppo con il migliorare del suono e della produzione, con l’affinarsi della padronanza di studio, corrisponde a mio parere anche un allentamento della tensione. D’accordo : questo è il disco del più grande hit single dei BOC, Don’t Fear The Reaper e contiene l’eccellente E.T.I. , ma le vette compositive dei primi dischi restano un paio di spanne al di sopra. Forse perché Albert Bouchard, batterista e cantante in alcun brani, si prende la fetta maggiore delle composizioni, precedentemente scritte a quattro o cinque mani. La Smith, a un passo dalla rottura con Lanier , collabora più che attivamente ai testi, Buono, nel complesso.
“SPECTRES” (1977)
Continua la linea di rock melodico ben confezionato inaugurato dal precedente disco. La ricerca del consenso, forse condiziona la strada. I testi lirici, sognanti, e fantascientifici lasciano sempre più spazio a canzoni di stampo più classico che potrebbero figurare anche in dischi di altri colleghi; appare sempre più tangibile la speranza comprensibile di riuscire a scalare qualche classifica. Ci sono le robuste Godzilla, RU ready 2 Rock e Nosferatu a tener alta la tensione, ma siamo in fase calante. Bel disco per essere nel 1977, ma difficile compararlo con i precedenti. Ian Hunter fa capolino come co-autore in un brano.
“CULTOSAURUS ERECTUS” (1980)
Settimo disco di studio, successivo al fiasco di Mirrors, ha il pregio di riportare il gruppo a un suono se non simile, quanto più prossimo ai primi album. E’ Martin Birch che compie il piccolo miracolo. Meriterebbe di stare tra gli imperdibili se solo la qualità media dei pezzi fosse comparabile agli inizi. Black Blade, scritta da Moorcock e The Marshall Plan non bastano da sole. Buono, non eccellente.
“FIRE OF UNKNOWN ORIGIN” (1981)
Ha tutte le caratteristiche per poter essere inserito tra gli imperdibili ma a causa della ricerca spasmodica di un hit single, decidiamo di penalizzarlo. Burning For You banalizza il suono e Joan Crawford ne ridicolizza i testi, in genere sempre spiazzanti. Grazie a Veteran of The Psychic Wars , una indimenticabile cavalcata sonora impreziosita dal racconto di Michael Moorcock, il disco fa evitare qualsiasi dubbio sull’acquisto, da sola lo vale tutto. Patti Smith, parzialmente rappacificatasi con Lanier, torna a collaborare ai testi.
“EXTRATERRESTRIAL LIVE” (1982)
I BOC hanno in comune con i Rush la scelta di chiudere i propri cicli compositivi con album live che mettono un punto fermo nella produzione. Questo doppio chiude il terzo ciclo del gruppo, contiene per la prima volta il nuovo batterista e pur essendo un gran bel disco dal vivo, con una bella copertina ed una buona produzione, soffre dell’inevitabile paragone con i due predecessori., anni luce più esaltanti. Certo che la versione dal vivo di Veteran è in grado di togliere il sonno a centinaia di arzilli ragazzini con il mito del rocker stampato in fronte !
“CULT CLASSICS” (2001)
E’ a tutti gli effetti una raccolta di materiale già pubblicato ma interamente eseguito ex novo. Una raccolta di classici che si è costretti a confrontare con gli originali per trarne un giudizio. Interessante anche se si tratta di una operazione da “disperata speranza di restare sul mercato” il giudizio è obbligatoriamente viziato dalla scelta di far uscire il medesimo disco in due altre occasioni con differenti copertine e titoli (Champions of rock e ETI revisited) ma identico contenuto.
DA EVITARE
“MIRRORS” (1979)
Con il 1979 e Mirrors si chiude l’era di Sandy Pearlman e Murray Krugman, binomio inscindibile con i BOC per sette anni; l’impressione è quella dei topi che abbandonano la nave. Si apre quella si Michael Moorcock, scrittore di fantascienza che regala la sua prima perla al gruppo, quella di The Great Sun Jester che rappresenta l’unico picco di un disco altrimenti deludente. La produzione di Tom Werman (Motley Crue, Molly Hatchet, Twisted Sister, ecc) tesa al salto nei quartieri alti di Billboard fa acqua da tutte le parti. Dimentichiamocelo.
“THE REVOLUTION BY NIGHT” (1983)
Nono album di studio ed entrata nel tunnel per un gruppo che perde forza compositiva, coraggio, stile. Un gruppo come tanti, senza guizzi e con la imbarazzante ricerca di un singolo fortunato. Qui ci si prova con Take Me Away e che dovrebbe far capire che le classifiche non sono nelle corde della band. Un disco da dimenticare, nonostante il ritorno di Pearlmen ai testi e l’aiuto di Aldo Nova, Patti Smith, Ian Hunter, oltre al critico Richard Meltzer… una task force inutile.
“CLUB NINJA” (1985)
…imbarazzante. Un disco inascoltabile se solo non fosse marcato BOC. Torna in pianta stabile Pearlman, ma le minestre riscaldate…a meno che non sia la ribollita di cavolo nero toscana…non funzionano mai. Scansatelo accuratamente.
“HEAVEN FORBID” (1998) “CURSE OF THE HIDDEN MIRROR” (2001)
Si raschia il fondo del barile. Persa la vena compositiva (a questo punto dovremmo rivalutare la presenza del disprezzato Albert Bouchard) i BOC si impegnano a scrivere “seguiti” alle proprie canzoni, affidandosi anche al uno scrittore di cyberpunk ai testi John Shirley. Dimentichiamoci di entrambi. Ricordiamo i Blue Oyster Cult per quello che erano e andiamoceli a vedere dal vivo, dove hanno ancora una stilla vitale.
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diverrtentissimo il racconto e granndissimi i Blue Oyster Cult., una band immensa e spesso sottovalutata. Hanno avuto un impatto sulla cultura e sulla letteratura heavy metal incommensurabile. Li vidi per la prima volta a Torino nel 1986 ma erano già in calo purtroppo.
Anch’io 40 anni dopo lo trovo divertente. Per vent’anni l’ho pensata diversamente.
Caro Giancarlo, ricordo ancora, se la memoria non mi tradisce, una tua lunga ed interessante intervista a Bloom, pubblicata su Rockerilla, qualche giorno prima di Donington quando si esibirono a Londra sotto il monicker SWU. Perfettamente allineato con i tuoi giudizi riguardo alla loro discografia: forse da inguaribile integralista dei seventies avrei aggiunto ” Agents” e “Spectres” tra gli imperdibili e retrocesso, di poco, “Imaginos” fermo restando che la loro summa resta, a mio avviso, “Some Enchanted Evening” il cui unico “neo”, come anche Cheap Trick at Budokan, è l’esser stato “solo” un LP singolo(anche se poi registrato per intero su cd)a differenza di altri classici live licenziati in quel magico e irripetibile 1978 come Aerosmith, Jethro Tull, Kansas, Kiss, Ted Nugent, Scorpions, Thin Lizzy, Ufo…e ne dimentico senz’altro qualcuno!
Enrico hai una memoria di ferro. L’intervista era quella fatta a Donington; il concerto sotto l’originale nome in un piccolo club di Londra, era di qualche giorno precedente il festival; un concerto di riscaldamento. Sulle tue preferenze nulla da dire. La musica la si ascolta con le proprie orecchie…ad esempio il Cheap Trick at Budokan, per me, resta un disco di terza fila… Non lo ascolto da decenni, magari oggi ne avrei una opinione diversa… Riproverò, promesso.
Bellissino articolo.
i B.O.C. li avevo visti a Torino … mi pare nel 1986 … se non ricordo male…
grazie per averlo condiviso.
Grazie Simone 🙂
Per me il biker che ti ha tirato il calcione è interista, scherzi a parte , bel racconto impreziosito dai ricordi personali.
E’ possibile. Ma non gli avevo detto di essere gobbo…dici che se ci fosse stato Beppe lo avrebbe lasciato registrare ? 🙂
Bellissimo articolo, per un diversamente giovane e appassionato di musica come me è un piacere immenso potervi rileggere. I primi anni di Metal Shock sono stati la rivista che ho adorato di più in assoluto, una droga.
France’ …siamo tutti diversamente giovani, ahimé… grazie per averci trovato, torna qui ogni volta che vuoi.
Grandi BOC! gruppo fantastico e longevo. Bellissimo il racconto con novizia di particolari “calcio nel sedere compreso”di un live epocale che per età anagrafica non avrei mai potuto vedere 🙁 e resta ancora oggi l’amarezza di non averli mai visti dal vivo in altre occasioni…..
Non so, onestamente, con quale formazione circolino oggi, ma se capitasse l’occasione, non perderla… covid permettendo 🙂
Speravo di vederli ad un ipotetico Frontiers Rock Festival visto che hanno firmato per loro ma aimè sappiamo tutti come per ora è andata….Vabbè spero vi sarà occasione futura.
Ciao Giancarlo. Grande ed insperato ritorno (il tuo e di Beppe). Bentornati!
Appartengo anche io alla schiera dei “diversamente giovani” che però non hanno perso la passione per la buona musica sia su supporto fisico che dal vivo. Ora i concerti me li godo con mio figlio che ho cresciuto con la giusra dottrina.
Avevo perso invece la voglia di “leggere di musica” e pensavo fosse un mio problema…in realtà ora, leggendo i vs. nuovi articoli, ho capito che mancavano solo i contenuti di interesse ed il modo giusto di raccontarli…ne sono felice.
Sono sempre stato un fan dei B.O.C. grazie ad un amico che me li fece conoscere a fine anni ’70.
Li vidi dal vivo a Torino (febbraio 1986) in “dimensione palasport” e fu un grande concerto nonostante n anni non fossero i loro migliori (Club Ninja Tour).
Mi ha fatto piacere vedere Imaginos nella lista degli imperdibili come unico album non dell’era seventies (oltre al live del 2002): concordo pienamente.
Concludo, grazie per il prezioso contributo nelle mie scelte musicali del passato e grazie per questo gradito ritorno.
Ciao Fulvio, anche a nome di Beppe ti ringrazio per le belle parole e il tuo interesse…continua a leggerci, se ti va, e fai un po’ di passaparola per supportare questo nostro impegno. Grazie.
Mi assococio ai complementi precedenti. È un vero poacere riscoprire due autori, (due leggende ! ) che mi hanno fatto innamorare da ragazzino delle musica che ascolto ancora oggi con piacere. Grazie di essere tornati.
Grandissimi i BOC. Come qualcuno ha già scritto a me Heaven forbid non dispiaceva , sicuramente meno elegante ma non così malvagio. Del resto a me piace anche la soundtrack di Bad channels…
…beh Bad Channels non l’ho nemmeno preso in considerazione… solo per fan irriducibili 😀 Grazie Ale della visita.
Bellissimo articolo, molto divertente (almeno per chi lo legge e non si è beccato il calcio nel sedere!)
Avrei pagato per poter assistere alla scena della tua amica che si rifiuta di tradurre certe cose al simpatico Daniel, ma alla tua terza bestemmia non si tira più indietro…
Possiedo anche io da anni il bootleg ‘Still Kickin’, è davvero una chicca sapere che lo hai praticamente fatto mettere in commercio tu!
Personalmente amo tutti loro dischi, compresi i due pubblicati in questo millennio, e adoro ‘Fire Of Unknown Origin’, forse il mio preferito.
In bocca al lupo per questa nuova avventura!
Giovanni… e mi sono contenuto 🙂 credimi… avrei voluto squartarlo lì e portarmi il mignolo a casa come ricordo, purtroppo in Inghilterra la polizia non scherza (e nemmeno la sicurezza!) per cui mi limitai a dargli un off limits… giuro che ricordo ancora quel calcio nel culo. E tu ricorda che qui hai spazio, se solo lo vuoi.
Li adoro, mi hanno dato emozioni grandissime . Il pezzo è scritto molto bene ed è una ottima fotografia di un gruppo sottostimato. Nell’analisi della discografia, sono d’accordo nel definire i vertici, on your feet in primis, eppure anche i dischi sconsigliati per me hanno gemme nascoste.
Certamente…ma se dovessimo suggerire discografie intere, ci vorrebbero due pensioni per comprare tutto 😉 Grazie dei complimenti
BOC grandissimi, e (dis)avventura a Donington memorabile.
Pezzone! Ne voglio leggere altri mille.
Sandro… vecchio compagno di merende… sai che qui ti aspettiamo. Grazie.
Per un rocker 50enne come me, leggere due firme del genere, fa andare la mente e la memoria a parecchi anni fa, agli albori della mia vita metallica. Parlando dei BOC, credo siano tra i 5 gruppi più sottovalutati del genere. Assolutamente fantastici, ipnotici. Articolo bellissimo. Grazie e complimenti.
Grazie di cuore a te Gianluca. Torna a rileggere le nostre pagine, grazie.
il più grande gruppo hard rock americano . punto
Complimenti per il pezzo. Da appassionato dei BOc dal 74 concordo con quasi tutto…trovo che gli ultimi due dischi abbiano spunti interessanti, in attesa del disco del 2020. Ovviamente ho Still Kicking e non solo quello…suono scarso come dal palco, peccato per quel tour complicato dalla sostituzione di Albert che era una delle anime del gruppo. Cinque autori, cinque cantanti, cinque chitarristi…nessuna altra band come loro!
Beh…Fantasy distillation of reality, come bootleg, è migliore… ma Kicking era una vendetta spicciola… 🙂
Gruppo meraviglioso, li amo oggi come quarant’anni fa. Credo di essere uno dei pochi a possedere il bootleg Still kicking, quello però fa davvero schifo… 🙂