Il culto dell'immagine nel rock anni '80
Nell’alta marea delle “etichette” volte ad inquadrare gli stili musicali e di cui un po’ tutti abbiamo abusato, alcune sono passate alla storia in un’ottica persino spregiativa.
Gli anni ’80 sono stati spesso denigrati come il decennio dell’edonismo reaganiano; il principale imputato era infatti il presidente ed ex-attore americano Ronald Reagan, in carica dal 1981 all’89.
Finiti i tempi duri delle lotte politiche e sociali, spesso esasperate negli anni ’70, sembrava aprirsi una nuova epoca di benessere e felicità, che in modo subdolo portava all’esasperazione del neoliberismo economico, e più in generale, nella cultura di massa, verso usi e costumi tesi alla ricerca del piacere e della più ostentata agiatezza.
In realtà andava allargandosi sempre di più la “forbice” fra classi sociali privilegiate e masse alle prese con la sopravvivenza quotidiana; ma gli ’80 non erano quel “mostro” demonizzato e poi isolato e neutralizzato, perché il fenomeno descritto è andato sempre più estendendosi negli anni a venire della globalizzazione. L’America ha appena archiviato la deleteria presidenza Trump ed a livello mondiale, fra perdurante crisi economica (accentuata dalla pandemia) e corruzione dilagante, certe problematiche si sono persino incancrenite.
Coinvolta nell’”impero dell’effimero” degli ’80, anche la musica rock ne ha fatto le spese. Ad esser presa di mira e spesso ridicolizzata, è stata però quella frangia metal, prevalentemente americana, discendente dal glam-rock del trascorso decennio e caratterizzata da un’immagine oltremodo appariscente. Poco importa che Duran Duran, Spandau Ballet o gli stessi The Cure, “affiliati” alla new wave, fossero altrettanto vistosi; questi ultimi sono tramandati come reperti significativi di ciò che resterà di quegli anni ’80. Invece l’avvento del grunge (indipendentemente dalle intrinseche qualità musicali che non stiamo a discutere) ha ricevuto e continua a ricevere ovazioni per aver “spazzato via” la sottocultura del frivolo hair metal, secondo i detrattori, vera icona scandalosa di quell’era.
La stessa accezione terminologica – hair metal – è in realtà una falsa etichetta, non entra in merito agli aspetti musicali ma tende a sottolineare l’eccesso nell’acconciatura dei capelli. Nell’epoca aurea di quel movimento, non a caso mi rifiutavo di usare tale definizione. Poteva andar bene glam-metal, traccia di continuità del rock in divisa lucente e dai colori sgargianti, con tanto di make-up ed immagine androgina di vasta tradizione nei ’70 (Dolls, Bowie, T.Rex, Sweet etc.) ed era più che accettabile, pop-metal: gran cosa quest’ultimo, voleva dire coniugare l’impatto del rock duro con melodie che s’insinuano nei timpani e non ti mollano più, determinante eredità di Cheap Trick, Angel, Starz e di certi Kiss, fra i tanti…e tutto ciò ha un significato: la stima del patrimonio “canzone”. Che poi diventi commerciale, è solo una conseguenza se la canzone è ispirata.
Hair metal è invece semplicemente specchio di una moda estetizzante e passeggera; infatti nello stesso periodo, anche veterani del classico hard rock/metal si “cotonavano” i capelli accrescendone il volume, basti pensare al sex symbol David Coverdale e all’inimitabile ma in tal foggia improponibile “principe delle tenebre” Ozzy. Senza dimenticare che nel 1987, quando avvistavamo i redentori del rock’n’roll riportato alla vita reale delle strade, al secolo Guns N’Roses, si presentavano anch’essi alla moda “hair metal”. Inevitabile che quelle apparenze oggi risultino datate e che spender troppi soldi dal parrucchiere può apparire deprecabile, ma siamo proprio sicuri che da anni a questa parte, con taglio di capelli “diversamente” bizzarro, piercing e tatuaggi impressi su ogni superficie del corpo sia stato fatto l’auspicato salto di qualità? Ad ognuno le proprie valutazioni.
Resta da considerare il fattore più importante, ossia la musica che i promulgatori del cosiddetto hair metal hanno lasciato ai posteri. Ed un’occasione concreta ci giunge dall’imminente ristampa Rock Candy, notoriamente specialista nel settore, del primo album dei Britny Fox, “sensazione” del momento quando apparvero sulle scene, poi avviati al destino caduco di meteora, ma non senza momenti di splendore.
I Britny Fox nascevano a Filadelfia nel 1985. Leggenda vuole che abbiano approfittato della scia dei Cinderella per imporsi perché il chitarrista Michael Kelly Smith (alias Michael Schermick) ed il batterista Tony “Stix” Destra suonavano alle origini nel gruppo di Tom Keifer (1983). Più corretto era parlare di “soprapposizione”: quando usciva “Night Songs” nel 1986, i Foxes avevano già registrato un demo-tape d’immediato successo, “In America”, capace d’inoculare lo stesso morbo a base di hard melodico e rock’n’roll; si trasformò in un campione di vendite nella sua categoria (oltre 6000 copie prima dell’esordio discografico), ed addirittura i sette brani vennero riproposti a 33 giri su Wolfe Records. A mio avviso si trattava presumibilmente di un bootleg, per la qualità lacunosa dell’incisione, che soffriva di abbassamenti di volume. Protagonisti erano i fondatori Dizzy Dean Davidson, voce e chitarra ritmica, lo stesso M.K. Smith (attenzione a non confonderlo con il quasi omonimo Michael Lee Smith di fama Starz), oltre al bassista Billy Childs e al batterista Tony Destra. Purtroppo quest’ultimo era vittima di un incidente stradale, e veniva sostituito da Johnny Dee, precedentemente noto come John Di Teodoro. A differenza dei compagni, il nuovo venuto aveva già esperienze discografiche alle spalle: non tanto con il gruppo della Pennsylvania, World War III, ben più significativa la presenza nei Waysted di “Save Your Prayers” (1986), il miglior exploit di Pete Way lontano dagli UFO, che riuniva altre stelle come Paul Chapman e Danny Vaughn, futura voce dei Tyketto.
Ricordo che all’epoca fui cauto nell’allinearmi ai pronostici di esplosione dei Britny Fox, anche se i brani erano dotati di freschezza e sfrontata irruenza, costituendo le solide fondamenta dell’esordio major (da “Girlschool” e “Long Way To Love” alla title-track “In America”). Nonostante qualche riserva ed uno stile non spiccatamente originale, sotto la guida di un producer di talento, il quartetto di Filadelfia avrebbe potuto manifestare tutto il suo potenziale.
Fox on the run: il debut-album
Con un suono all’altezza delle ambizioni e la naturale evoluzione negli anni successivi, era lecito attendersi molto dal primo, vero album del gruppo scritturato dalla Columbia. Ciò si è puntualmente verificato con l’avvento del produttore John Jansen, che aveva iniziato come tecnico del suono nei celeberrimi Electric Lady Studios e nel corso della sua carriera, collaborerà sia con nomi storici del rock americano (Blue Oyster Cult, Pavlov’s Dog, Alice Cooper) sia con gruppi di generazioni successive (Warrant, Faster Pussycat, Bang Tango, gli stessi Cinderella). Il suo apporto all’omonimo “Britny Fox” (giugno 1988) si rivelerà tanto efficace, da conferire al loro suono un maggior impatto rispetto al successivo “Boys In Heat”, pur affidato alle cure di un produttore più rinomato, Neil Kernon (dai Dokken ai Queensrÿche).
L’album d’esordio viene entusiasticamente accolto da Kerrang! la rivista che vanta il maggior ascendente sul pubblico hard’n’heavy; gli attribuisce il massimo dei voti (5K) elogiando anche i concerti del quartetto come “attrazione fatale”. Metal Hammer è un po’ meno generoso (4 stelle) ma li elegge “futuri Godzilla” del rock!
Che i Britny Fox veleggino sulla cresta dell’onda dei poser “metallici” lo manifesta l’insolente copertina, dove i musicisti appaiono con revisioni moderne di abbigliamenti Vittoriani, e capigliature inverosimilmente vaporose.
Non per niente, le note di copertina riportano i nomi delle incaricate alle pettinature, al trucco ed al guardaroba della band!
La principale e quasi esclusiva forza trainante a livello compositivo è il front-man Dizzy Dean, sicuramente in uno stato di grazia che non riuscirà più ad emulare quando lascerà la corsa delle “Volpi”. Ed il suono della campana nella scuola femminile annuncia l’inizio delle ostilità per questo classico dei “nefasti Eighties”…Il videoclip è altrettanto impudente; una ragazza munita di Walkman ascolta la musica incurante della professoressa/megera, che le taglia i cavetti delle cuffie; ma irrompono in scena i Britny Fox che fanno scatenare le ragazze in classe, aizzate dalle movenze allusive di DDD e dal suo aspetto, simile a Paul Stanley o ad un riccioluto Steven Tyler. Alla fine persino la prof si lascia andare…Banale? Ascoltate la martellante marcia mid-tempo della voluminosa sezione ritmica, la voce stridente e corrosiva a metà strada fra Tom Keifer e Brian Johnson degli AC/DC, l’assolo di chitarra che recita un “amplesso”, altra tattica shock dell’epoca; se non vi viene voglia di scuotervi, siete ancor più attempati di chi sta scrivendo!
Il seguito è altra dinamite hard’n’heavy, battezzata “Long Way To Love”: ritmo galoppante che provoca scosse telluriche ed un riff potente e cromato, nella gran tradizione yankee di Starz, Rex ed altri Yesterday & Today, mentre ancora una volta MK Smith lascia il segno, con acrobazie di chitarra solista degne del Ted Nugent belle époque. Le parvenze minacciose sottendono però un tema romantico, e l’ideale produzione di Jansen è già un certificato di garanzia.
Se “Kick’n’Fight” assesta colpi duri da smaltire alla AC/DC, particolarmente istruttiva è la maestosa ballata “Save The Weak” che si riallaccia idealmente alla golden era del glam-rock inglese e spiccatamente ai Mott The Hoople. Il collegamento non si esaurisce qui, perché sulla seconda facciata appare un sentito tributo agli Slade, ovvero la rivisitazione della loro “Gudbuy T’Jane”. Ma brani insignificanti non ce ne sono, “Fun In Texas” è introdotta da una slide “sudista”, poi prevaricata dal ritmo intimidatorio e da un rock’n’roll muscolare che combina i primi Godz con i WASP. Chiassosa al punto giusto, “Rock Revolution” è un anthem scandito da un drumming esplosivo e dal riff tranciante, sui quali si erge l’urlo abrasivo di DDD. “Don’t Hide” si apre anche al gusto delle due chitarre armonizzate mentre la naturale immediatezza dei Britny Fox si conferma “In America”: apparentemente un inno al “sogno americano”, ancora ricorrente all’epoca, che celebra gli U.S.A. come terra di libertà, per il forte ed il debole…Probabilmente Dizzy allude alla sua esperienza di giovane di origini gallesi, giunto al successo partendo dal nulla, fattore che rende più credibile il testo…Infine, “Hold On” è l’unico brano dall’esplicita vocazione sessuale, piuttosto sorprendente in un genere rock affollato da predatori alla Mötley Crüe.
Comunque sia, l’eponimo Britny Fox è una perfetta incarnazione del puro divertimento rock’n’roll in stile ’80, e riscuote il maggior successo della loro avventura; raggiunge il 39° posto nella classifica di Billboard e viene certificato disco d’oro.
Vivere un sogno, finire nell'ombra...
Sembrerebbe il primo slancio verso il decollo dei “ragazzi in calore” di Philly, che si assicurano un produttore di vertice, il taumaturgo del suono Neil Kernon, per il secondo album, “Boys In Heat” appunto, che uscirà verso la fine del 1989 (Columbia). Si tratta ancora di un lavoro di primo piano nel suo genere, ma sorprendentemente, i Britny non sferrano il colpo da metallico KO; la formula rivela un tocco talvolta più sofisticato ma l’impatto è meno bombastico rispetto al predecessore, e forse l’immagine rutilante del quartetto meglio si abbinava ad una volgare dimostrazione di forza. Così almeno lo recepisce il pubblico yankee, che non li premia in classifica. “Boys In Heat” conclude la sua corsa arretrando di ben quaranta posizioni rispetto all’esordio. A mio avviso, il gap qualitativo è trascurabile perché “BIH” rilancia i musicisti in piena forma. Il rombo di una motocicletta annuncia “In Motion”, insistono il dinamismo ed i cori accattivanti in “Standing In The Shadow”, poi un’altra cover rivelatrice, “Hair Of The Dog” dei Nazareth. Di nuovo una banda inglese dei ’70, che ha anticipato gli stessi AC/DC in quintessenziale brutalità R&R, con un cantante fra i più graffianti dell’epoca, Dan Mc Cafferty, che ben si presta ad essere interpretato da Dizzy Dean; infine la scurrilità espressiva che persevera sulla ripetitività del tema, dove “Hair Of The Dog” è sinonimo di…Son Of A Bitch!
Invece “Livin’ On A Dream” segue l’evoluzione bluesy dei concittadini Cinderella, caratterizzata da un eccellente innesto dell’armonica di Dizzy. Ancor più raffinata la ballata “Dream On”, che non è la stessa degli Aerosmith ma fa sognare a sua volta, con la voce che si distende su un pregevole accompagnamento acustico country. Davvero memorabile è inoltre “Stevie”, con il suo ritmo incalzante avviluppato in quel mood ipnotico che caratterizza (mi vengono in mente i misconosciuti Trigger) il miglior metal a tinte pop.
Se Rock Candy avrà in programma anche la ristampa di “Boys In Heat”, avete già un parere su come orientarvi.
Purtroppo però il suo minor successo mina la solidità del gruppo, e Dizzy Dean abbandona per formare i Blackeyed Susan, mentre i compagni rispondono ingaggiando il cantante Tommy Paris (ex Jillson); Childs e soprattutto MK Smith trovano così spazio per mettersi alla prova come compositori. Entrambi i gruppi tornano sul mercato nel ’91; i rinnovati Britny Fox migrano alla Eastwest e pubblicano il terzo “Bite Down Hard”: La formula non differisce dalla precedente, nelle roboanti “Six Guns Loaded”, che si appunta la stelletta del cameo di Zakk Wylde, e soprattutto “Louder”.
C’é anche il terzo consecutivo omaggio all’hard britannico dei Seventies, stavolta con “Midnight Moses” della Sensational Alex Harvey Band, dove suona con loro Rikki Rockett dei Poison.
L’unico album dei Blackeyed Susan, “Electric Rattlebone” (Mercury), sembra invece più improntato al recupero moderno delle radici rock e blues, con una rivelatrice “None Of It Matters”, sorta di mix fra Aerosmith e Beatles in chiave psichedelica, mentre “Satisfaction” (no Stones relation!) segue l’onda di successo dei Black Crowes.
Purtroppo è identico il destino di entrambe le formazioni, da annoverare fra le molteplici vittime del cambiamento grunge: successo irrilevante e scioglimento nel 1992.
Non siamo qui a parlare delle riunioni amarcord che alle soglie del 2000, riportano alla luce anche i Britny Fox, reiterate perché al giorno d’oggi l’unica attività remunerativa per molti gruppi da “culto” è suonare dal vivo. Il solo membro originario sempre presente è stato Billy Childs, mentre il tentativo di tornare in sella da parte dell’ex-leader Dizzy Davidson, nell’anno di grazia 2010, è fallito forse per vecchie ruggini mai sgretolate.
Ma nessuno può negare che i loro contagiosi anthem a base di incalzante rock duro sfidino con successo il trascorrere degli anni. L’immagine é ormai consegnata al passato, però la musica non tradisce.
Con grande piacere verifico (tramite il sito di Rock Candy Records) che verrà resa disponibile la ristampa anche di Boys in Heat, oltre che dell’esordio…
Apprezziamo l’abbinamento, tanto più che la casa discografica era la stessa. Ciao e grazie per la segnalazione.
Ciao Beppe,
che bel pezzo che hai scritto!
Il grigio pattume che ci circonda dura da abbastanza tempo per archiviarlo con un po’di scena capellona, e appariscente. E frivolezze per frivolezze, che ne dici come iniziatori del glam ottantiano i Girl di Sheer greed?
Rifletto sul fatto che il termine spregiativo da te spiegato e contestualizzato, m’ ha sempre ricordato le crociate dei benpensanti contro i giovani emuli di Beatles, Stones e Kinks. Fa compassione la crociata contro gli anni cromati, forse perchè c’era più libertà espressiva allora di oggi, e chi la fa è molto miope. Oggi, da 30 anni (un oggi lunghissimo) con i soloncini dell’indie a banalizzare e snobbare chi ha aperto loro le porte per esprimersi (i Dinosaur jr non potevano esserci senza una scena complessiva trainata dalle vendite dei “superficiali” Dokken o dei Wasp o dei TOTO o degli Styx…)
Che si può dire del Grunge, un genere che ha dato linfa a dei benpensanti in camicia di flanella! Moralismi da 4 soldi contrapposti alla frivolezza di noi rockettari, quando avevamo scene con gruppi come Warrior soul o Living colour che avevano una profondità politico sociale profonda per non parlare nel Power metal dei profeti Vicious rumors di DIGITAL DICTATOR. Se penso a tutti i morti della scena grunge, sfruttata dai soliti cinici discografici spremendo persone fragili, che venivano vissuti come alfieri di un messianesimo quasi socialista in certi ambienti italiani: speranze riposte nelle sedi sbagliate.
A quando un pezzo sui dimenticati e mitici London di Nadir d’priest?
Luca, grazie di aver apprezzato. Mi scuserai se in breve tocco qualche punto da te evidenziato. Mi sento principalmente un appassionato di musica rock, ovviamente ho difeso certi stili anche in tempi ingrati (ad esempio all’inizio della mia collaborazione con Rockerilla) ma come ho già scritto, ho anche seguito con interesse negli anni ’90 gruppi stoner/doom e grunge (in particolare Soundgarden, Alice In Chains, Pearl Jam) che rileggevano certo rock duro con personalità. Ovviamente molti lettori non erano d’accordo, ma sarei scorretto a negare la loro validità, così come non la leggo in chiave antagonista al metal anni ’80, sebbene la storia abbia evidenziato il cambio di rotta di cui siamo bene a conoscenza. Per esempio Warrior Soul e Living Colour sono stati legati alla scena alternative metal ben più che a quella tradizionale, ma ciò non ti impedisce, legittimamente, di stimarli. Per quanto riguarda i Girl, senz’altro pionieri del glam-metal anni ’80, non della moda “hair”, per i loro tradizionali capelli (non troppo) lunghi. Per i London vedremo, se possibile in occasione di qualche ristampa o altro che possa “attualizzare” l’eventuale articolo. Ciao
Grazie Beppe, è sempre un piacere. Il problema è che vennero usati come ariete quei gruppi. Ora siamo 4 gatti negli scantinati, noi amatori-musicisti-giornalisti…
Comunque andate avanti così, sito sempre avanti.
Bellissima foto di un’epoca irripetibile.
Credo che ogni artista abbia il diritto di presentarsi in scena e di avere un’immagine che lo rappresenta, forse non sono altro che estensioni della propria spiccata personalità.
Personalmente adoro quel periodo che credo uno dei piu’ creativi musicalmente del rock.
Quello che conta è la musica e in quel decennio se ne è prodotta molta e di qualità e il rock, anche quello duro , è arrivato a far parte della vità di molte piu’ persone rispetto al passato.
Che il grunge abbia spazzato tutto, è stato per me un grosso dolore, perchè non amo quel genere, mentre invece la presenza ancora oggi di queste ristampe che ci presenti dimostra la validità di quei prodotti.
Ottimo articolo ancora !
Grazie Francesco, è gratificante che numerosi affezionati lettori ci seguano con attenzione. Avrai capito che pur essendo cresciuto nei Seventies (ovviamente mi hanno lasciato un segno indelebile), sono a mia volta innamorato degli anni ’80; ho cercato di rappresentarne comunque spunti critici, non necessariamente condivisi, ma il concetto-base era questo: anche un gruppo che non ha avuto il successo monstre dei vari Motley o Bon Jovi, ha lasciato un’attraente eredità rock’n’roll, all’insegna della qualità e del divertimento. Ciao
Ciao Beppe, la questione delle etichette è stata una mania molto diffusa ai tempi e anche tu cercasti di fare chiarezza con un articolo su MS dove spiegavi le definizioni che venivano date alle varie diramazionei stilistiche del genere Hard & Heavy…
In effetti Hair metal è una definizione che teneva conto della forma ma non della sostanza perché si basava unicamente sul fattore look ma in realtà è un calderone dove vennero inserite band di differenti estrazioni con il comune denominatore menzionato…per rendersi conto basta visionare i vari siti web che menzionano il termine..
Che poi sia stato usato in termini dispregiativi lascia il tempo che trova, basta ricordare che future stars del grunge come gli Alice in chains prima di riproporsi col moniker ed il sound che li rese famosi cominciarono come Diamond lie dediti ad un glam metal con tanto di acconciature cotonate, oppure chi riconoscerebbe i tozzissimi Pantera sulla copertina del terzo lp Power metal dai personaggi che poi sono diventati famosi?
Questo perché come dici tu erano gli anni del culto dell’immagine ed avere un look adeguato era un dogma a cui tutti e sottolineo tutti dovevano aderire, anche i veterani della scena… ricordi Biff biondo o, le extension di M. Schenker o le mise di Scorpions e Priest?…
Però relegare al fattore visivo un genere è stato molto superficiale considerando l’inettitudine di molti musicisti odierni e rispetto a questi vantavano strumentisti di tutto rispetto come questi Britny Fox che personalmente non ritengo imprescindibili rispetto ad altri nomi dell’epoca, ma sono stati protagonisti di un movimento che tutt’ora ricordo con affetto perché riflettono un tempo forse frivolo ma decisamente migliore di oggi.
Roberto ciao, hai aggiunto note interessanti a quanto scritto nell’articolo, a dimostrazione che l’hair metal era innanzitutto una moda estetica, non contenutistica. Hai citato varie stars; anche nel grunge, ricordiamo che i pionieri Mother Love Bone, guidati dal cantante Andrew Wood e con i futuri Pearl Jam (Gossard e Ament) avevano a loro volta un’immagine appariscente. Hai citato molto opportunamente il caso clamoroso del Pantera. Ben detto, grazie
Certo che negli ’80 la moda dei capelli cotonati imperversava proprio, non solo nei gruppi glam…
Una miriade di gruppi prevalentemente americani ma non solo: veri precursori furono secondo me i londinesi Wrathchild.
Riguardo i Britny Fox mi fermai al primo lavoro che non ascolto da una vita: colgo l’occasione e ripasso.
Grazie Beppe
Un saluto
Un saluto anche a te Fulvio; il ruolo di antesignani del glam-metal degli inglesi Wrathchild l’abbiamo sottolineato nel recente articolo sui Singoli della NWOBHM. Lo furono anche nel look. Se ne avrai voglia, ascoltare i Britny sarà un’occasione di svago. Grazie
Ciao Beppe, ottimo, come sempre, il cappello introduttivo, che inquadra il periodo. Anche me nn è mai piaciuto il termine Hair metal, del resto nn poteva essere altrimenti essendo un tuo affezionato lettore. Britney Fox: il primo album è sicuramente il migliore con il cambio di cantante persero molto, anche se il terzo album nn è male. A me nn dispiacevano neanche i Razamanaz , gruppo che formò il chitarrista MKS in seguito . Alla prossima!
Ciao Ale, ti ringrazio per la presa di posizione sul “cappello introduttivo” che come dici tu, serviva ad inquadrare il periodo. So per certo che ha suscitato alcune reazioni negative, forse perché interpretate come presa di posizione “politica”. In realtà ho semplicemente cercato di rappresentare considerazioni generali sul decennio, mettendo in relazione certi aspetti della musica che sono anche specchio (oppure critica) della società contemporanea. e posso aggiungere senza timore di smentita che non faccio parte di alcun schieramento. Razamanaz, pensa un pò, altro titolo dei Nazareth di cui i BF hanno rifatto “Hair Of The Dog”.
Ottimo Beppe, infatti anch’io ho sempre reputato hair metal una falsa etichetta, tanto che nelle cronache ottantiane non appariva mai, per usare un termine alla Aerosmith, sembra un contenitore creato dopo con scritto ‘Toys in the attic! Quindi ben vengano queste ristampe, io mi tengo l’originale, sperando prima o poi che vengano pubblicati albums mai usciti negli ’80, come i favolosi L.A. Rocks! Buona settimana caro Beppe
Grazie della condivisione e buona settimana a te.
Eccome se “hair metal” è un’etichetta posticcia, usata quasi sempre in tono dispregiativo, non da noi ovviamente. Non sanno cosa si sono persi. Ciao Fabio, ciao Beppe.
Ciao Beppe.
Questa è una bella notizia, almeno per me.
I Britny Fox all’eposa dell’uscita mi erano sfuggiti, tutti e tre i dischi, poichè per via della troppo giovane età, delle risorse limitate e dei troppi dischi (belli) che uscivano a cavallo tra gli 80 e i 90, non si poteva comprare tutto. Poi in quel periodo avevo appena cominciato a farmi un idea dei gusti musicali su cui impostare una collezione, ed onestamente i Britny Fox non erano proprio il primo nome.
Questa band la ho conosciuta quindi in seguito tramite You Tube e le varie piattaforme digitali, ma visto che sono tra quelli, ancora numerosi spero, per cui il disco è un oggetto fisico (cd nel mio caso), accolgo con piacere questa ristampa, alla quale spero seguano i due successivi.
I Blackeyed Susan invece li ho già tramite ristampa abbastanza recente della Bad Reputation.
I BF sono comunque un ottima band, che ha avuto i suoi 15 minuti di successo e che forse avrebbe meritato di più; forse sono stati in qualche modo danneggiati dall’ accostamento con i Cinderella, con i quali hanno secondo me poco in comune. Meritano sicuramente una riscoperta.
Lorenzo ciao, sostieni che i Britny Fox “non erano proprio il primo nome” da recuperare, ma non preoccuparti, non credo siano una priorità per molti. Anch’io sapevo che trattarli non sarebbe stata un’occasione per guadagnare lettori, ma l'”estro” del momento mi ha orientato su questa scelta, anche per parlare con l’occasione del loro genere musicale. Ho molto apprezzato i Cinderella, penso che al di là dei musicisti in comune avessero altri punti di contatto, ma non basterebbe comunque a giustificare le qualità dei Britny Fox, se fossero solo dei “plagiari”. Grazie dell’intervento.
Buongiorno Beppe, quando dico che i Britny Fox non erano il primo nome da recuperare, parlavo della mia prospettiva di ascoltatore neofita degli ultimi 80 e primi 90, e di conseguenza all’epoca non considerai questa band come un priorità.
Non mi riferivo al tuo articolo, che al contrario ritengo meritorio al fine di dare un minimo di visibilità a questa band che nel tempo ho rivalutato (adesso, dopo tanti anni di ascolti, e anche in funzione della generale scarsa qualità dei dischi odierni).
Che poi non si guadagnino lettori parlando dei Britny Fox è una certezza 🙂
Un saluto
Lorenzo non devi preoccuparti, non avevi scritto nulla di inopportuno. Neanch’io pretendo di imporvi i Britny Fox come una priorità, ma come un argomento che può essere d’interesse, nel suo contesto. Grazie e ciao.
Pensa, Beppe, che ieri sotto l’articolo dedicato all’LAHM avrei voluto chiedere un tuo giudizio proprio sui Fox. Se non ricordo male, su Metal Shock non fosti troppo generoso, ma forse ricordo male. A me, nonostante la somiglianza a volte sfacciata coi Cinderella, sono sempre piaciuti molto, soprattutto il primo. Ho apprezzato molto anche la svolta Black Crowes intrapresa con i Blackeyed Susan. Ciao.
Ciao Alessandro, ricordo la mia recensione di “In America”, di cui ho riportato le riserve espresse nell’articolo. Altro proprio non mi viene in mente! Però accade che facendo dei “collegamenti” recentemente li ho riascoltati, conquistato da alcuni brani molto accattivanti. Allora ho colto l’occasione dell’imminente ristampa (di cui ancora non conosco gli eventuali contenuti extra) per parlarne, introducendo il tema del cosiddetto “hair metal”. Funziona così, é un Blog, non abbiamo obblighi…Grazie
Apprezzo molto, come ti ho scritto a me il primo piace molto. Un pò meno gli altri. Grazie mille per la risposta.
Grandissimo album di esordio che, personalmente parlando, se fosse uscito un paio di anni prima avrebbe fatto il botto nelle charts americane. Manifesto per me di uno sleaze rock spensierato, trascinante … Il video girlschool richiama il video I Wanna Rock dei Twisted Sister, ma alla fine si fa guardare e ascoltare con piacere. La voce di Dizzy è un mix pazzesco tra Il Keifer più in forma e certi passaggi di Bon Scott. Album sicuramente da avere.
Ciao Luca, il tuo paragone con il video dei Twisted Sister é senz’altro calzante, ed é possibile che se i Britny Fox fossero giunti pochi anni prima, avrebbero ottenuto un successo commerciale più rilevante. Restano però un gruppo da rivalutare, meritevole di esser affiancato ad altri più celebri per l’eredità musicale lasciata. Siamo quindi allineati su posizioni analoghe. Grazie, a presto.