google-site-verification: google933a38d5a056903e.html
Ricordo Perfettamente

Cash from Chaos… palanche dal casino.

Seconda parte del "Metodo McLaren"... e della sua visione di quella che fu la scena punk inglese. Ma soprattutto del suo metodo di trarre guadagno dal casino.

Chi crede che non siamo mai stati coinvolti dall’ondata di nuovo rock and roll di fine anni settanta è fuori strada. Il fatto che ci piaccia principalmente la Musica con la M maiuscola non vuol dire che non si apprezzi il rock and roll. Tanto ci piacque che il nostro cuore si divise a settorie che il limitato budget per concerti e vinili veniva suddiviso equamentee destinato ai grandi dell’hard e blues, la nuova onda e quella crescente “ondina” di nuovo blues inglese definito pub-rock.

Il nostro cuore ha sempre pensato che senza il blues nessuno di noi sarebbe qui, oggi, a parlare di musica, per cui l’attenzione verso questo ultimi era tanta. Quando un quartetto scelse di chiamarsi Dr Feelgood, riprendendo una delle iconografie più ricorrenti nell’originale blues nero d’America, fu impossibile non innamorarsene. Non fosse altro perché il cuore nero era bilanciato da un ritmo bianco irresistibile e che pareva sfottere la zoppia tecnica del punk con una velocità di esecuzione che emozionava e divertiva. Vedere i  Feelgood dal vivo era come sbattere contro un muro. Stupidity era il massimo per i festini danzanti organizzati ai tempi e il fatto che i dj del Marquee o del Music Machine, a Londra, dedicassero tutti i venerdì a quel genere di rock era la conferma che c’era più di un qualcosa indefinito che bolliva in pentola. La certezza si ebbe quando il fenomeno uscì dai minuscoli pub di periferia pre approdare alle sale da concerto “di tendenza”.  Questo solo un attimo prima della nascita della “nuova ondata di heavy metal inglese” – gli anglosassoni sono sempre stati bravissimi a mantenere la tavola da surf del proprio marketing sulla cresta dell’onda senza mai cercare di definire bene quello che stavano vendendo.

Se ci fate caso ancora oggi per i media musicali inglesi tutto è sempre “nuovo” pur restando immutabile : loro sono dei genii. O noi dei fessi, dipende. Ma dato che per i professionisti della musica ascoltare le richieste di sedicenti giovani giornalisti esteri faceva parte del loro lavoro, quando non c’era niente da fare o vedere, ciondolare, ai tempi, per etichette raccattando qualsiasi genere di vinile e facendoci offrire inviti a showcase, piccoli party promozionali, proporre interviste, era un buon passatempo londinese.   Fu così che, consiglio dopo consiglio, una sacra triade di gruppi si impresse nei nostri cuoricini : i Dr Feelgood, i Nine Below Zero di Dennis Greaves e la Blues Band di Paul Jones. Di questi ultimi ricordo un concerto memorabile al Marquee dove la gente era così stipata, eccitata e saltellante che uscendo mi ritrovai fradicio come se avessi fatto la doccia vestito, con il mio socio Luca a bestemmiare sperando che la sua macchina fotografica non si fosse danneggiata per l’umidità. I Nine Below Zero mi capitarono davanti almeno una dozzina di volte, sempre più bravi, sicuri di se stessi e impressionanti. Erano micidiali : i classici del blues e R & B sparati con la forza del nascente heavy rock.  Giuro che se potessi tornare indietro nel tempo e scegliere di rivivere qualcuna di quelle serate, una sarebbe sicuramente condita da un loro concerto.

Perché vi racconto questo ? Perché sulle tracce di quel nuovo R & B inglese iniziammo a frequentare un po’ di più gli uffici della EMI, dato che molti parevano essere sotto contratto con loro. Un giorno, in attesa del mio turno, stavo sbracato su un divano a fianco di un roscetto…un tipo con i ricci rossi…arruffati, magrolino e vestito come Scaramacai, se vi ricordate il clown per bambini della Pinuccia Nava… nessuno se lo filava, in quel momento, ma l’atteggiamento era di uno che lì era di casa. Difatti dopo un attimo vene una tipa ad accoglierlo dicendogli . “Mr McLaren, il presidente la attende“… Ecco, ero stato a mezzo metro da uno che avrebbe potuto raccontare un sacco di cose e non l’avevo riconosciuto.

Ma la volta successiva, al Marquee, nel corso della presentazione del “Bootleg ufficiale della Blues Band“, con un badge di ospite speciale c’era proprio lui. McLaren era l’eminenza grigia che stava dietro ai Sex Pistols ed era impossibile non rendergli il merito di una enorme percentuale del loro successo. Per come me lo ero immaginato io, lui era stato per Rotten e i Pistols quello che Andy Warhol era stato per i Velvet e Lou Reed : il pigmalione , il plasmatore di materia informe, quello che, come disse Zappa, un giorno aveva concretizzato l’essenza dell’arte che altro non è che “creare un prodotto di poco valore e venderlo“.

La curiosità di sentirgli raccontare la sua storia era infinita, ma non sempre la gente ha voglia di chiacchierare con chi con un approccio rozzo, tipico dell’età, ti avvicinava cercando di estorcerti  segreti con un inglese ancora da affinare. Difatti funzionò solo per pochi minuti e senza risultati di rilievo. Ripensandoci solo perché non eravamo pronti a sentirci raccontare quello che inconsciamente avevamo sempre saputo. Pur pieni di quello che leggevamo in Italia, dove le cose si vedono sempre da parecchio lontano, non avevamo ancora realizzato.  Malcom biascicò solo alcune frasi, sbocconcellate,, di superficiale apprezzamento per i gruppi che si esibivano, specificò che lui, in quei club non veniva spesso, anzi per niente, preferendo altri luoghi più colorati, discoteche, atelier di moda…e poi un paio di frasi che avrebbero potuto dimostrare la valenza della tesi del Metastasio : “Voce del sen sfuggita, poi richiamar non vale!“… “Tu pensa che senza gente come me,molti di questi gruppi sarebbero ancora a suonare per qualche ubriacone o dieci avventori”… e poi poche parole illuminanti, se solo avessimo saputo afferrarle… “il marketing del rock and roll, in fondo, è di una semplicità infantile : basta prendere il bandolo giusto e la matassa si scioglie da sola“. Poi si rivolse altrove. Di parlare con giovani italiani dalla comprensione molto relativa del suo strettissimo inglese gli interessava ben poco.  “Che ti ha detto?” mi fece il mio socio. Un cazzo di niente risposi io col neurone disconnesso. Ma la vita ti offre sempre una seconda occasione. Diversi anni dopo il McLaren galleggiava ancora nel mondo della musica con un suo disco; contemporaneamente – ma non ricordo perfettamente perché adesso con certezza ricordo solo la richiesta di budget da un regista infoiato che voleva ospitarlo a qualsiasi costo – era coinvolto in una qualche sfilata di moda milanese.  E fu così che il rossiccio Malcom, ingrassatello e molto meno skinny di come lo ricordavo, elegantemente vestito e molto meno casual, con il capello corto e in ordine, fu nostro ospite in televisione per un paio di giorni. E fu a pranzo che decisi di sapere quello che non ero riuscito a strappargli anni prima. Ovviamente, per pura cortesia,mi disse mentendo che sì, si ricordava di aver incontrato italiani in quella occasione, ma non avrei scommesso una lira sulla sua sincerità.

Ma alle mie cortesi richieste sul piacere di sentirlo raccontare…decise di parlare. Forse l’effetto del Chianti, forse il mio inglese decisamente più raffinato. Da qui in poi andrò a memoria perché a tavola le telecamere sono sempre spente, ma è difficile dimenticare la lezione che mi dette.

Mi pare davvero incredibile che così lontano dall’Inghilterra si parli ancora dei Pistols e del punk in un mondo non anglosassone –  ricordo che parlava guardando oltre come a riportare alla mente certe immagini – anche se in fondo, sì, l’operazione che venne fatta su quel gruppo fu eccellente, anche se proprio io un giorno dovessi essere ricordato , vorrei che fosse per altre cose che giudico più importanti, per come lavorai con cinque giovani gangster da vicolo, una delle band più amate, i New York Dolls… ma evidentemente la storia non sempre prende le vie che tu gli indichi. Il punk ? I Pistols ? Tutto fu molto più semplice; laggiù in America fu un colpo di genio portare alle estreme conseguenze l’immagine glam facendone della provocazione esteriore come nel glam inglese si fece della provocazione sociale. Un po’ come vedere una bella puttana ben agghindata ed un transessuale visibilmente ancora uomo. Il secondo ti colpisce di più. E l’operazione fu tutta lì, oltre alla musica dei Dolls. E poi gli americani sono così facili da far indignare… vestivamo di rosso e loro ci davano dei comunisti ! In Inghilterra venne tutto da solo, perché noi inglesi abbiamo ben chiara l’immagine del mercato e tutti sono in ricerca della nuova cosa da vendere e da comprare : noi conosciamo le due vie del mercato, quella in entrata e quella in uscita. La difficoltà non sta nello spingerti all’acquisto, ma nel porre il prodotto nel migliore dei modi affinché tu sia stimolato a comprarlo.  E quando devi vendere qualcosa, cos’è la cosa più difficile ? E’ far sapere alla gente che tu sei lì e quella cosa ce l’hai in tasca e la vuoi vendere e per tanta gente deve essere chiaro che comprarla deve essere un gesto positivo.

In fondo è dai Beatles in poi che abbiamo imparato a gestire il prodotto; la creatività, il messaggio, la politica…quello è un corollario, viene dopo, quando l’oggetto è ben presente nella tua vetrina , quando è stato accettato o meglio ancora quando non lo è stato per niente. E a quel punto del progetto il costo più elevato sta nel tuo sforzo di far capire alla gente che esisti, indipendentemente da quello che vali. “.

Tutti i tuoi soldi devono andare lì – continuava McLaren – e non nella ricerca di un buon prodotto…quella è roba anni sessanta, dimostrare che sei il igliore è un’idea vecchia, oggi conta esserci. Da allora il mercato spende primariamente in informazione, non in qualità, e quello che la gente acquista è l’informazione,  che spesso può coincidere con la qualità, ma non necessariamente deve farlo!”.

Dunque sarebbe questa l’essenza della Grande Truffa, chiesi un po’ confuso. “Non solo, anzi io non parlerei di truffa anche se è facile ricordare il titolo del nostro film, perché è immediato, diretto, onesto. La verità è che il marketing è un macchina perfettamente funzionante e con il serbatoio sempre pieno. Tu devi trovare le chiavi. “.  Fu in quel momento che compresi dove voleva arrivare il rosso; un po’ come individuare il colpevole in un libro della Christie : tutto ti si illumina in un momento.  “Tutta la macchina è costruita per te : i giornali, i promo men delle case discografiche, la televisione, i magazine specializzati. Tutta gente che vive affinché tu esista, perché la tua esistenza giustifica la loro. E ti pare che se la tua nuova macchina o la pelliccia della tua fidanzata dipenda da un altro , tu non sia pronto ad aiutarlo ? Sta a te metterti nelle condizioni di lasciarli lavorare di fantasia, ed è quello che abbiamo fatto.  E’ più difficile mparare a suonare che  trovare le chiavi della macchina. Senza il mio lavoro non posso dire che una generazione non sarebbe maturata, ma molti ragazzi non avrebbero trovato lo stimolo ad esistere, magari non avendone diritto. Quanti gruppi valevano veramente in quegli anni ? Non lo so, forse tanti, forse pochi, perché in fondo tu vali per quello che vendi e per come la gente ti ricorda, ma magari ci sono eccezionali musicisti che non sono mai usciti dalla cantina perché non hanno saputo cavalcare l’onda, trovare le chiavi. Il Regno Unito venne scosso dalle fondamenta da un terremoto mentre la scena sembrava languire e tutto provenire dagli Stati Uniti. Un terremoto che tutti aiutarono a far più danni possibile. Noi abbiamo trasformato quella scossa in un fenomeno musicale. E’ questa la truffa : credere tutti in una vena artistica che , probabilmente, era solo un fenomeno sociale. Una scintilla che non avrebbe mai incendiato il bosco da sola.  A me interessava il lato artistico e di immagine e a quello mi sono limitato, in fondo il mio  il lavoro di un consulente che sa come elevarsi sopra agli altri, aiutandoti a farti notare. E tutti, lo dico con orgoglio, hanno imparato da me a stravolgere il modo di intendere un manager…te l’ho detto : è facile fare il manager degli Zeppelin o di Bowie… quelli sono artisti! Ma tu credi che esista nulla di più rivoluzionario per un giovane della rivoluzione stessa ? Tu devi mettergliela sotto il naso, calda…”.

Dunque stai dicendo che senza Malcom McLaren i Sex Pistols… “molto più probabilmente loro, come mille altri sarebbero rimasti una delle tante pub band composte da alcolizzati e tossici svogliati e privi dello stimolo giusto, ma nessuno di loro te lo dirà mai. Hai mai incontrato Lydon ? Beh lui è ancora convinto oggi di saper cantare ed è meraviglioso che lo creda, anche se non è assolutamente importante se lo sappia fare davvero… in fondo tra gestire un negozio di abbigliamento e far da manager a una rock band non c’è molta differenza, se non che con una rock band ti devi confrontare ogni giorno con alcol e droghe e i vestiti se ne stanno lì appoggiati ai manichini…al massimo potevi tagliarti con una lametta…”.

Parlammo di altro in quel pranzo, anche perché gli altri commensali non erano assolutamente interessati a parlare di politiche del rock and roll, purtroppo : da McLaren volevano sentirsi parlare di Vivienne Westwood, di moda e delle mode, dei suoi video, del significato recondito della scritta sulla maglietta “Cash from Chaos”, indossata da un Lydon in gonnella in un famoso video, senza capire che gli era stato appena spiegato. Così, anni decodificazione della nuova ondata venivano semplificati in poche frasi,  tra una polenta gialla ed un umido (rifiutati) ed un piatto di spaghetti al pomodoro (divorati).

Poi succede che passano altri anni ed in occasione di una serie di concerti, bellissimi, fatti produrre da me per una televisione con un budget ridotto e molti amici a crederci, viene la possibilità di lavorare con alcuni musicisti di primo piano; tra questi un signore newyorkese in forma smagliante e dallo sguardo schizoide, David Byrne. Con lui non ci fu altro che un rapporto breve e professionale, poche parole scambiate signorilmente per cortesia e non certo per il desiderio di farlo, al termine delle prove, prima di un periodo di necessaria concentrazione in camerino, dato che,se tutto fosse andato bene, l’idea sarebbe stata di utilizzare quelle registrazioni per un album dal vivo.  Così riuscii a strappare un ricordo di Adrian Belew e due, anzi una, parola sul punk newyorkese ed il suo vecchio gruppo, con una risposta secca tanto gentile quanto priva di possibilità di replica.

I Talking Heads e il punk newyorkese ? No, io non ho mai visto il mio gruppo al livello dei gruppi punk; sì, c’era un estremo fermento in quel periodo e tutti desideravano emergere e se farsi etichettare sarebbe servito a entrare in qualche giornale, ottenere una scrittura per una serata, dare una intervista… perfetto. Loro ti promuovevano parlando di te, tu li lasciavi fare. Ma i Talking Heads componevano canzoni, sperimentavano, ragionavano su cose nuove.”. Un’altra visione del medesimo oggetto.

Poi accade che ti capiti per mano una copia di Uncut, mensile inglese. Ed in copertina, a fianco di una foto dei Ramones, il consueto “strillo” ti invita a leggere un pezzo sui “50 più grandi dischi del punk americano“… e tu già mugugni, certo che ci troverai tutto quello o quasi tutto quello che gli stessi autori non vorrebbero veder incluso. Ti accorgi quindi che quasi la metà ti sembrano davvero fuori posto, con una percentuale imbarazzante solo tra i primi dieci, dove finisci per contarne almeno sette assolutamente caduti lì per caso, o altro.

E ti viene da pensare che se solo ti mettessi a dirlo pubblicamente troveresti subito un centinao di sedicenti esperti, esegeti del settore, che ti piazzerebbero sotto al naso mille buoni motivi per farti capire che tu, di musica, proprio non ci capisci un cazzo. E al solo pensiero ti ritrovi a sorridere da solo e appoggiato alla capiente poltrona che è la postazione tipo da cui massacri una tastiera, ripensi a quella sera in quello studio di Milano, a quel musicista che solo apparentemente in modo distratto ti faceva scivolare addosso un paio di suoi pareri mentre sceglieva la chitarra con cui registrare quel concerto e all’altra metà di quella frase a proposito del punk che eri riuscito a strappargli… Byrne era chino in avanti su un tavolo a firmare qualche disco del suo gruppo, tutta roba più recente, eccetto il mio, tutto rosso, il loro primo vagito.

Allampanato, capelli lunghi disordinati e con gli occhi che parevano non potersi socchiudere, si girò a mezza bocca, osservando la copertina che aveva in mano e mi disse : “ Chi può pensare che questo fosse un disco punk? E’ ridicolo. C’è più arte compositiva e studio e lavoro dentro questi solchi che in tre quarti della intera produzione newyorkese… la verità è che morivamo di fame, che non avevamo la più pallida idea di come farcela ad emergere, che non avevamo un dollaro per tentare di far conoscere la nostra musica… e arrivano una dozzina di tizi che scrivono di musica, che frequentano certi locali e che iniziano a parlare bene, benissimo di tutti, cani e porci, e che tutto quello che toccano diventa hip…diventa fico, stimato e ricercato ma sopratutto spinto, prodotto, conosciuto e comprato. E secondo te noi avremmo mai potuto perderci l’occasione di ottenere un milione di dollari in promozione gratuitamente ?”.

Poi prese una maglietta nera ed una chitarra color crema. Ricordo che nel frattempo Gabriele Salvatores e Silvio Orlando si erano già seduti in prima fila.

2 Commenti

  • Giacobazzi ha detto:

    Hughie Flint alla batteria nella Blues Band; e non riesco a trattenermi dal far notare che Paul Jones suonò e incise con Guido Toffoletti, piccola leggenda nostrana… e “Born in London”. Hai qualche ricordo anche di lui?

Lascia un commento