Foto: Mark Seliger
“Christmas Time (Don’t Let The Bells End)”… cantavano The Darkness vent’anni fa, ma la festività di Natale è più che mai propizia per inondare il mercato discografico di “oggetti da collezione” in vari formati.
Se oggi sul piano commerciale la battaglia per contendersi le nuove generazioni infuria soprattutto a colpi di streaming, e vengono ostentate cifre paradossali equivalenti a dischi di platino o addirittura di diamante per artisti nati ieri, c’è sempre l’opportunità di trovare sotto l’albero un’ampia scelta di materiali “fisici” (LP, CD, Box Set). Abbondano le ristampe in vinile colorato o picture disc, le collezioni definitive e le edizioni (super) deluxe limitate e spesso costosissime, prevalentemente riservate a conoscitori di lunga data, sebbene si registri un’attrazione crescente verso il vinile anche da parte dei giovanissimi. C’è n’è per tutti i gusti, per gli appassionati di classici “universali” (dai Beatles ad Eric Clapton), ma anche delizie musicali rivolte ad un pubblico meno generalista.
E’ il caso dei Black Crowes, ennesima scommessa vincente di Rick Rubin (epoca Def American); avevano inaugurato gli anni ’90 con il boato ad effetto del primo album “Shake Your Money Maker”, che valicherà la ragguardevole soglia dei cinque milioni di copie vendute negli U.S.A. Già, perché se la critica seriosa lo tramanderà come il decennio dove il grunge ha “giustiziato” gli eccessi faraonici dell’hair metal, i Black Crowes sono stati dei pionieri nel riportare la tendenza generale verso il puro realismo rock’n’roll, anticipando il successo epocale dei “Nevermind” dei Nirvana, considerato generalmente lo spartiacque verso la “nuova era”.
Ma per gli specialisti, i fratelli Robinson ed i loro accoliti erano innanzitutto i redentori del rock confederato, da qualche tempo in rotta. Dopo i giorni di gloria degli originali Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd, nessuna band ha più saputo incarnare l’essenza del rock’n’roll degli Stati del Sud come i Black Crowes, i desperados di Atlanta (Georgia) che imprevedibilmente hanno sedotto gli americani proprio con “Shake Your Money Maker”, spianando la strada al ritorno discografico del Lynyrd Skynyrd versione 1991; restituivano così il favore a chi quel genere musicale l’aveva esportato oltre i confini regionali. Si trattava di musica totalmente consacrata ad un feeling senza compromessi, ricca di competenti riferimenti rhythm’n’blues e pronta a riallacciare legami con il più classico lascito della british invasion, in particolare Rolling Stones e Faces, se ricordate “Jealous Again”, scandita dal piano honky-tonk, suonato dal magistrale Chuck Leavell, di fama Allmans.
Inoltre la loro versione di “Hard To Handle” del Re del Soul, Otis Redding, non solo accedeva ai Top 30 negli Stati Uniti, ma manifestava voglia e capacità di riappropriarsi della tradizione musicale americana e della sua matrice nera, in gran parte saccheggiata dai gruppi rock inglesi di successo dei Sixties.
Se “Shake Your Money Maker” è già stato onorato di riedizione del 30° Anniversario nel 2021, il 15 dicembre tocca al successivo, “The Southern Harmony and Musical Companion”, uscito nell’aprile 1992, probabilmente il miglior album in assoluto dei Black Crowes, ampiamente premiato dal pubblico U.S.A., che l’ha sospinto al primo posto di Billboard (mai più raggiunto in seguito) al pari di ben quattro singoli estratti dal medesimo, che svettavano nella classifica rock.
Dopo ventidue mesi di incessanti tours, il gruppo dei fratelli Chris (voce) e Rich (chitarre) Robinson giungeva all’appuntamento discografico con l’apporto di forze nuove, avendo sostituito l’esausto Jeff Cease con Marc Ford, ex chitarrista degli hendrixiani Burning Tree (un omonimo album su Epic, 1990) ed integrato il necessario tastierista Eddie Hawrysch. Inalterata invece la sezione ritmica, con il bassista Johnny Colt ed il drummer Steve Gorman.
La freschezza manifestata da “The Southern Harmony” nel rivestire di palpitante attualità le radici rock’n’roll e blues risultava ancor più stupefacente, con brani che andavano oltre il già impeccabile debutto, come “Sting Me”, una bomba energetica degna dei classici Skynyrd, resa oltremodo efficace dal propellente soul dei cori femminili – ampiamente utilizzati dal gruppo di Van Zant (le Honkettes), dagli Humble Pie (le Blackberries) e dagli stessi Stones. Altrettanto trascinante, sulle stesse coordinate, il primo singolo “Remedy”, animato dallo stridente impatto delle chitarre (nella miglior tradizione sudista) ma senza ombra di gratuita pesantezza. I Black Crowes apparivano ormai una perfetta macchina rock rodata da quasi due anni on the road.
Soprattutto il vocalist Chris Robinson (il grande Steven Tyler si era dichiarato suo strenuo sostenitore), si confermava uno straordinario interprete bluesy, nei toni intimisti di “Thorn On My Pride”, con reminiscenze degli antesignani storici Allman Brothers, ed in modalità più appariscente nell’ipnotica/impetuosa “Sometimes Salvation”; in quest’occasione il suo timbro roco ed abrasivo resuscitava gli indimenticabili fantasmi del Joe Cocker di Woodstock ed ancor più di Steve Marriott degli Humble Pie, a testimonianza che la lezione dei maestri britannici nel manipolare materiali sonori incandescenti non era certo inosservata. Infatti il riff hard-blues di “My Morning Sign” coglie il nesso con i Led Zeppelin, e forse preconizza la futura collaborazione con il leggendario Jimmy Page, immortalata nel “Live At The Greek” del 2000. Infine, un inatteso remake di Bob Marley, “Time Will Tell”, ravvivato da fervore gospel, a suggello di uno dei più genuini, incontaminati album appassionatamente rock di fine Novecento.
Da sottolineare l’eccellente lavoro di George Drakoulias, il produttore favorito di Rick Rubin, che esordì proprio con il debutto dei Corvi Neri, assistito nel ruolo di ingegnere del suono da un nome ancor più rilevante: Brendan O’Brien fu mandato in orbita proprio dal successo del gruppo di Atlanta, affermandosi definitivamente come produttore di Stone Temple Pilots e Pearl Jam, infine richiesto da una miriade di artisti stellari dagli anni ’90 in poi. E’ plausibile che gli stessi Black Crowes pagheranno la rinuncia all’impeccabile tandem di produzione nel terzo album “Amorica”, accolto assai meno favorevolmente dal pubblico, e non altrettanto focalizzato rispetto ai precedenti sul piano del dinamismo rock e dell’impatto “eccitante”.
More "Harmony": Studio & Live
Dunque “Southern Harmony”, in deroga alla stretta osservanza dell’anniversario, torna sul mercato in quattro differenti riedizioni (UMe): le più basiche con il solo LP originale ed il doppio CD che include in più una selezione dei bonus presenti sulle super deluxe. Queste ultime sono decisamente dispendiose (versione 3 CD e soprattutto il Box di 4 LP) ed includono lo stesso repertorio inedito, ossia: “More Companions: Unreleased, Outtakes e B-Sides” e “Southern Harmony Live: February 6, 1993 (Houston, Texas)”. In entrambi i casi sono allegati memorabilia che caratterizzano spesso le edizioni speciali; stavolta si osservano: litografie con foto dalle sessioni di registrazione, fac-simile del libretto promozionale originale con le note dei fratelli Robinson e spartiti dei brani presenti sull’album.
Per i completisti innamorati della band di Atlanta, queste ristampe “super lusso” hanno il pregio di rappresentare una definitiva estensione dell’album in oggetto. Includono infatti reperti originali delle registrazioni di studio fra fine 1991 ed inizio ’92: la cover di “99 Pounds” di Ann Peebles, rinomata interprete del Memphis Soul negli anni 70 e la facciata B rimixata “Miserable”, un’apprezzabile ballata rock fra Skynyrd e gli Stones in foggia “americana” di “Exile…”. Si prosegue con una versione di “Rainy Day Women # 12 & 35” (del Dylan elettrico di “Blonde On Blonde”) ma personalizzata in chiave southern boogie, mentre i veterani mucchioselvaggisti saranno quantomeno colpiti dall’omaggio ad un loro idolo, Ry Cooder, nel rifacimento della sua “Boomer’s Story”. Completano questa sezione dell’opera outtakes “live in studio” di brani che figureranno sull’album ufficiale; la curiosità più stimolante riguarda la versione al rallentatore di “Sting Me”, forse per questo prolungata di un paio di minuti.
Anche i dieci brani del concerto di Houston, sono tutti tratti da “SHAMC” in esecuzioni più grezze ed impulsive, certamente cariche di vigore. Non viene riproposta l’unica cover, “Time Will Tell”, sostituita da una “Jam” strumentale di quasi otto minuti, che mi ha ricordato a tratti l’impareggiabile furore dal vivo degli Who.
La durata dei brani è spesso espansa, quasi raddoppiata quella di “Thorn In My Pride”, dove spicca anche un saggio all’armonica di Chris Robinson. Nella debordante versione di “Remedy”, il cantante indugia fin troppo nell’interagire con il pubblico: sicuramente elettrizzante per chi ha vissuto l’evento, meno per chi ascolta anni dopo nel proprio foyer domestico.
Da promuovere comunque l’opera di recupero dei nastri originali, in studio e dal vivo, curata dai fratelli Robinson con il produttore George Drakoulias, tutt’altro che materiale riempitivo di mediocre qualità fonica. Se il “Sound Of The South” d’America ricorre nelle vostre preferenze come specie protetta, questi Black Crowes non possono mancare nella vostra raccolta di dischi, qualsivoglia edizione possiate permettervi.
I Black Crowes gli amo dal loro esordio…il recente Happiness Bastards conferma che sono ancora una grande R’n’R band. (n.d.r Al teatro degli Arcimboldi hanno fatto un grande concerto…fortunato chi c’era, e io c’ero.)
Certo Luca, “Happiness Bastards” non ha deluso le aspettative, i Black Crowes sono ormai un classico del R&R moderno; purtroppo non c’ero al concerto ma so che è stato molto apprezzato. Ciao
Ciao,
Di questa band amo soprattutto il loro primo album e mi piace tantissimo!
Ogni tanto però pensando che nello stesso periodo c’erano i The Four Horseman mi domando come mai molte delle band Glam / Hair invece di sparire o provare a fare dell’Alternative non provarono a seguire il cammino tracciato da questi due gruppi…
Un vero peccato dico io se pensiamo che uscirono album di valore come “Believe in Me” di Duff Mc Kagan oppure “It’s Five o Clock Somewhere” degli Slash’s Snakepit.
Ciao Julio, sulle scelte dei gruppi è difficile eccepire. Probabilmente molti hanno preferito salire sul treno in corsa del grunge o simili. Altri hanno scelto di tornare alle radici rock’n’roll. Gli ex Guns N’ Roses già con il gruppo che li ha resi famosi erano più vicini a quelle origini. Sicuramente hai già ascoltato il brillante nuovo album dei Black Crowes, “Happiness Bastards”. Grazie.
Concordo con quanto scritto da Lorenzo, sia per il fatto che anch’io li ho persi dopo i primi album ( e già “Amorica” insomma…), e sia per il fatto che neanche i Georgia Satellites erano male, anche se meno” profondi” e ben più festaioli. Oltre a Beppe e Alessandro, tra i 40 e più mila del Monster ’91 a Modena ( bellissimo, seguirono nientemeno che Queensryche all’apice della forma, Metallica che avevano appena sfornato il Black Album e gli inossidabili AC/DC) ero tra i presenti, e devo dire che la loro esibizione non fu affatto male, tanto è vero che riuscì a reggere l ‘urto dei metallari più duri e puri, anche se onestamente molta gente era venuta per gli AC/DC e quindi, essendo di gusti più hard rock, se li fece andare bene ( ricordo invece cosa successe ai poveri Kings Of The Sun al Monster ’88…), e non fu cosa da poco. Saluti e buon inizio d’anno.
Ciao Marco, le tue considerazioni su quello spettacolare Monsters Of Rock sono giuste. Super Cast, anche se gli AC/DC non temevano confronti; sono o non sono i detentori dell’album rock più venduto di ogni epoca? Inutile specificare quale…grazie e ricambio gli auguri.
Leggo sempre con piacere le tue cose, lo sai, ancor di più quando affronti i generi per cui sei forse meno conosciuto. Sì, certo, Beppe Riva “il poeta dell’Hard’n’Heavy”, il cantore dell’AOR, ma non scordiamoci del BR amante del Rock a tutto tondo. Non aggiungo altro sui Corvi Nervi, tu e chi ha commentato avete già detto tutto, questo misero commento solo per ribadire la tua ecletticità musicale e l’amore per un certo tipo di Rock. Bravo Beppe.
Caro Tim, ti ringrazio per l’eclettismo musicale che mi riconosci. Leggo da sempre il tuo Blog e so che “non le mandi a dire” quando è il caso, la tua schiettezza ed esperienza sono note. Per chi, come me, ha iniziato a seguire il rock negli anni ’60, penso sia inevitabile una propensione ad essere versatili, ovviamente nei confini delle proprie competenze. Altra cosa è sparare sentenze arbitrarie com’è costume di certi “tuttologi”. Non è nel mio stile. Ognuno ha le proprie specialità, ma ritengo necessaria la varietà d’ascolti. Ciao e buon anno!
Ciao Beppe. I Black Crowes sono stati (e probabilmente sono ancora) una grande band, con il merito di avere dimostrato che nella prima metà degli anni 90 non esisteva solo il cosiddetto grunge. Ed è un merito notevole. Li ho seguiti con entusiasmo in occasione dei primi due album, e apprezzai anche il terzo, Amorica. Poi tra cambi di line up, e soprattutto un repertorio evidentemente non più allineato alla qualità dei primi tre LP, ammetto di averli persi di vista, al netto di un parziale riavvicinamento quando la band si uni a Jimmy Page (come ricordato nell’articolo) per un tour in cui veniva riproposto il repertorio dei Led Zeppelin. Questa ristampa di “The Southern Harmony…” è un ottima occasione per i più giovani, anche se il prezzo della edizione deluxe può senz’altro essere definito “di affezione”. Una nota finale; quando penso ai Black Crowes, faccio un collegamento mentale quasi automatico con un’altra band, che qualche anno prima dei Crowes faceva sostanzialmente le stesse cose con pari coinvolgimento e perizia, ma che raccolse molti meno consensi…mi riferisco ai Georgia Stellites, che magari potrebbero essere un altro argomento interessante per il blog. Saluti e auguri!
Ciao Lorenzo. Certo, i Georgia Satellites, che hanno anticipato di un lustro (in quanto a uscite discografiche) i Black Crowes proprio sulla scena di Atlanta , meritavano una citazione, anche perché di comprovato valore (penso un pò inferiore), e comunque con una carriera consistente. Basilarmente il tuo riepilogo della carriera dei Black Crowes riflette la loro storia.
La riedizione deluxe sarebbe da avere nella sua completezza (con outtakes, live etc.) però il prezzo è proibitivo. Grazie del commento.
gruppo che ho amato tantissimo . shoutern è effettivamente un signor album di roots and roll . ho avuto la fortuna di vederli a sesto s giovanni tanti anni fa e mi ricordo il giusto feeling tra band e pubblico malgrado non fossero ancora una band di fama mondiale . bravissimi
Eh già Meo, se si ama il rock’n’roll, è difficile esimersi dall’amare i Black Crowes. Se si propende per stili musicali differenti, allora è un altro paio di maniche. Grazie del commento.
Disco capolavoro questo Companion, non c’è il minimo dubbio. Anche per me è nettamente il loro miglior lavoro. Non si sono mai più ripetuti su questi livelli, ma questo è il classico album che ti riesce “once in a lifetime”. Remedy, Thorn In My Pride, Hotel Illness, Sometimes Salvation: indimenticabili. Li vidi al Monsters del 1991, ma avrei tanto voluto ammirarli in un contesto più intimo e raccolto, magari con le canzoni di Companion in scaletta. Purtroppo è un sogno destinato a rimanere nel cassetto. Ciao Beppe.
Ciao Alessandro, si, c’ero anch’io nel ’91 ed effettivamente, esibirsi prima dei titani hard’n’heavy (AC/DC, Metallica etc.) nell’arena di Modena non sembrava il contesto ideale per loro. Inizialmente avevano dichiarato che preferivano esibirsi nei teatri (un pò come hai scritto tu) poi però hanno fatto di necessità virtù (stante il successo ingigantito) e Rich Robinson disse che si trovavano perfettamente a loro agio anche negli stadi. Grazie!