Uno Sguardo ai Giorni del Futuro "Passato"...
Ognuno vive intensamente il proprio tempo, e sul fronte della musica rock, ho iniziato a drizzare le antenne in un periodo eccezionale, quando parallelamente nascevano l’hard rock ed il progressive…Quest’ultimo è il fenomeno che ha sospinto oltre l’immaginabile le frontiere del cosiddetto “rock classico” con uno spirito genuinamente avventuroso ed animato da voglia di sperimentare nuove modalità espressive. Non c’è stato più nulla di paragonabile; anche per questo molti “veterani dell’ascolto” sono infastiditi dalla straripante mediocrità delle tendenze attuali. Non ravvisare l’enorme gap qualitativo fra quei tempi di grandi slanci creativi underground e le proposte spesso inconsistenti del cosiddetto rock moderno, significa solo fare il gioco del sistema discografico, ovviamente bramoso di gettare nuovi idoli in pasto ai teen-agers, oppure è sintomo di scarsa cultura in materia.
Verso nuovi sbocchi intellettuali cominciò ad orientarsi il rock nel 1967, una volta superato lo splendore pubescente della generazione beat: non solo grazie alla contro-cultura hippie della svolta psichedelica, ma anche nei primi tentativi di confronto con la musica “colta”, operati da Procol Harum, The Nice e Moody Blues, fino alle avanguardie del nuovo jazz-rock inglese. Era la genesi di tutto quanto fu etichettato “rock progressivo”, un termine che non voleva imporre barriere divisorie fra generi, ma riassumeva in sé le spinte eclettiche dei gruppi di quel periodo, prevalentemente diversissimi fra loro. La Decca fu la prima etichetta importante ad accorgersi che il movimento “sotterraneo” necessitava di appositi metodi di marketing per diventare rilevante anche sul piano commerciale; dalla casa-madre sorsero così la Deram e la Deram-Nova Series, per traghettare il rock di fine sixties verso il nuovo decennio, sotto il segno del progressive. Grazie ad esso, si metteva in nuova luce un’ “indipendente” storica, la pink label Island di Chris Blackwell; nell’ottobre ’69 diede i natali all’album-manifesto del movimento, “In The Court Of Crimson King” dei King Crimson; tredici mesi dopo, realizzerà l’esordio del primo supergruppo prog di grande successo, Emerson, Lake & Palmer.
Alla Island faranno seguito una serie di analoghe imprese, innanzitutto la Charisma di Tony Stratton-Smith, oggetto di venerazione in Italia, dove Genesis, Van Der Graaf e Audience riscuotevano grande ammirazione.
L’idea di etichette-satellite specializzate in underground & prog sarà ripresa da altre major: da una costola della EMI nacque la Harvest, verso la quale dirottò anche gruppi ad alto potenziale come Deep Purple e Pink Floyd; la Philips/Phonogram, oltre alla fugace Nephenta, generò l’inconfondibile “spirale” (swirl) Vertigo, che innalzò i Black Sabbath all’apice della popolarità. Inoltre la RCA costituì la leggendaria Neon.
Contemporaneamente, in linea con le nuove ambizioni del rock, il più esaustivo LP prendeva il sopravvento sul singolo come principale formato discografico, e le etichette diedero grande impulso a raffinate copertine che sviluppassero uno stretto rapporto musica-immagine e rendessero più appetibile al pubblico la proposta musicale degli artisti emergenti. Come non ricordare opere iconiche di Hipgnosis, Roger Dean o Marcus Keef?
Ma ora diamo spazio alla musica, e non aspettatevi i soliti nomi di richiamo, Yes, Genesis, Jethro Tull o King Crimson, che puntualmente si alternano sulle copertine delle riviste specializzate bisognose di vendere. Che altro aggiungere su di loro? Andiamo oltre…da sempre ho un debole per le formazioni “cult”, ed inizio con una mini-serie di tre, fra le migliori che all’ombra di altre ben più famose, consolidarono la leggenda del rock progressivo.
A voi: Spring, Cressida e Julian’s Treatment…
Solitaria mirabilia del rock sinfonico, opera di un gruppo sfumato nel Mito senza concedere repliche, l’album degli Spring è una sorta di Sacro Graal del progressive, alloggiato nell’opulenza dell’originale copertina apribile di sei facciate.
La città che ha dato loro i natali è Leicester, la stessa dei Black Widow, “diabolici” rivali dei Sabbath, oggetto di culto nelle nostre lande più che in patria. Nel 1965, il drummer Pat Moran ed il bassista Adrian “Bone” Moloney, costituiscono la sezione ritmica degli Sleepy John’s Opus, che si ribattezzano Sissy quando il primo vocalist, Leon Olivier, decide di lasciare cedendo il microfono allo stesso Moran. Il quintetto completato da Tony Shipman (chitarra), Graham Bevin (tastiere) e Terry Abbs, che aveva sostituito Moran alla batteria, inizia ad esibirsi a nome Spring nel giugno 1969. Un mese dopo, nel corso delle necessarie peregrinazioni “live”, esauriscono il carburante del furgone nei pressi di Monmouth; casualmente incontrano Kingsley Ward, fondatore degli studi Rockfield, sempre a caccia di nuovi talenti. Li invita così a suonare e ne diviene il mentore. A cavallo fra il 1969 ed il 1970, gli Spring raggiungono l’assetto definitivo: il chitarrista Ray Martinez ed il batterista Pique Withers fuoriuscivano dai Primitives, che si erano trasferiti in Italia dove il cantante Mal diventava un idolo delle teen-agers. L’ultimo innesto è il tastierista Kips Brown.
Ma giungiamo alla fantasmagoria musicale… Nel periodo di maggior fermento della scena prog inglese, Spring elaborano vivissime reminiscenze classiche con il mellotron in primo piano, traendo la loro raison d’être dai primi esperimenti “orchestrali” dei Moody Blues, evoluti nei Genesis di “Trespass” e nel capolavoro Crimsoniano “In The Court Of…”. Il mellotron è lo strumento più vulnerabile di quell’epopea rock, ma è insostituibile nella ricerca d’atmosfera, nell’ispirare arie che recano con sé il sapore magico e misterioso di antiche leggende inglesi. E gli Spring ne hanno ben tre in organico (Moran, Martinez e Brown si dividono le parti…), per non cedere alla tentazione delle sovraincisioni intensive, che contagia molte prog-bands tacciate di abusi tecnicistici.
La regia in studio era affidata a Gus Dudgeon, convinto dall’amico Kingsley Ward: diventerà uno dei più famosi produttori inglesi, avendo legato il suo nome ad opere di vastissima risonanza come “Space Oddity” di Bowie e a ben 17 albums di Elton John: Gus é morto nel luglio 2002, a 59 anni, in un incidente stradale alla guida della sua Jaguar… A lui si devono le note di presentazione del disco degli Spring, definito “specchio dei loro concerti, dove risultavano sovraincise solo alcune parti di chitarra acustica”. Venne registrato fra l’inverno del 1970 e la primavera ’71 principalmente agli studi Trident di Londra (con due eccezioni elaborate ai Rockfield). L’album esce in maggio per la Neon, la succursale “underground” della RCA, che commissionava varie copertine a Marcus Keef, eccezionale fotografo e designer affermatosi con i primi artworks dei Black Sabbath (soprattutto la spettrale immagine dell’esordio), e con tanti altri capolavori, a cornice degli LP di Colosseum, Affinity, Beggar’s Opera, Dando Shaft, Jimmy Campbell, Zior etc.
Lo stile iconografico adottato da Keef per l’album degli Spring era alquanto macabro: ritraeva un soldato morente riverso sulla riva di un fiume, con le acque arrossate dal suo sangue. Anche la musica del quintetto di Leicester affondava le sue radici nelle saghe gotiche, e “Grail” ne è un fulgido esempio: senza nulla concedere alla pesantezza ritmica, sostituita da un raffinato rincorrersi di quiete e moto, gli Spring avvicinano come nessun altro le glorie del Re Cremisi, esibendo anche un degno discepolo dell’innovativa scuola di Mike Giles, il drummer Pique Withers. Il capolavoro assoluto è probabilmente la sinfonia velata di tristezza di “The Prisoner (Eight By Ten)”, dove i mellotron e la sensibilità del vocalist Pat Moran illustrano un sofisticato clima crepuscolare, rinunciando ai toni sfarzosi che la ricca strumentazione suggerirebbe; e quel crescendo al ritmo di marcia militaresca è un autentico attentato al cuore per i nostalgici dei primi Genesis.
Il maestoso, dinamico stile progressive di “Golden Fleece”, contraddistinto da agili fraseggi di chitarra e mellotron in “Gazing”, identificano l’impronta riconoscibile del gruppo, che comunque eccelle nel rock più spoglio e vagamente hard di “Shipwrecked Soldier” e “Inside Out”, o nel retaggio melodico beatlesiano di “Boats”.
Il gruppo si impegna in una fitta attività “live” per la promozione dell’album, che secondo fonti ufficiali viene stampato in duemila esemplari. In particolare si ricorda un concerto a Londra in apertura dei Velvet Undergound; ma gli Spring sono funestati dal destino ingrato che toccò a nomi leggendari, allora finiti ai margini della ribollente scena…Il co-fondatore Moloney e Martinez lasciano rapidamente; il chitarrista disapprova il differente orientamento musicale del gruppo, che tenta di risollevarsi mettendosi al lavoro per un secondo album, mai pubblicato ufficialmente perché la Neon decide di licenziarli.
In realtà i tre brani principali, proposti su varie riedizioni, non abbattono lo standard qualitativo dell’opera prima. “Fool’s Gold” porta sugli scudi l’organo Hammond di Kips Brown, mentre “Hendre Mews” si avvicina alla formula degli Yes nelle ariose polifonie vocali e “A Word Full Of Whispers” estende a sua volta l’affresco… Desta però stupore che nessuno di essi rechi traccia del marchio di fabbrica degli Spring, il mellotron!
Troppo presto, nell’aprile 1972, calerà il silenzio sulla band di Leicester, che annuncia lo scioglimento. Moran trova rifugio proprio negli studi Rockfield, dove si rigenera come ingegnere del suono, contribuendo all’opus magnum dei Queen, “A Night At The Opera” e al prestigioso “A Farewell To Kings” dei Rush, oltre a lavorare con i Van Der Graaf Generator. Il passo successivo è rivestire il ruolo di produttore per album importanti di Iggy Pop, Hawkwind, Lou Gramm e soprattutto “The Principle Of Moments” di Robert Plant, una delle grandi stelle di quegli anni che furono avari di soddisfazioni per gli Spring.
Ray Martinez e Kips Brown continueranno come musicisti di studio; miglior sorte sarà riservata a Pique Withers, futuro batterista (nei primi quattro album) dei Dire Straits. I due membri fondatori, Moloney e Moran, sono accomunati anche nella prematura scomparsa, rispettivamente nel 2010 e nel 2011.
Ristampe Consigliate
“Spring” invocava necessariamente una riedizione che valorizzasse anche il tenore artistico della tripla copertina apribile, straordinaria quanto il contenuto musicale. Negli anni ’90 era riapparso in vinile solo un paio di volte, entrambe da ignorare: nella prima occasione si trattava di un bootleg, fedele al formato originale ma con una sfuocata riproduzione della classica fotografia di Keef; nella seconda, la copertina era svilita da un orrendo restringimento dell’immagine, ridotta su due facciate con contorno di bande nere!
La ristampa in vinile più professionale, con fedele tri-fold sleeve (estesa a doppio LP con aggiunti tre brani) è quella edita da Akarma nel 2002. Numerose invece le riedizioni CD; aveva iniziato l’americana The Laser’s Edge, con un remaster del 1992; due anni dopo le fece seguito la solita Repertoire, che nel 2007 replicherà con un CD incluso in card sleeve, ma purtroppo, solo “doppia” (a differenza della precedente, più rigida copertina Akarma). La più bella riproduzione in miniatura dell’originale è opera della giapponese Belle Antique (2013). Tutte le ristampe CD includono le canoniche tre bonus dalle sessioni per il secondo album, che ho citato precedentemente.
Come nel caso dei Quatermass (vedi sul Blog), la ristampa definitiva è dell’inglese Esoteric, datata 2015. Confezione jewel case per un doppio CD che include tutti i demo del secondo album, rendendo inutile la ricerca di bootleg del medesimo e simili, a nome “Spring 2” oppure “Second Harvest”.
CRESSIDA – Raffinati Esteti del Suono
Accanto ai più acclamati Black Sabbath, Uriah Heep e Gentle Giant, numerose entità da culto hanno contribuito a rendere leggendario il catalogo della swirl label Vertigo: fra queste Clear Blue Sky, Dr.Z, Gracious, Gravy Train, Warhorse, e naturalmente Cressida.
Apparso nel 1968 e con un nome tratto dall’opera di Shakespeare, “The Tragedy Of Troilus And Cressida”, il quintetto venne scoperto da Ossie Byrne, produttore australiano giunto a Londra per imporre i primi Bee Gees del singolo pop “New York Mining Disaster 1941” (non storcete il naso, è un gioiello…!).
Nell’anno di grazia 1970, i Cressida consacrarono l’album d’esordio alla causa del dilagante rock progressivo, rifuggendone i toni più ridondanti e tecnicistici, ma creando atmosfere velate di tristezza ed austere come i paesaggi rurali delle contee inglesi. Il cantante Angus Cullen ne rappresentava magistralmente gli umori, con uno stile vocale poco appariscente ma duttile nell’adeguarsi alle sfumature del suono. Pur distante dalla dimensione spettacolare di Emerson e Wakeman, Peter Jennings imponeva le sue tastiere come principale forza motrice della musica dei Cressida; in “To Play Your Little Game”, bellissimo esempio di progressive dall’elegante linea melodica (incluso anche nella memorabile, collezionata compilation “Vertigo Annual 1970”) ed in “One Of A Group”, elabora uno stile classicheggiante influenzato dai Nice ma con un tocco più misurato. Esprime la sua versatilità nei fraseggi jazzati di piano in “Time For Bed” e suonando la spinetta in “Home And Where I Long To Be”, ma è soprattutto il mellotron a conferire un solenne tono melanconico alla title-track ed alla splendida “Down Down”; in quest’ultima anche il ritmo marziale della batteria riecheggia gli Spring, di cui vi riferiamo in questa stessa rassegna.
Il chitarrista John Heyworth consegna i suoi momenti di maggior intensità a “Depression”, caratterizzando anche l’umbratile ballata acustica “Spring ‘69”.
Al fascino discreto e alla sobria eleganza dell’eponimo “Cressida”, farà seguito nel 1971 il secondo “Asylum”, a sua volta edito dalla Vertigo, ed adornato da un’enigmatica copertina apribile dello straordinario fotografo Marcus Keef.
Rispetto all’esordio, i Cressida si lanciano con maggior decisione nel vortice progressivo, adottandone senza riserve i principi compositivi a base di articolati arrangiamenti strumentali; a loro volta coinvolsero un’orchestra, seguendo l’esempio dei grandi del rock sinfonico, ma senza cadere in eccessive tentazioni retoriche.
Le sonorità prediligono colori tenui e crepuscolari, brumose atmosfere tipicamente inglesi, rifuggendo toni sgargianti e chiassosi. Si può davvero parlare di raffinatezza esecutiva per il quintetto di Angus Cullen, un cantante prezioso anche in fase compositiva; al suo fianco musicisti dal tocco misurato ed elegante; permane il tastierista Peter Jennings, protagonista dell’opera prima, ma il nuovo chitarrista è John Culley, subentrato ad Heyworth. “Asylum” impartisce così una direttrice stilistica al crocevia fra Moody Blues, Caravan e Spring e la grande maturità espressiva del gruppo risalta nelle elaborate “Let Them Come They Will”, dagli influssi jazz in stile Canterbury, e “Munich”. Quest’ultima è considerata il capolavoro dei Cressida, trasfigurando la melodia iniziale, dal retaggio pop beatlesiano, in una pièce suggestiva, dove l’arrangiamento orchestrale pone in evidenza movimenti musicali particolarmente intensi, mai ridondanti. Più vicina ai canoni della canzone la malinconica, romantica atmosfera di “Lisa”, sottolineata dalle timbriche austere dell’orchestra e da ariosi cori vocali. Purtroppo il gruppo non andò oltre, ed i talenti Cullen e Jennings appassirono nell’ombra. A John Culley fu invece offerta un’altra chance, di reggere le sorti dei Black Widow, orfani di Jim Gannon: ne risultò il controverso album “III”, pur sempre dotato di spunti ragguardevoli. Il drummer Ian Clarke visse invece una breve parentesi negli Uriah Heep, legando il suo nome ad un LP rilevante come “Look At Yourself”.
Ristampe Consigliate
Stimati da sempre fra i nomi che contribuirono alle glorie progressive inglesi, i Cressida hanno confermato questa loro reputazione con l’LP “Trapped In Time – The Lost Tapes”, una compilation della Rare Vinyl Series di Record Collector (2011), che ha presto esaurito la tiratura numerata di 750 copie, comprensiva di certificato di autenticità. Include demo inediti del 1969, con le prime versioni di brani apparsi sugli album ufficiali. Un anno dopo la Esoteric l’ha pubblicato in CD, e la Belle Antique l’ha replicato in Giappone nel 2017, in entrambi i casi con bonus tracks.
Sono numerose le ristampe di “Cressida” ed “Asylum”. Segnaliamo le più recenti della Repertoire (2014), sia in CD che in vinile; CD in formato “replica LP in miniatura” nel 2010. La giapponese Belle Antique ne ha realizzato a sua volta versioni con copertine mini-LP nel 2017.
Infine, la compilation della Esoteric “The Vertigo Years Anthology 1969-1971” (2 CD-2012) è onnicomprensiva.
JULIAN’S TREATMENT - Odissea nello Spazio
Nell’estate 1969, alla vigilia della svolta progressive sancita dall’album d’esordio dei King Crimson, s’affacciava nella ribollente scena underground londinese un musicista di radici multi-etniche, fors’anche discendente degli antichi Maya: nativo dell’isola di Dominica, Julian Jay Savarin era emigrato in Inghilterra nel ’62 con la famiglia, e per qualche tempo aveva militato nella Royal Air Force. Attratto dai crescenti interessi culturali del rock d’inizio seventies, Savarin cercò di valorizzare le proprie doti di scrittore e di tastierista, teorizzando la trasposizione in chiave rock di una trilogia di fantascienza di sua creazione in altrettanti albums. Nel gennaio 1970, il quintetto composto dall’artista dominicano con il chitarrista Del Watkins (scelto anche per la sua abilità al flauto), il bassista John Dover ed il batterista Jack Drummond, veniva completato da un’affascinante vocalist australiana, Cathy Pruden; a nome Julian’s Treatment, si assicuravano un immediato contratto per un’etichetta di recente costituzione, Youngblood. Dopo il singolo apripista “Phantom’s City”/”Alda, Dark Lady Of The Outer Worlds”, il gruppo realizzava un ambizioso doppio LP, “Time Before This”; secondo Nick Saloman (alias Bevis Frond), luminare della psychedelia britannica, l’album è uscito nel giugno 1970, ma la data di pubblicazione è controversa. Indiscutibile invece l’avventurosa proposta artistica: si tratta di una maliosa opera-concept sci-fi dagli slanci progressive, dominata dal tono drammatico dell’organo Hammond, che relega la chitarra in un ruolo poco appariscente ma ben congeniale al clima tenebroso della musica, ad esempio negli squarci lancinanti di “The Coming Of The Mule”.
Il gruppo viaggia in oscure galassie (“Twin Suns Of Centauri” sarebbe stato il tema ideale di una colonna sonora) ed atterra su un tappeto di ritmi tribali in “The Terran”, forse retaggio della cultura caraibica di Savarin. Se aggiungiamo la voce inquietante della Pruden ed il flauto suonato dallo stesso Watkins in “Phantom City”, si può immaginare “Time Before This” come una sorta di “Sacrifice” astrale (si pensi alla versione pre-Black Widow con la cantante Kay Garrett). “Alda, Dark Lady Of The Outer Worlds”, esibisce il talento di Cathy Pruden in veste recitativa e solenne, ma la più pregevole melodia vocale è riservata a “Fourth From The Sun”. Gli epici nove minuti della title-track suggellano un album di grande effetto ma che passa completamente inosservato, complice la mancanza di promozione e l’inettitudine del management. L’album viene pubblicato anche in America, con una più attraente copertina in stile “rovinista” ma ridotto ad un solo LP dagli aberranti tagli effettuati su quasi tutti i brani!
Julian Jay Savarin non rinuncia ai suoi progetti, e si mette all’opera per scrivere la sua saga di fantascienza; “Waiters On The Dance” è il titolo del libro, che troverà anche la sua realizzazione discografica nell’album dallo stesso nome su Birth Records (1971). Le note di copertina lo illustrano come il primo capitolo di una nuova trilogia (“Lemmus: A Time Odissey”): “un racconto biblico, ricco di mito e leggenda”! Sul retro-copertina è raffigurato anche il profilo dell’autore, incredibilmente somigliante a Sly Stone… Julian è il solo titolare di questo secondo album, benché accompagnato da una formazione rinnovata dei Treatment; vi permangono Watkins e Dover, ma il maggior interesse risiede nella presenza dell’originale vocalist dei Catapilla, Jo Meek, che però aveva ceduto lo scettro alla sorella Anna prima dell’LP d’esordio su Vertigo, senza dunque apparirvi.
Jo si rivela seducente Sirena di pianeti sconosciuti, e “Waiters On The Dance” è assolutamente all’altezza del predecessore, ancorché meno conosciuto. In “Child Of The Night”, Julian registra i suoi più avvincenti fraseggi d’organo Hammond; l’album mostra persino maggior versatilità negli arrangiamenti rispetto all’opera prima, dagli accenti sinfonici di “Stranger” ai dinamici intrecci di chitarra e tastiere nell’heavy rock progressivo di “The Death Of Alda”, fino alle levitazioni “spaziali” di “Dance Of The Golden Flamingoes”. La voce della Meek è superba, in “The Death Of Alda”, come in “Soldiers Of Time”.
Purtroppo le quotazioni di Julian sul mercato discografico restano inconsistenti, mentre cresce vistosamente la sua fama di scrittore sci-fi, che inevitabilmente lo porta a concentrarsi in questa direzione. Si afferma proprio con la trilogia “Lemmus: A Time Odissey” che aveva ispirato le sue creazioni musicali. Resta così inedito negli anni ’80 il suo contributo alla soundtrack di “Face Of Darkness”; intorno al 1990, Savarin aveva manifestato l’intento di tornare in studio, per coronare il suo sogno di musicista visionario disperso nel cosmo, ma non se n’è saputo più nulla.
Ristampe Consigliate
Già nel 1990 la See For Miles aveva ufficializzato la prima, storica ristampa CD, “A Time Before This…Plus” con l’esclusiva storia del gruppo firmata da Bevis Frond. In tempi più recenti, l’attivissima Esoteric ha licenziato il remaster CD nel 2008, mentre l’etichetta specializzata spagnola Guerssen ha riedito il doppio LP (come l’originale) nel 2011. Infine, nel 2017 la Belle Antique giapponese ha proposto un SHM-CD con copertina mini-LP, riproducendo l’illustrazione dell’edizione americana. Nelle stesse annate (2008-’11-’17), le etichette citate hanno riedito con formati analoghi l’album di J.J. Savarin, “Waiters On The Dance”.
La storia di tre grandi band, “minori” solo per fama, non certo per bravura. Un ottimo modo per descrivere la nascita di un genere che ci ha lasciato in eredità capolavori assoluti, che anche grazie ai tuoi scritti, riascolto sempre con piacere.
Grazie del commento Marcello. Fa piacere che anche sulle band “minori” si possa raccogliere qualche consenso, tanto più che sto pubblicando un’altra trilogia di gruppi da non dimenticare, stavolta dedicata all’Hard rock. Buona domenica
onestamente è già stato espresso molto dei pensieri suscitati da un pezzo come questo nei commenti che mi precedono
a me quindi non resta che ispirirarmi al sommo Leopardi, cogliendo occasione per parafrasarlo:
…e naufragar m’è dolce
in questo mare.
perchè anche le musiche di cui si narra in queste righe del Riva richiamano esplicitamente la pura poesia.
Caro Mox, da gran conoscitore dell’epoca dici bene: certa musica era ed è poesia. Non è mai superfluo ricordarlo, sperando che susciti attenzione. Un abbraccio
Qui siamo proprio alla Università del Rock, Beppe Riva dovrebbe insegnare ad Harvard o Stanford !
Ah!Ah!Ah! Improponibile per quanto sono scarso in inglese. Ciao Baccio
Tre grandi band da un passato progressivo irripetibile ognuna con le proprie peculiarità sonore. Trovo particolarmente azzeccato il titolo dato agli Spring, perché di castello di mellotron si tratta effettivamente il loro sound, delicato e intimista lungo tutto il loro disco d’esordio. Esteti i Cressida e visionario J.J. Savarin….Grazie Beppe grande articolo 😉
Grazie L.Tex. So che ami sia l’hard rock che il progressive “storico” (fra i tuoi possibili altri interessi) ed ovviamente questo è un tratto comune fra di noi che non posso che apprezzare. Per quanto riguarda la terminologia, mi è sempre piaciuto fantasticare, è cosa nota…se poi si coglie nel segno è meglio! Ciao
Una curiosità: Condividi la forte sensazione che i Cressida del primo disco non avevano ancora abbracciato il verbo progressivo appieno con esecuzioni più essenziali e corte. Solo nel secondo si lasciano andare e “osano” in quello che purtroppo sarà il canto del cigno 🙁 . Non tutti ho notato concordano con questa analisi. Grazie Beppe! 😉
Nella seconda metà degli anni ’60, pionieri del progressive come The Nice e Moody Blues hanno vissuto la loro fase psichedelica prima di giungere ad un’autoctona maturità espressiva. Allora i gruppi attraversavano esperienze differenti per slancio creativo più che per adattamento ad una nuova “corrente”. Nell’epoca in questione, non meraviglia che i primi Cressida risentissero del passato prossimo di stampo pop-psych prima di lanciarsi nel vortice progressive. La differenza nel passaggio fra i due album si sente, ma non è tale da farli apparire troppo distanti. Spesso gli album d’esordio sono stati un calderone di svariate idee, mentre i successivi apparivano più focalizzati sul tema prescelto. non necessariamente risultavano però migliori. Grazie Tex, a risentirci
Grazie per le precisazioni…. a presto. L.
I cosiddetti gruppi “minori” spesso si sono rifatti del destino avverso grazie a tanti riconoscimenti postumi. Certo sono sicuro che avrebbero preferito ottenere subito l’attenzione che meritavano, ma perlomeno non sono affatto caduti nel dimenticatoio. Quello che davvero serve a loro oggi sono articoli ben scritti e approfonditi, piuttosto che la solita frettolosa citazione. Un grazie a Beppe per l’eccellente lavoro di rivalutazione del passato, visto alla luce della qualità e non della quantità di dischi venduti, ed anche alle case discografiche specializzate nel ripescare questi gioielli con attenzione alla grafica, al suono e alle spesso interessanti bonus tracks. PS: mentre scrivo sto ascoltando il disco degli Spring. Non notate anche voi una certa somiglianza tra il ritornello di “Grail” e il cantato di certi brani dei Police?
Paolo ciao, in questo periodo sono davvero più interessato a scrivere di gruppi che non hanno molta “esposizione” mediatica (se non presso i circuiti specializzati). L’ho scritto nel paragrafo introduttivo, comunque non sarà una regola precostituita. Per quanto riguarda il riferimento dei Police hai ragione, fa sempre piacere leggere queste attente osservazioni. Fra l’altro i Police hanno influenzato persino dei giganti del progressive come i Rush (negli anni ’80 inoltrati) quindi c’è una sorta di continuità fra tutto ciò. Grazie e a presto