L’ho già scritto, sono cresciuto ascoltando ed amando la musica rock dei Seventies. Certo, intorno alla metà del decennio precedente avvicinavo con dedizione il beat italiano e il pop inglese, ma ero ancora un po’ troppo acerbo. Non mi sentivo così precoce d’aver capito tutto o quasi a dieci anni. Magari altri lo lasciano intendere…Mi sembra già audace sostenere che l’”età della consapevolezza” per me era sbocciata nel 1970, da matricola liceale. Al di là dei tanti idoli del rock universalmente riconosciuti, come Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath, o sciaguratamente dimenticati (vedi Emerson, Lake & Palmer), ai quali anch’io ho reso omaggio per quanto possibile, mi sono appassionato ad un’infinità di gruppi, o gruppuscoli per i cinici che riconoscono la grandezza solo se commisurata al successo di massa.
In certi casi, mi hanno emozionato più dei “famosi”, per il senso di mistero che li circondava, per quel che avrebbero potuto essere e non sono stati; e le responsabilità non vanno necessariamente imputate ai musicisti, spesso giovanissimi e vampirizzati da manager fraudolenti o case discografiche concentrate solo su redditizie priorità.
Allora eccomi tornare idealmente nell’Era dei Dinosauri per ricordare qualche estatica storia marginale nell’ormai estesa epopea del rock, perché l’anima di questa musica che abbiamo seguito con trepidazione, può essersi reincarnata ovunque scoccasse la scintilla creativa, non solo nei fenomeni certificati da una messe di dischi di platino. Vado dunque a celebrare chi non è mai stato troppo celebrato, in questo caso una “trilogia” (è un termine di cui abuso, per buoni motivi) di gruppi da culto che hanno legato i propri nomi soprattutto – o esclusivamente – ai 3 album che sto per presentarvi, oggetto del desiderio di conoscitori & collezionisti sparsi ovunque nel globo terrestre.
Aggiungo che queste queste preziosità di vinile, sono casualmente uscite a 3 anni di distanza l’una dall’altra (1970-’73-’76) e la mia sequenza rispetta l’ordine cronologico, ripercorrendo quei magici anni ’70.
Se avete voglia di approfondire, potete leggere ciò che segue.
Peccato davvero che all’origine dei Settanta, non abbiano riscosso molto credito certe geniali intuizioni dell’ex July e Nirvana, Patrick Campbell-Lyons; l’allora direttore artistico della Vertigo, che già aveva scovato gli esoterici Dr.Z (ne scrissi agli albori del Blog), si invaghì di una formazione triangolare dell’Essex, Clear Blue Sky, assistendo ad una loro esibizione all’Acton Club di Londra.
Così Lyons decise di produrre l’omonimo LP, edito nel 1970 e destinato a diventare un’opera da culto, indelebile nella memoria di Vertigofili e non. Il cerchio di vinile era racchiuso in una delle primissime copertine di Roger Dean, celebre soprattutto per il sodalizio con gli Yes, che iniziò con le ingegnose illustrazioni di “Fragile” (1971); sebbene non fossero distanti anni-luce, il dipinto di “Clear Blue Sky” è sicuramente più “primitivo”, e mostra un Dean ancora in fase sperimentale nella definizione del suo inconfondibile stile, inalienabile marchio di fabbrica dell’arte progressive. Non è meno fantasioso il viaggio musicale dei tre musicisti, che realizzarono il disco all’età di 18 anni ed in una condizione semi-professionale.
Fra i triumvirati rock chitarra-basso-batteria, Clear Blue Sky furono dei pionieri nell’incidere una suite di 20 minuti, “Journey To The Inside Of The Sun”, ispirata ai trip “spaziali” dei Pink Floyd: il brano che occupa l’intera prima facciata dell’album, svelava però un’identità musicale hard rock-progressive e vale soprattutto per il lungo tema iniziale, “Sweet Leaf”: immaginate un grezzo incrocio fra “Saneonymous” degli High Tide e “The Warning” dei Black Sabbath, con minor talento ma altrettanta freschezza e giovanile irruenza, ed avrete il quadro di un classico episodio heavy, scevro da ingombranti vincoli strutturali. Fra gli altri stralci di grande rilievo, “You Mistify” porta ancora sugli scudi l’impetuosa chitarra di John Simms, sostenuta dall’incessante sezione ritmica costituita dal basso di Mark Sheather e dal drumming di Ken White. “My Heaven” è invece una scheletrica ballata, caratterizzata da un’avvolgente melodia d’umore sofferto, comunque incline alle fughe strumentali; proprio in conclusione, la trascinante “Birdcatcher” chiude la sequenza degli highlights, con finale stralunato e flauto in stile Ian Anderson.
Prima di dissolversi nel 1973, Clear Blue Sky incisero un secondo album rimasto a lungo inedito; nel 1990, con il consolidato interesse verso la storica tradizione underground, eccolo finalmente riesumato; usciva a nome “Destiny” (anche “Destiny Vol.II”, in vinile), confermando le incontestabili quanto trascurate virtù del trio. John Simms, forse l’unico ad aver continuato dopo lo scioglimento, suonando in gruppi minori come Tangerine Peel, ma anche con il grande Ginger Baker, ha ricomposto Clear Blue Sky negli anni ’90. La rigenerata formazione, compreso l’originale batterista Ken White, si è presentata nel ’96 con l’interessante “Cosmic Crusader” (Aftermath/Saturn), preludio ad un nuovo corso sempre più di nicchia. Includeva il brano “The Age Of Dinosaurs”: poteva essere una metafora sulla genesi del gruppo, nei tempi di grande fulgore per numerosi nomi classici del rock. Da qui l’idea del titolo di questa “trilogia” retrospettiva.
Il chitarrista Rod Roach ed il vocalist Adrian Hawkwins costituivano l’asse portante degli Horse, quartetto inglese che realizzò un solo album omonimo nel 1970: considerato un archetipo doom, si annunciava con un tempestoso brano d’apertura, “The Sacrifice”, quasi una risposta heavy rock all’omonimo capolavoro occultista dei Black Widow.
Roach e Hawkwins, autori di tutti i brani del disco (ristampato nel 2016 in pregiata edizione die hard su Rise Above Relics) si ritrovarono insieme nei Saturnalia, a loro volta inseriti, per iconografia passabilmente inquietante, nell’onda dark dell’underground inglese. Saturnalia erano però maggiormente influenzati dai suoni e dalla stagione hippy degli anni ’60, suscitando l’immediato interesse dell’indimenticabile cantante degli Yardbirds, Keith Relf, nel tempo in cui si era dedicato alla produzione, dopo l’abbandono dei Renaissance e prima della fondazione degli Armageddon (1974). Nel quintetto, i due ex-Horse condividevano la leadership con l’affascinante vocalist Aletta Lohmeyer, austriaca di nascita; dalla dialettica fra le loro personalità scaturì l’originale proposta musicale del quintetto di “Magical Love”, una maliosa commistione fra gli ombrosi toni heavy-dark degli Horse, e gli influssi di spirituale folk elettrico prediletti dalla cantante, che può esser riconosciuta come una sorta di mater tenebrarum delle tanti maliarde gotiche che oggi “infestano” la scena del Vecchio Continente.
Il solitario album dei Saturnalia uscì all’inizio del 1973 su etichetta Matrix, sebbene fonti più che autorevoli (i tomi enciclopedici “Tapestry Of Delights” e “Galactic Ramble”) lo facciano risalire addirittura al 1969; fu uno dei primi picture-disc dell’era progressive, ma successivo al più famoso “Air Conditioning” dei Curved Air. E forse non è un caso che il manager fosse lo stesso Mark Hanau “silurato” dai Curved Air, che cercò la rivincita proprio con i Saturnalia, verosimilmente colpito dalle doti di Aletta, che poteva competere con Sonja Kristina, per talento vocale e come sex symbol dell’epoca prog. Entrambe avevano inoltre partecipato a differenti versioni del celebre musical “Hair”.
Il disco e la disposizione circolare delle immagini sul picture erano ispirati ad una complessa filosofia “cosmologica”, e nell’edizione originale, l’LP presentava etichette tridimensionali su entrambe le facciate, con annesso fascicolo spesso disperso, e quindi difficile da scovarsi per i collezionisti che anni dopo si misero alla ricerca dell’attraente operina; “Magical Love” denunciava inoltre una sensibile deperibilità fonica del pionieristico vinile “illustrato”. L’inaugurale title-track esibiva subito le virtù di Aletta, gran sacerdotessa del rituale Saturnalia, che con la sua voce dipinge un’avvincente melodia, e sembra riflettere nelle brume britanniche i raggi di luce della stella californiana Grace Slick.
In “She Brings Peace” e “Winchester Town” riemerge invece il maestoso retaggio proto-doom degli Horse, evocato dalla voce grave e sofferta di Hawkins, il cantante maschile; nella seconda, che è il miglior saggio strumentale del quintetto, la chitarra di Roach alterna inflessioni psichedeliche insieme aspre ed oniriche. Sul secondo lato, dopo un’intro acustica, “Traitor” esibisce notevoli spunti di rock elettrico, rievocando certe epiche saghe dei primi Wishbone Ash. “Dreaming” è invece profondamente folksy e vicina alle oscure ballate degli Stone Angel; celebra la voce spettrale di Aletta, che in verità agisce benissimo anche in combinazione con il timbro virile di Adrian Hawkwins, nella misticheggiante pièce di chiusura, “Step Out Of Line”.
Di loro non si seppe più nulla, se non che Rod Roach rimase nell’ambiente musicale in qualità di produttore. Non meraviglia che in Italia, dove persiste il fascino per il dark-prog, siano riapparse in tempi relativamente recenti accurate riedizioni picture-disc, a partire da Akarma nel 2003, comprendente anche il raro booklet. Ma a riconsegnare a nuova vita un autentico classico under, è soprattutto la riedizione “definitiva” in 100 copie della Black Widow (2019), addirittura con doppio libretto, due poster, bonus CD ed altro ancora.
Molto tempo prima che gli Slipknot rendessero famoso lo Iowa nella mappa geografica del rock, il power trio Truth And Janey emerse da quello stato per realizzare uno dei migliori album americani di hard rock “sotterraneo” dei Seventies, “No Rest For The Wicked”.
All’atto della fondazione (1969), il gruppo si chiamava semplicemente Truth, titolo del debut-album da solista dell’idolo Jeff Beck, pubblicato un anno prima. La formazione triangolare, guidata dal giovane chitarrista-prodigio Billy Lee Janey, era naturalmente ispirata ai trionfali modelli di Cream ed Experience. Nel ’72 Truth autoproducevano il primo singolo, “Midnight Horsemen”, già sintomatico del loro killer heavy-blues, che azzardava sul retro una galoppante versione di “Under My Thumb” dei Rolling Stones. Un anno dopo gli faceva seguito un altro 45 giri, che scopriva un’anima boogie affine agli ZZ Top, “Straight Eight Pontiac”/”Around And Around”. A quel punto il trio decideva di ribattezzarsi Truth And Janey per meglio identificarsi, iniziando una strenua attività live che culminava nello show al festival di Davenport (Iowa), al quale assistettero 20.000 spettatori, sedotti dalla principale attrazione, Blue Oyster Cult! L’amalgama dei musicisti era dunque perfettamente collaudato, quando nel 1976, anno storico dell’heavy rock U.S.A. (con grandi dischi di Aerosmith, Starz, Kiss etc.) realizzavano il loro classico strettamente per conoscitori, “No Rest For The Wicked”, edito in 1000 esemplari dall’etichetta indipendente Montross.
L’album d’esordio scatenava l’offensiva dello straripante talento Billy Lee Janey, che sarebbe stato un potenziale rivale dello stesso Buck Dharma (B.O.C.) se delle sue sorti si fosse interessata una major. Lo smilzo chitarrista esibiva infatti classe innegabile nel riprocessare lo stile dei capiscuola (Beck e Clapton) alla luce del nuovo hard rock urbano jankee, con evidente adesione alle radici blues nelle versioni di “I’m Ready” (Willie Dixon) e “Ain’t No Tellin’” (John Hurt).
La forza dell’album risiede comunque nelle composizioni originali, a partire dallo stridente impatto à la Granicus di “Down The Road I Go”, con la voce di Billy Lee che avvicina la vena soul di Mark Farner dei Grand Funk. Dopo l’incalzante “The Light”, che combina l’eredità di Cream e MC 5, “Remember” è gran palestra d’esercitazione per le legittime vanità solistiche di Janey, e l’album esibisce altri vertici nella title-track, che avrebbe ben figurato nel primo album di Montrose, e nel diffuso magnetismo heavy-psych di “My Mind”.
Il 1976 sarà il vero anno di grazia di Truth & Janey, che registreranno anche un doppio Live (4/8/76): vedrà la luce solo nell’88, ribattezzato “Erupts!” in successive ristampe.
Ma con la dipartita del drummer Denis Bunce il gruppo perdeva colpi e circa un anno prima dello scioglimento realizzava un secondo album, “Just A Little Bit Of Magic” (1977), lontano dai fasti del predecessore. Billy Lee Janey iniziava così un’oscura carriera solista devota al blues, proseguita a lungo.
“No Rest For The Wicked” è stato ripetutamente ristampato da Rockadrome, l’ultima volta quest’anno, in vinile colorato edizione limitata di 100 copie, qualche centinaio in più in vinile nero. La riedizione ufficiale in CD risale invece al 2001, ad opera dell’etichetta texana Monster, con i due citati singoli quali bonus-tracks.
Buongiorno Beppe, grazie per la tua risposta e anche per il garbo e la cortesia mostrate nella risposta. Volevo chiederti un tuo parere sul genere Jazz rock/fusion, in particolare su un gruppo che forse è il mio preferito del genere, i Passport nonché il fondatore del gruppo Klaus Doldinger, grande sassofonista. Nei Passport ha militato il batterista Curt Cress, turnista straordinario che ha suonato anche con i Saga (altro gruppo famtastico). Recentemente ho ascoltato proprio i Saga in concerto su youtube e devo dire che il cantante Michael Sadler ha ancora una voce strepitosa così come Ian Crichton è ancora oggi un gran chitarrista. Mi ritornano alla mente i concerti che venivano trasmessi dalla RAI nei primi anni 80 (programma Concertone)…. Saga, Foreigner, Heart, ZZ top, Huey Lewis and the news, Gary Moore, Jethro Tull, Loverboy…. Per fortuna oggi è presente quasi tutto su youtube. Proprio ieri, dopo tantissimi anni, ho riascoltato Fiore di metallo dei Califfi, una meraviglia di progressive vicino in alcuni brani ad Emerson Lake &Palmer…. grazie Beppe.
Ciao Paolo, come ti ho detto non sono un esperto di jazz-rock fusion, quindi il mio giudizio nell’area attinente non è sostanziale. Ricordo i tedeschi Passport quando molti appassionati si erano avvicinati a questo genere spinti dalla critica negli anni ’70. Ho solo una loro apparizione al Beat-Club nei DVD della sua serie, se non erro. Probabilmente il successo che i Saga hanno riscosso storicamente in Germania ha favorito la collaborazione con il batterista Curt Cress. Complimenti per aver seguito i concerti della Rai che citi, ma io all’inizio degli anni ’80 ero sempre in giro, ho visto ben poco in TV! I Califfi avevano iniziato come gruppo beat piuttosto “leggero”, poi la loro conversione al prog fruttò il bel “Fiore di metallo” che ti ha giustamente appassionato. P.S.: ELP forever! Thanks…
Buongiorno, sono Paolo, ho 65 anni quindi della generazione di Beppe Riva che saluto. Vorrei chiedere se è possibile leggere qualcosa sugli anni ’60 dato che è da quel periodo che è iniziato il mio interessamento alla musica. Già da bambino, avendo fratello w sorella più grandi, in casa risuonavano le note dei gruppi di allora : Beatles, Who, Rolling Stones, Byrds (meravigliose le loro parti vocali con una qualità sublime dei cori di Crosby, McGuinn, Clark e Hillman), Young Rascals, Moody Blues (altro mio gruppo preferito, Justin Hayward per me è stato uno dei più grandi compositori e musicista di tutti i tempi), fino alla fine dei ’60 quando ascoltare i Led Zeppelin per me fu un evento sconvolgente che ha cambiato la mia vita…. Il mio interesse per la musica è a 360° spaziando per l’opera lirica, jazz e jazz fusion, un’autentica passione per la chitarra fingerpickimg (Tommy Emmanuel, Steve Howe, Davide Sgorlon, Gavino Loche, Riccardo Zappa), repertorio classico (John Williams, Maurizio Colonna, Alirio Diaz), John McLaughlin, Al di Meola e Paco De Lucia. Ultimamente ho apprezzato molto Andy Timmons soprattutto nei suoi live streaming. Sono grande fan dei Rush e del grandissimo Frank Marino, ancor poco conosciuto in Italia, poi ancora i Golden Earring con uno straordinario musicista come George Kooymans….Potrei continuare non so per quanto ma mi fermo qui e chiedo a Beppe Riva se nei suoi interessi ci sono anche i musicisti di cui sopra…. un saluto da Paolo Magherini.
Buongiorno a te, Paolo. Ammiro assolutamente i vari gruppi-caposaldo degli anni ’60 che hai citato; condivido le tue precisazioni sui cori dei Byrds e sull’importanza dei Moody Blues come gruppo “cerniera” fra il sound dei sessanta ed il prog. Detto questo, trovo un pò superfluo da parte mia occuparmi su un blog “di nicchia” di gruppi tanto importanti e di cui si è scritto molto (a parte Young Rascals e gli stessi Moodies…). C’è comunque Giancarlo che ha una maggior attitudine a riguardo e che si è già esposto ad esempio sugli Stones, recentemente. Personalmente ho in serbo un’idea abbastanza originale, relativa a canzoni dei Sixties “riattivate” in seguito, vedremo come, un pò in linea con il mio modus operandi. Comunque ritengo che in futuro tornerò sul tema di quel decennio (già anticipato in alcuni articoli), diciamo non nell’ambito delle celebrità. Per quanto riguarda il jazz ed i virtuosi della chitarra elettrica, non sono onestamente la mia “tazza di tè”, mi piace certo prog contaminato con il jazz, questo assolutamente si, e fra i chitarristi che segnali ho molto stimato John Mc Laughlin, specie all’epoca della dirompente Mahavishnu Orchestra. Con i Rush (ho scritto del 40° Anniversario di “Moving Pictures”), Frank Marino ed ancor di più Golden Earring (perché troppo sottovalutati) sfondi una porta aperta. Ho incluso la loro splendida “Twilight Zone” nella mia “Nostalgia” degli anni ’80, pubblicata da non molto. Grazie davvero per esserti espresso anche sui tuoi interessi.
Dimenticavo un grosso ciao, e molto bello. Ciò che scrivi Pier Luigi
Grazie tante Pier Luigi anche perché i gruppi trattati “nell’era dei dinosauri” non sono esattamente “popolari”…A differenza degli Yes e di Chris Squire di cui ti dichiari grande fan (fra gli altri) che indubbiamente erano dei giganti del rock. Fa veramente piacere che tu abbia apprezzato e che intervengano sul blog tanti nuovi lettori. Ciao!
Io sono e ho vissuto x gli Yes Cris Squire, il primo album, E LED Zeppelin. Poi tutti a ruota, ACDC. fino ad arrivare a Eno. Fripp
Grande epoca abbiamo vissuto
Ciao
Mi piacerebbe che facessi
Recensioni
Su band
Sconosciute o quasi
Ad esempio :
High tide
Pink fairies
Trust
Ciao, di gruppi semisconosciuti se vedi articoli arretrati sul blog ne ho trattati parecchi. Paradossalmente, negli anni 70 e anche dopo gli High Tide hanno avuto un culto enorme in Italia, più che in patria. Gruppo straordinario. Spero di accontentarti in seguito. Grazie
Io parlerei pure dei comus e degli zior
Degli Zior già fatto, in un articolo chiamato “Trilogia dell’Occulto” di quasi un anno fa, dei Comus abbiamo accennato a proposito dei Jan Dukes De Grey, ma siccome ti definisci “prog” sai benissimo che sono tanti i gruppi di valore che si possono recuperare. Non siamo però un’enciclopedia. quindi non possiamo esaurire ogni argomento.
Certo e di Edgar Broughton band e del loro disco wasa wasa?
Suoni dell’underground, sporchi e graffianti.
Caro Beppe, come sempre è un piacere leggere un tuo articolo, perché c’è sempre da imparare e di arrivare a qualcosa di nuovo (anche se magari ha più di 50 anni).
Tra l’altro questo tuo articolo mi fa tornare in mente che tanti di noi hanno tra la loro raccolta, specie in vinile, album iper datati e semi sconosciuti ai più o perlomeno non conosciuti da chi per svariate ragioni non seguiva la musica che girava intorno a certi suoni. Chi mai si sarebbe sognatosi di ascoltare/comprare “Brain Davison’s Every which way” (1970) o “Jackson Heights- The Fifth Avenue Bus” (1972), se non aveva conosciuto i Nice. E così via per tante altre band “vecchie” come Alquin, Ekseption, Mark-Almond, Quintessence, Beggars Opera, etc., o anche altre band relativamente più recenti, come per esempio gli All About Eve e il loro splendido “Scarlet and other stories”.
Quindi grazie ancora e andrò ad ascoltare i Clear Blue Sky, come i Saturnalia e Truth and Janey, perché nel rock non esistono “storie marginali”, ma storie che per svariate ragioni ci hanno appassionato: per il suono, per il momento, per i testi, per la freschezza. Grazie Beppe.
Caro Medeo, ti ringrazio del gentile apprezzamento. Fra i nomi che citi, al di là degli ex-Nice che restano nel cuore di chi ha amato la prima band (all’epoca molto famosa) di Keith Emerson, mi piace segnalare il secondo album dei Beggars Opera, “Waters Of Change”, in genere meno quotato del primo ma dotato di una vena prog dalle aperture tendenti all’hard rock, di notevole magia. Ancora un commento istruttivo…Ciao!
Caro Beppe, concordo totalmente in merito a “Waters of change”, così come a me piace molto, seppur diverso, Pathfinder (1972), il terzo album. dei Beggars Opera. Ciao e grazie ancora.
Certo Medeo, inoltre “Pathfinder” ha una copertina (sei pannelli, dodici facciate, apribile a poster) che quasi da sola merita l’acquisto. Ciao!
Ciao Beppe, per questioni anagrafiche, la mia “consapevolezza” musicale è nata e si è affermata negli ann ’80 con l’affermazione su scala planetaria del metal. Però leggo sempre queste tue digressioni verso il prog con la stessa curiosità con cui mi approcciavo ai tuoi articoli su Rockerilla e Metal Shock. Come sempre, un pezzo da Maestro.
Alessandro
Ciao Alessandro, indipendentemente della tua considerazione nei miei confronti, di cui ti ringrazio, il tuo è un atteggiamento propositivo, che ogni appassionato di buona musica rock dovrebbe adottare. Anch’io ho fatto lo stesso con artisti storici che ho conosciuto a posteriori. Quando c’è passione e si vogliono estendere i propri orizzonti, giustamente si fa! A presto.
Enorme Beppe, grandissimo articolo ed in particolare doverosa a mio parere la *riscoperta* di una band come i Truth And Janey, che io personalmente colloco, a proposito di *trilogie*, con Cain e Poobah tra i grandi misconosciuti acts dell’hard rock americano dei seventies. Grazie Beppe e avanti così!
Complimenti a te, Giuseppe, citare insieme Truth And Janey, Cain e Poobah non è da tutti! Mi piace l’idea di aver lettori preparati anche perché significa (forse, giudicate voi) che non scrivo banalità. Ciao e grazie!
Che immersione, il bello dei tuoi scritti e che pur non vedendo i video o ascoltando solo successivamente cio’ che proponi, dalle parole viene proprio voglia (non manca mai!!!) di ascoltare, rivivere gli anni culto, immedesimarsi in quei personaggi, in situazioni musicali dove regnava la voglia di nuovo e di sperimentare, non solo con le note, ma anche con le arti visive. Che meraviglia la copertina dei Clear Blue Sky, (non li conosco musicalmente). Così come i Saturnalia, non ho mai visto il vinile, l’ effetto visivo deve essere bellissimo. Musicalmente mi piacciono molto, la voce e’ bellissima, quando il folk e il rock britannico si intrecciano sono perle di vera poesia. Forse a differenza di altre band del genere qui predomina piu’ il lato rock , daltra parte gli Horse arrivavano da un gran bel disco, granitico. Che fine ha fatto Aletta ? ma prima dei Saturnalia suonava nei club come folk singer da sola ? almeno così mi sembra di ricordare. Andro’ ad ascoltarmi i Truth, non li conosco e come al solito, stimoli la voglia di questi ascolti.
Citando un bootleg dei sabbath “Thank’ s God it’s Beppe !!!!!!”
Ciao Giorgio, se è comi dici tu per me si tratta di un successone! Citando il booklet della ristampa Black Widow, Aletta ha frequentato una scuola di recitazione, ha partecipato a commedie, film e musical; non conosco suoi lavori da solista. Mi sembra che lei stessa abbia messo in rete i brani dei Saturnalia. Ottimo che ben conosci gli Horse. Ti ringrazio tanto dell’entusiasmo manifestato, a presto.
Leggerti è stato come prendere la macchina del tempo e innestare la retromarcia verso quei mesi irripetibili a cavallo della fine dei Sixties e l’alba dei Seventies: forse il momento più bello di tutti, in cui una totale libertà espressiva si coniugava a stimoli eccezionali e una gioia di suonare che esplodeva in forme innumerevoli ed il business non era ancora invadente. Grazie perchè mettere in rete queste tue affascinanti esperienze ne consente la trasmissione. Non tirarti mai indietro se ti va di scriverne e grazie anche di questo Roger Dean acerbo ma già così definito.
Ciao Leandro, ti ringrazio davvero di aver letto e del complimento, ma anche del tuo modo di esprimere in modo così fluido ed aggiungerei, lirico, il ricordo di un’epoca davvero irripetibile. Ciao!
Grazie della tua altrettanto celere risposta
Lungi da me volere deviare l’interesse dal tema centrale del pezzo, cioè le tre band.
Ovvio che argomenti così settoriali e se vogliamo sotterranei non possano essere di dominio pubblico, ma sono convinto che tanti lettori di questo blog traggano adeguati temi di riflessione ed incentivi all’approfondimento e alla ricerca dopo la lettura di simili articoli, me compreso.
Un ultima notazione sui Messa poi chiudo per evitare di diventare tedioso:)…il riferimento a questa band italiana (a mio modesto parere per distacco la migliore uscita dall’underground negli ultimi anni) non è casuale, avendo a mio parere più di un punto di contatto con almeno due delle band citate nell’articolo. In secondo luogo è vero che sui loro tre dischi si possono trovare in rete tantissime recensioni ed interviste, sia su piattaforme italiane che estere…non è detto però che quantità sia sinonimo di qualità nemmeno nelle recensioni, difatti la chiave di lettura da parte di chi è realmente addentro a quel particolare sound, così vario, complesso, vintage e moderno al tempo stesso, non posso nascondere che mi incuriosisce vieppiu’. Detto questo mi hai comunque indirettamente risposto con l’aneddoto del discografico, chiarendo validamente la situazione rispetto ai gruppi italiani.
Grazie
Buongiorno Beppe
Questi tuoi ripescaggi di formazioni più o meno oscure del passato, in questo caso dagli anni 70, sono sempre graditissime, perché consentono di acquisire una consapevolezza decisamente più completa rispetto a tante proposte musicali che però troppo spesso vengono rappresentate quasi esclusivamente dalle band da copertina.
Inoltre forniscono un orizzonte virtualmente infinito al Vostro blog, vista la quantità spropositata di gruppi underground che si sono a suo tempo mossi nel Regno Unito e in America, per limitarci ai due principali poli del rock.
Nella fattispecie non conoscevo nessuna delle tre band in trattazione, e così d’istinto Clear Blue Sky e Saturnalia, underground inglese di alta epoca, mi paiono quelle più inventive.
Vista anche l’attuale generale pochezza delle uscite discografiche odierne, queste riscoperte sono perfette per i nostalgici, e si spera sempre che possano interessare i più giovani.
Approfitto, per la seconda volta, di questo spazio per proporre a te Beppe una band assolutamente contemporanea ed italiana, in relazione alla quale gradirei tantissimo una tua analisi e recensione dei loro tre lavori, i Messa . Che peraltro hanno a mio parere alcuni punti di contatto con le tre formazioni qui trattate.
Grazie del tuo contributo
Ciao Lorenzo, innanzitutto grazie per il tuo tempestivo commento. È importante avere il polso della situazione e quindi i vostri pareri, al di là dei freddi numeri di lettura. So bene che argomenti del genere non possono ottenere il riscontro di scritti generalisti su temi di grande diffusione e d’attualità, ma non posso rinnegare componenti importanti del mio passato in ambito musicale. Per quanto riguarda i gruppi italiani, lo dico per chiarezza a chiunque sia interessato, la situazione è ben diversa rispetto ai tempi in cui scrivevo sulle riviste. Allora il rapporto era diretto, proponevo quantità di anteprime perché i musicisti stessi si rivolgevano a me insistentemente. Ciò mi ha procurato anche disagi, accuse di favoritismi nonostante cercassi di dare spazio a tutti. Ora i rapporti sono pressoché inesistenti, gli artisti hanno tanti altri referenti e non c’è proprio bisogno che me ne occupi io. Sicuramente il livello di personalità e professionalità dei Messa non si discute. Ti racconto un aneddoto: al concerto di Milano dei Ghost ho incontrato un importante responsabile discografico italiano che sfoggiava una t-shirt dei Messa!