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Timeless : i classici

Non è ROCK AND ROLL da Top Ten, ma mi piace!

Di 6 Aprile 202320 Commenti

Dieci grandi brani di R&R americano degli anni Settanta che non svettarono in classifica

All’inizio rifulgeva la stella di Elvis Presly, ma sulla frontiera della “nuova musica” americana si battevano numerosi eroi: Chuck Berry, Little Richard, Gene Vincent, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, per nominare alcune celebrità. E come non ricordare Eddie Cochran, protagonista della copertina del numero uno di Rockerilla (1978), rivista a cui sarò sempre riconoscente perché mi offrì la prima opportunità di esprimermi su carta stampata, e per chiudere il cerchio, Bill Haley & The Comets, che con l’epocale “Rock Around The Clock” avrebbero battezzato anche il Blog che state leggendo.
Subito dopo, negli anni ’60, l’”invasione inglese” sospinta da Beatles, Stones, Who, Yardbirds, Animals, Them, Kinks etc. rese ancor più vistose le proporzioni del successo della musica giovane, raccogliendo l’eredità dei rockers americani e dei bluesmen di colore che li avevano ispirati. Inoltre, aggiunsero un peculiare tocco (beat) pop, che li avrebbe resi ancor più accessibili, facendo divampare il fenomeno.

Poi, si sa, il rock è diventato adulto ed ambizioso, spingendosi verso soluzioni progressive d’avanguardia che ben conosciamo, ma preservando grazie ad artisti di vasta risonanza e con differenti declinazioni  (dal glam al pub rock) l’originale natura quintessenziale e ribelle.
A detta di molti ammiratori, Led Zeppelin crearono la perfetta sublimazione musicale del genere nella loro “Rock And Roll” e rimodellando il R&R primordiale, vennero istituite sfavillanti e longeve carriere orientate verso sonorità heavy, si pensi ad Aerosmith, Kiss, Status Quo ed AC/DC. Lo stesso movimento punk ha rivendicato, con l’assenso di ampie fasce della critica, il ritorno alle basi primigenie e provocatorie della cultura rock. Negli anni ’80, le fortune di un certo stile, rude ed abrasivo, sono passate soprattutto fra ascesa e caduta della scena street di Los Angeles.
Al di là del succinto riepilogo storico di cui sopra, lo spirito originario del rock and roll è profondamente radicato nella terra che gli ha dato i natali, gli USA, e come appassionato cresciuto negli anni ’70, ho sempre avuto timpani di riguardo verso i grandi “perdenti” della mia musica preferita.
Questa rassegna di 10 brani, è il pretesto per celebrare sinteticamente una serie di gruppi che mi hanno impressionato e giudico seminali – spesso con il conforto di opinioni autorevoli – pur finendo a distanza, talvolta persino siderale, dai quartieri alti di Billboard.
Se vi aspettate una classifica per l’elezione del “massimo dei massimi” fra i soliti noti, temo che non vi converrà andar oltre quest’introduzione. Se desiderate qualcosa di alternativo alle abituali incoronazioni delle superstar, provate a leggere…

Tutto per amore del Rock And Roll.

MC 5: “Shakin' Street”

Tratta dall’album: “Back In The USA” (1970)

Il tempo vola e così le mode, ma gli MC 5 – ovvero Motor City Five – restano il rivoluzionario simulacro del rock’n’roll di Detroit, epicentro del suono più audace ed intransigente d’America, che diede i natali a Stooges, Amboy Dukes, Alice Cooper, Frost, SRC, Third Power etc. Il classico quintetto si costituì nel 1965, quando il vocalist Rob Tyner ed i chitarristi Wayne Kramer e Fred “Sonic” Smith furono raggiunti dal bassista Mike Davis e dal batterista Dennis Thompson.
Dopo il singolo d’esordio “I Can Only Give You Everything” (cover dei Them, 1966), attesero altri tre anni per sguinzagliare l’assalto totale di “Kick Out The Jams” (Elektra), fra i più importanti album dal vivo e di debutto di ogni tempo, registrato alla Grande Ballroom di Detroit, il primo locale “psichedelico” lontano da San Francisco.

Nonostante le vendite incoraggianti, lo stretto rapporto del gruppo con il manager John Sinclair, radicale esponente della cultura hippie di ideologia sovversiva, oltre al censurato grido di battaglia “Kick Out The Jams, Motherfuckers!” (in apertura della title-track e nelle note di presentazione del disco) provocheranno il licenziamento degli MC 5 dalla Elektra.
Subito però l’Atlantic ne raccoglieva il testimone, affidando a John Landau (in futuro, al fianco di Springsteen) la produzione del secondo album “Back In The USA”, che discostandosi dal brutalismo espressivo del live, realizza una gran sintesi di dynamite rock & roll, venerato anche da Lemmy dei Motorhead (me lo dichiarò nel corso di un’intervista). Si apre e chiude con due classiche cover – “Tutti-Frutti” di Little Richard e “Back In The USA” di Chuck Berry – ma vanta un’eccezionale sequenza di brani originali non superiori ai tre minuti, fra i quali spicca la memorabile “Shakin’ Street”, sorprendentemente cantata dal suo autore Sonic Smith (sposerà Patti Smith, ben più celebre “poetessa punk”). Si tratta di una canzone immortale, che fonde l’esuberante vitalità del riff rock’n’roll con una lirica vena “urbana” pop: “Shakin’ Street it’s got that beat, shakin’ street where all the kids meet, shakin’ street it’s got that sound…” recita il caratteristico refrain, ed è lo specchio di un’epoca, un tuffo nel passato che ridona freschezza giovanile ad ogni ascolto.

NEW YORK DOLLS: “Personality Crisis”

Tratta dall’album: “New York Dolls” (1973)

“Tutti adoravano Johhny Thunders e i New York Dolls”: Guns N’Roses, L.A. Guns, Faster Pussycat, Jetboy, e ancor prima Motley Crue, Poison e naturalmente WASP; infatti Blackie Lawless suonò con loro e dopo lo scioglimento, nel gruppo del bassista Killer Kane. E’ una citazione tratta dal libro-documento sulla scena di Los Angeles, “Nothin’ But A Good Time”, che raccoglie testimonianze reali delle formazioni su cui ci accanivamo negli anni ’80, considerando proprio i Dolls fra i fondamentali padrini dello street rock and roll, e non solo del punk.
Sotto il profilo del look, basta guardare immagini del 1973 di Johnny Thunders, con quei lunghi capelli centrifughi, che sfidano le leggi di gravità, per riconoscere quanto abbia influenzato le apparenze hair metal.

Ma non è solo una questione di immagine; l’omonimo debutto dei New York Dolls, prodotto dal “mago stellare” Todd Rundgren con Jack Douglas ingegnere del suono (nientemeno che il produttore storico di Aerosmith) è stato un violento schiaffo in faccia al business, il più provocatorio e selvaggio disco di rock’n’roll che si potesse concepire in un’epoca pur mirabolante. E come recitava l’Enciclopedia Rock Anni ’70 dell’Arcana, “contiene uno dei brani più significativi di tutti i Seventies, “Personality Crisis”. Se mi è concessa una piccola digressione, visto che di Blog si tratta, fui convocato per contribuire a quel volume, ma rinunciai per il notevole impegno (grave errore!), partecipando poi alla successiva Enciclopedia Anni ’80. A proposito di “Personality Crisis”…che smisurata offensiva rock! L’aggressione del riff vizioso, il piano martellante di Rundgren che partecipa alla festa, e la voce ingiuriosa, esacerbata di David Johansen, che rimandava il suo maestro Jagger a lezioni di fuoco sulla punta della lingua; ma i Dolls erano arrivati “Too Much Too Soon” (dal titolo profetico del secondo album) ed il manager Marty Thau dichiarò che erano stati emarginati, fatti fuori dall’industria discografica che avevano oltraggiato. Ma il credo, la quintessenza del R&R è racchiusa in quei loro solchi.

MONTROSE: “Bad Motor Scooter”

Tratta dall’album:“Montrose” (1973)

Ben ricordo il senso di irritazione che mi provocò la bislacca cronaca di un concerto dei Montrose, vergata da un noto reporter italiano evidentemente allergico al rock duro, che paragonò il loro sound dal vivo al “rumore dell’abbattersi di cataste metalliche”. Liquidava così gli autori di uno dei più grandi album d’esordio della storia hard’n’heavy, l’eponimo “Montrose” del 1973, riuniti in un potenziale supergruppo, pur non disponendo ancora delle necessarie credenziali.
Il quartetto si era formato a San Francisco, ma il chitarrista Ronnie Montrose proveniva dal Colorado ed aveva già suonato con il bassista Bill Church nell’album di Van Morrison “Tupelo Honey”, prodotto dallo stesso Ted Templeman (con Donn Landee al mixer) per l’etichetta Warner Bros, ovvero il team che manderà in orbita i Van Halen.

Ronnie aveva già assaporato il successo suonando con Edgar Winter, in particolare nell’hit-single “Frankenstein”, mentre Sammy Hagar (voce) e Denny Carmassi (batteria) erano pressoché sconosciuti all’epoca, ma si dimostreranno negli anni fra i migliori in America nelle rispettive specialità. Anche “Montrose” migliorerà le sue quotazioni con il trascorrere del tempo, conquistando infine il disco di platino, mentre in origine non andò oltre il 133° posto in classifica!
Benché valorizzati come archetipo heavy metal, Montrose avevano le radici ben piantate nella tradizione R&R, e lo dimostra la loro prima sessione radiofonica del ’73 (in anticipo sull’album) registrata allo studio Record Plant di L.A. La inauguravano con una versione di “Good Rockin’ Tonight”, già rilanciata in orbita da Elvis Presley, aggiungendo nel finale un classico di Chuck Berry, “Roll Over Beethoven”. Ma la loro autentica ed originale “faccia cattiva del rock’n’roll” era sublimata dal riff saettante di “Bad Motor Scooter”, con la chitarra di Ronnie che simulava un rombo di motore molto imitato (da altri) per accenderlo e spronarlo a tutta velocità. “Run, run, run…!” urlava Sammy Hagar con foga e voce ostentatamente virile, incalzata da una sezione ritmica non meno potente di una grossa cilindrata.
Titanici.

LEFT END: “Loser”

Tratta dall’album: “Spoiled Rotten” (1974)

In quest’occasione, l’”angolo del collezionista” è riservato ad una misconosciuta formazione del Midwest americano, sulla quale molto si favoleggiava nei Metal Years (’80): l’unico album “Spoiled Rotten” (Polydor) aveva raggiunto una rispettabile quotazione collezionistica, salvo poi ridimensionarsi col passare degli anni.
Left End provenivano da Youngstown, nell’Ohio, non propriamente una capitale del rock. Fonti accreditate li hanno avvicinati a New York Dolls, Kiss, Alice Cooper e persino The Tubes, verosimilmente per lo spettacolo teatrale che inscenavano e la vistosa immagine glam.

Si tratta però di un paragone difficilmente sostenibile, perché all’epoca del loro solitario album di studio (1973 sull’etichetta, 1974 in copertina!), solo Alice, il pioniere dello shock rock, era già baciato dal successo su vasta scala.
A prescindere, il quintetto svelava una vena autonoma e nemmeno troppo debitrice verso modelli in voga. Lo dimostra la personale rilettura di una canzone dei Beatles, tutt’altro che scontata e a favore delle masse. Si tratta di “Every Little Thing” (da “Beatles For Sale”), che apre la seconda facciata di “Spoiled Rotten”, introdotta da un’allarmante sirena e manipolata da un suono perentorio e ruvido, assolutamente in linea con il loro stile. Ma il brano-manifesto dell’hard rock’n’roll dei Left End è il singolo “Loser”, che dopo un’intro di pregevole apertura melodica, degna dei classici Who, scatena la sua dinamica irruenta rivelando la voce dal timbro crudo e aggressivo del cantante Dennis T. Menass, che ci urla in faccia il titolo con irriverente bullismo.
Naufragati nel disinteresse dell’etichetta discografica, Left End finivano dispersi nella loro zona d’origine; pare che la successiva riunione, fuori tempo massimo per maggiori fortune, abbia comunque giovato al loro status di gruppo da culto.

THE DICTATORS: “(I Live For) Cars And Girls”

Tratta dall’album:“Go Girl Crazy” (1975)

Contesi sia dai cultori del punk che del metal di quell’epoca, i Dictators provenivano dal Bronx, quartiere particolarmente turbolento di New York ed avevano anticipato tutta la “nuova onda” rock della metropoli; furono infatti la prima grande speranza di quella scena a firmare un contratto major per la Epic, diventando stabile attrazione al CBGB, la Mecca della Bowery Street.

In realtà le loro credenziali proto-heavy metal erano di grande spicco: a produrre i tre album degli anni rampanti (1975-’78) era infatti l’indissolubile tandem dei Blue Oyster Cult, Murray Krugman e Sandy Pearlman (al loro attivo anche collaborazioni con Pavlov’s Dog e Clash) e nelle file dei Dictators è sempre stato presente Ross “The Boss” Funicello, prima della fondazione dei Manowar. Inoltre Mark “The Animal” Mendoza (Twisted Sister) ha fatto parte della line-up del secondo LP “Manifest Destiny”.
I Dittatori più in vista erano però Adny Shernoff (basso, tastiere, principale compositore) ed il pittoresco, rissoso front-man Handsome Dick Manitoba, che parteciperà alla reunion degli MC 5 nel 2005: dunque trent’anni dopo “Go Girl Crazy”, l’opera prima del quartetto newyorkese dalla più irriverente attitudine R&R (agli heavies, è consigliabile l’ascolto dei successivi due LP); il finale di “GGC” è suggellato dalla filosofia non proprio intellettuale di “(I Live For) Cars And Girls” il loro classico surf’n’roll, che fa il paio con la versione di “California Sun” dei Rivieras, inclusa anch’essa in “Go Girl Crazy”. Gli stessi Ramones la replicheranno con una cover più famosa, ma solo in seguito, nel 1977. I cori di “Cars And Girls” sono di magistrale matrice Beach Boys, ma la voce di Manitoba si riallaccia idealmente al Ian Hunter dell’era Mott The Hoople.
Concedetevi un’evasione nella follia dei Dictators…

FLAMIN' GROOVIES: “Shake Some Action”

Tratta dall’album: “Shake Some Action” (1976)

Nella seconda metà degli anni ’60, i Flamin’ Groovies” venivano salutati, o forse liquidati, come l’unica rock’n’roll band di San Francisco, dominata dai “re dell’acido” Jefferson Airplane e Grateful Dead. Apparsi nel 1965 attorno al nucleo originario dei Lost And Found/Chosen Few, inizialmente con Cyril Jordan e Roy Loney (chitarre e voci) e George Alexander (basso) si evolveranno poi in Flamin’ Groovies. Trascurando le utopie hippy, si consacravano ad un rock viscerale, ispirato alla british invasion, esportata in America dal successo dei Beatles e degli Stones.

Ma i primi dischi non suscitavano soverchie attenzioni nella loro area, ed il gruppo dovette volare a New York per sottoscrivere un contratto di rilievo con la Kama Sutra, da cui scaturivano due eccellenti album, “Flamingo” e “Teenage Head” (1970-71).
Classici di rock muscolare come “Headin For the Texas Border”, “Teenage Head” ed il singolo registrato in Inghilterra, “Slow Death” (ripreso anche dai Dictators di Ross The Boss) danno la misura del potenziale di questo gruppo storico. Il successo tarda ad arrivare, ma il leader Cyril Jordan non si scoraggia e resta celebre la sua frase: “Possiamo aspettare, non abbiamo altro in programma!”. Con una rinnovata formazione migravano nel Regno Unito per registrare anche il nuovo album “Shake Some Action” (1976, Sire).
Stavolta l’accoglienza, in pieno clima punk, ma anche di generale revival dell’integrità rock anni ’60, è davvero calorosa e se tributo all’”invasione inglese” di quel decennio doveva essere, non c’è niente di meglio che ascoltare il brano che intitola l’album, “Shake Some Action”. Il gusto retrò delle chitarre fluttuanti e delle armonie vocali, che sfociano in un inconfondibile refrain e nelle vivide escursioni della solista, sono favolose ed anche l’immagine del quintetto è perfettamente in stile. Un’ineguagliata gemma di R&R sixties all’incrocio fra Beatles, Stones e Byrds, niente di meno.

TUFF DARTS: “All For The Love Of Rock N'Roll”

Tratta dall’album: “Live At CBGB’s” (1976)

L’inadeguatezza delle nette segregazioni stilistiche fra generi musicali può esser evidenziata anche dalla fugace storia dei Tuff Darts. Acclamati come stella nascente dell’underground punk della Big Apple, scattarono in pole position nel doppio LP “Live At CBGB’s” la storica compilation a testimonianza del locale di riferimento per quella scena nella seconda metà dei 70, insieme al Max’s Kansas City.

Il brano d’apertura era proprio la loro “All For The Love Of Rock N’Roll”, scritta dai due chitarristi Jeff Salen e Bobby Butani; un vero e proprio anthem, che sorprendentemente rivelava affinità ignorate (dalla critica new wave) con il riff di “Cold Gin” dei Kiss e nell’interazione fra chitarra ritmica e solista alla maniera degli Starz di “Detroit Girls”.
Non a caso, tutti provenienti da New York e verosimilmente con qualche gig in comune, o semplicemente da spettatori. La versione del CBGB, più sporca ed abrasiva, si fa preferire perché alla voce c’era Robert Gordon, che abbandonò il quintetto per intraprendere una fortunata carriera come cantante rockabilly, accompagnato anche da grandi chitarristi quali Link Wray e Chris Spedding.
Per sostituirlo nel corso delle registrazioni dell’unico album “Tuff Darts!” (1978) fu chiamato Tommy Frenzy, immagine ostentatamente punk ma timbro vocale piuttosto canonico.
Per restare in tema di insospettabili analogie, il “solitario” del gruppo fu prodotto da Tony Bongiovi (cugino di secondo grado di Jon Bon Jovi e proprietario del famoso studio Power Station, dove l’album fu registrato) insieme a Lance Quinn – entrambi responsabili del debutto della superstar del New Jersey – oltre che da Bob Clearmountain. Uno spiegamento di forze che non gioverà all’escalation dei Tuff Darts, presto eclissati. Ma “All For The Love…” rimane indelebilmente stampato nella memoria, trascinante come sempre.

WILLIE ALEXANDER & THE BOOM BOOM BAND: “At The Rat”

Tratta dall’Album: “Live At The Rat” (1976)

L’abbiamo già scritto: l’esplosione punk dal 1976 in poi ha sicuramente nuociuto al classic rock che finiva per essere emarginato dai media e dalle case discografiche, ma ha avuto il pregio di mettere in luce realtà di valore, fin lì confinate nell’underground.
Si parlava dunque di ribollenti scene punk, ma negli USA, quell’etica non era condivisa da molti e gli stessi MC5, citati come fonte d’ispirazione, ne avevano preso le distanze (non è uno scandalo, si pensi alla repulsione dei Led Zeppelin se accostati alle origini dell’heavy metal).

Una delle più prolifiche scene “under” americane della seconda metà Seventies era quella di Boston; ne abbiamo accennato a proposito dei Real Kids e della loro affascinante ballata “Common At Noon”. Il locale al centro della movida rock era il Rat, palestra d’esercitazione per i musicisti che lo frequentavano, fra i quali solo i DMZ apparivano decisamente punk. I Thundertrain del cantante Mach Bell (in futuro con Joe Perry), esibivano ad esempio vivido hard rock di foggia Aerosmith/Van Halen.
Willie Alexander era un protagonista fin dagli albori della scena bostoniana; nel ’65 aveva esordito con i Lost, che fecero da supporto ai Beach Boys. Leggenda vuole che fu chiamato ad immolarsi sul trono vacante di Lou Reed nell’estremo tentativo di tenere in vita i Velvet Underground, che però si sciolsero. Tornò invece a furoreggiare con la sua Boom Boom Band, aprendo l’omonimo album d’esordio (MCA, 1978) con un’efficace rilettura del classico di Phil Spector, “You’ve Lost That Loving Feeling”, e concludendolo con un personale tributo a Jack Kerouac, scrittore per antonomasia della beat generation. Ma resta indelebile il ricordo del brano “At The Rat”, concepito proprio per inaugurare l’omonima compilation. In esso è racchiusa l’anima, il feeling, il suono corrosivo ed essenziale del R&R nato ed evoluto in America, in un crescendo fulminante, spronato dalle ardite, caratteristiche modulazioni vocali di Alexander.

THE BOYZZ: “Too Wild To Tame”

Tratta dall’album: “Too Wild To Tame” (1978)

Ho spesso illustrato The Godz come magnifici perdenti nella miglior tradizione heavy rock’n’roll americana, e l’unico motivo per cui non li ritrovate in questa sede è perché già presentati sul Blog in due differenti rassegne.
La stessa, minacciosa immagine da bikers era esibita nel 1978, anno d’esordio dei Godz, da una formazione di motociclisti di Chicago, The Boyzz, che davano alle stampe una focosa opera prima su Epic.

“Too Wild To Tame”, questo il titolo, era un sortilegio realizzato al crocevia fra brutale R&R alla Rose Tattoo e southern boogie affine ai Black Oak Arkansas, ma con il significativo accompagnamento di una sezione di fiati, apparentemente già all’opera con i Blood Sweat & Tears.
Contraddistinti dalla voce al vetriolo di Dirty Dan Buck, non meno graffiante di quella di Angry Anderson, i Boyzz realizzavano un autentico classico cult, inclusi brani memorabili come la lunga e Bloodrock-eggiante “Destined To Die” o “Wake It Up”. L’esplosiva miccia rock’n’roll è però accesa dai propositi bellicosi della title-track, alla quale ben contribuiscono il febbrile organo Hammond di Anatole Halinkovic e le viscerali chitarre “sudiste” di Gil Pini e Mike Tafoya. Dirty Dan, che arrogantemente si riserva il primo piano con la Harley-Davidson sulla copertina di “Too Wild To Tame” – relegando i compagni sul retro – scomparirà di scena con la rapida dissoluzione del gruppo. Invece tre di loro, Halinkovic, Tafoya ed il bassista David Angel, si ritroveranno nei quasi omonimi B’zz, responsabili dell’album “Get Up”, ancora su Epic (1982).
Ben diversa però la formula musicale, tendente al più accessibile pop-metal; stagione propizia per il medesimo genere, ma analogo destino ingrato del precedente, di irrilevante successo.

SHOES: “Too Late”

Tratta dall’album: “Present Tense” (1979)

Nella seconda metà degli anni ’70, sulla scia del fragoroso successo dei Cheap Trick, si affermò in America un’onda emergente di formazioni che reinventavano la formula rock’n’roll in connubio con il pop degli anni ’60.
Il rinnovato genere veniva battezzato power pop, e importanti case discografiche  si scatenavano alla caccia delle nuove sensazioni, garantendo contratti a Dwight Twilley Band, The Pop, Paul Collins & The Beat, The Romantics, 20/20.
Si trattava solo della cima d’iceberg di un diffuso movimento underground, che includeva altre formazioni di valore, ad esempio The Last e Jets.

Di questa scena “sotterranea” facevano inizialmente parte anche gli Shoes, un quartetto originario dell’Illinois e fondato nel ’73 dai fratelli Murphy: Jeff (voce, chitarra) e John (voce, basso).
Dopo aver esordito su etichetta privata (il materiale indipendente è raccolto nel box di 3 CD della Cherry Red: “Black Vinyl Shoes – Anthology 1973-1978”), il gruppo ha realizzato il singolo “Tomorrow Night” per l’etichetta Bomp! dello specialista sixties Greg Shaw, forse il volano promozionale che li ha imposti all’attenzione della prestigiosa Elektra. L’album d’esordio major, “Present Tense” uscito verso la fine del ’79, esibiva la loro differente prospettiva di rock melodico. Non a caso era prodotto da Mike Stone, responsabile di futuri classici di Journey ed Asia, inoltre due anni dopo, con l’inaugurazione di MTV, i videoclip degli Shoes furono fra i primi ad essere diffusi a livello televisivo. Fra questi proprio la nuova versione di “Tomorrow Night” (con reminiscenze di Byrds e Tom Petty) e soprattutto la suadente “Too Late”: il cadenzato impianto rock’n’roll, spoglio di artifici pomposi, si stempera in una raffinata vena pop dalle superbe armonie vocali innescate dal suo autore, Gary Klebe (anch’egli chitarrista e cantante). Fu soltanto un hit minore, n.75 in USA; l’album raggiunse il 50° posto ma per i nostalgici del power pop resta di immacolata qualità. Imperterriti, The Shoes hanno proseguito la loro attività anche nel Terzo Millennio.

20 Commenti

  • Andrea C. ha detto:

    Ciao Beppe, scusa se mi infilo in questo articolo per divagare. Ti “conosco” da più di 40 anni e nutro nei tuoi confronti una stima enorme tanto quanto la riconoscenza di avermi fatto scoprire moltissime band HM e non solo. Ora la voglia di avere un tuo parere su un artista che esula dal tuo blog è troppa e pertanto provo a sollecitarti su una scoperta che ho recentemente ascoltato grazie all’algoritmo di una nota piattaforma musicale. Si tratta di Eric Johanson, che si colloca nell’immensa area del Blues moderno, ma con una vena decisamente più Heavy. In Never Tomorrow suona come un Iommi in formato Mississippi. Buried Above Ground rimanda all’Hendrix di Voodoo Child, con la chitarra dove l’impronta blues si fonde con sonorità più affini al Metal. Chiudo con il suo ultimo singolo, Dont’t Hold Back, che mi ha riportato alla mente i Blue Cheer (che se non ricordo male ho scoperto un sacco di anni fa a seguito di una tua Relics) grazie a sonorità fuzzy/blues. Magari l’avrai già ascoltato, ma in ogni caso mi farebbe un sacco di piacere avere un tuo parere.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Andrea, sei molto gentile. Innanzitutto una premessa: ascolta ciò che ti convince ed emoziona, indipendentemente dalle sentenze degli scrivani rock. Se da giovane avessi dato retta alla stampa dell’epoca, avrei tradito le mie passioni e non ci sarebbe qualcuno come te che ricorda il mio contributo in materia. Questo per dirti che se ti piace l'”immensa area del blues moderno” (vero), ed in particolare questo artista della Louisiana, Eric Johanson, insisti indipendentemente dai pareri altrui. Io lo trovo particolarmente affine (in “Never Tomorrow” e “Buried Above Ground”) ai gruppi del british blues inglese di fine anni 60/inizio 70 sulla scia di Cream, Hendrix e Free (tutti influenzati dai musicisti di colore americani). A loro ho dedicato non troppo tempo fa un articolo sul Blog. Per quanto riguarda l’ultimo singolo “Don’t Hold Back”, ci stanno gli influssi Blue Cheer, con un tocco di stoner rock degli anni ’90 nella chitarra fuzz di Johanson. Nell’ambito del nuovo trend hard-blues, prova ad ascoltare se già non rientra nelle tue scelte Jared James Nichols. Grazie della stima, sinceramente.

      • Andrea C. ha detto:

        …ma vedi che ho fatto bene a scriverti, non conoscevo affatto Jared James Nichols! Francamente da diversi anni ho metaforicamente tirato i remi in barca e le occasioni di ascoltare la musica si riducono spesso ad un sottofondo in ufficio e ormai troppo raramente rispolverando qualche vecchio vinile dalla mia fornita collezione. Qualche volta ho provato a fare delle ricerche nel mare magnum della rete, ma non ho mai avuto grandi soddisfazioni e quindi, così come accaduto con Eric Johanson, è l’algoritmo della piattaforma musicale a venirmi in soccorso. Ad esempio, partendo dal rock/country di band più conosciute, un paio di anni fa ho scoperto (con grandissimo ritardo) i Whisky Myers. Il loro ultimo lavoro Tornillo mi è piaciuto un sacco, così come il precedente omonimo LP. Sempre sul genere, ma meno rock, Chris Stapleton è un altro artista che mi ha coinvolto. Conosciuto in questo caso grazie alla canzone Outlaw State of Mind contenuta nella colonna sonora del film Hell or high water. Ho avuto poi maniera di ascoltare tutti i suoi lavori, incluso il progetto The Jompson Brothers, purtroppo ad oggi (e temo ormai per sempre) limitato ad un solo, bellissimo, omonimo album del 2010. Per quanto riguarda nuove band HM o HR, non riesco più a trovare il coup de foudre. Mi sembrano tutti gruppi in crisi identitaria che non riescono a distaccarsi dalle band che tanto ho amato degli anni 80 e 90 (e che tu stai magistralmente riportando alla memoria con splendidi articoli), anche se, ad onore del vero, Under the Sun dei Blacktop Mojo lo trovo un gran bel disco. Il famoso algoritmo mi ha riportato alla luce anche una band appartenente ai miti anni 70, con particolare riferimento all’agguerritissima corrente del British blues, ovvero i Chicken Shack ed in particolare l’album Imagination Lady. Non ne avevo mai sentito parlare e sono sicuro che, vista la tua conoscenza oceanica in materia, li conoscerai senz’altro, anche perché, leggendo da Wiki, hanno vantato tra le loro file Christine McVie (veramente curioso oltretutto l’aneddoto sul nome dei teutonici Accept). Chiudo rilanciandoti la palla con l’ultima scoperta di pochi giorni fa, ovviamenete avvenuta, come le precedenti, in maniera assolutamente casuale: The Cold Stares, ti piacciono?

        • Beppe Riva ha detto:

          Dunque Andrea, apprezzando le tue considerazioni opportunamente in tema, vorrei segnalarti che nel 2020, su questo Blog (https://www.rockaroundtheblog.it/chicken-shack-riedito-il-classico-imagination-lady/) mi sono occupato proprio della ristampa del classico dei Chicken Shack. Per quanto riguarda i nuovi gruppi hard-blues, anche loro denunciano inevitabili “rimasticature”, però il feeling senza età piace. The Cold Stares ad esempio, in “Take This Body from Me” mi ricordano i memorabili Bad Company. Ciao e grazie.

  • Luca ha detto:

    Buongiorno Beppe,
    bel pezzo che contiene interessanti indicazioni di dischi e gruppi a cui interessarsi.

    La rasegna potrebbe proseguire poi con gli 80 di Fuzztones e simili o ritieni i 2 ambiti non sovrapponibili?

    • Beppe Riva ha detto:

      Buongiorno Luca. Certamente la rassegna potrebbe proseguire negli anni 80 con altri esponenti, fra i quali i Fuzztones che citi. Questo genere di articoli riflette volutamente una visione personale, non si tratta di valori assoluti. Sono molto legato emotivamente al R&R dei Seventies che ho trattato, anche se, ad esempio, la Street Scene di L.A. ha avuto più successo. Grazie dell’interesse.

  • stefano cesarini ha detto:

    Ciao Beppe buona pasqua a te e ai tuoi cari

  • Giacobazzi ha detto:

    Buongiorno Beppe. Complimenti per l’articolo. Mi sarei quasi aspettato di trovarci i Silver Metre, salvo poi ricordare che erano per 3/4 sudditi della Regina… E a proposito di “magnifici perdenti”, e di UK, spero che prima o poi ci vorrai proporre un articolo dedicato agli Heavy Metal Kids del grande Gary Holton, vero animale da palcoscenico.
    Keep up the good work, e già che siamo auguri a te, Trombetti e a tutti i lettori!

    • Beppe Riva ha detto:

      Buonasera Giacobazzi. Premesso che ogni lettore interessato è benvenuto sul Blog, mi piace comunque sottolineare che ci seguono appassionati attenti e ben preparati. La citazione di gruppi come i Silver Metre, con l’ex chitarrista dei Blue Cheer, Leigh Stephens, o degli inglesi Heavy Metal Kids dello scomparso Gary Holton, è molto indicativa a riguardo. Sono sempre ben disposto ad occuparmi di cult-band, meglio se in occasione di ristampe o rassegne come questa. Mai dire mai al rock storico di valore. Grazie dell’interesse ed auguri a te.

  • Fabio Zampolini ha detto:

    Grande Beppe ottimo articolo come al solito, alcuni album ammetto di non averli, mentre considero il debutto dei Montrose uno dei più grandi esordi di sempre, ed il pezzo da te citato monumentale. La materia che hai trattato nell’articolo è davvero molto vasta, ad esempio mi piace ricordare anche i Diamond Reo di Dirty Diamonds che mi avevi fatto conoscere sulle pagine gloriose di Shock Relics. Un saluto e tanti auguri!

    • Beppe Riva ha detto:

      Grazie Fabio. Naturalmente il brano dei Montrose è il preferito dai fans dall’heavy rock (fra quelli trattati) e non meraviglia affatto. L’album che citi dei Diamond Reo è stato valutato per la scelta dei pezzi, ma non ho trovato la traccia “giusta” per l’occasione. Le attenzioni tue e dei lettori verso i miei scritti di decenni fa sono sempre graditi. Tanti auguri a te!

  • Giuseppe ha detto:

    che meraviglia Beppe! Montrose, Left End, Thundertrain (anche se solo citati), The Boyzz … pura libidine rock’n’roll! Io ci aggiungerei anche i Ram Jam di Gone Wild, ma giustamente ognuno ha i suoi riferimenti, ricordi e gusti personali … grazie a te per l’ennesima “cavalcata” e tanti auguri a tutti!

    • Beppe Riva ha detto:

      Grazie Giuseppe. In realtà ho pensato di inserire i Ram Jam, li ho esclusi solo perché ho voluto evitare gruppi da Top 10 e loro, con il successo di “Black Betty” lo sono stati. Non è un demerito ovviamente! Thundertrain sono stati super, li ho già trattati tanti anni fa ma con l’occasione giusta se ne riparlerà. Bellissimo che si ricordino questi gruppi. Voglio andar oltre il “troppo seminato”, spesso e volentieri. Auguri!

  • Paolo Mazzucchelli ha detto:

    ILLUMINANTE! sempre un piacere leggerti…

    • Beppe Riva ha detto:

      Grazie Paolo, l’impegno c’è, se viene riconosciuto fa sempre piacere. Ciao e visto il periodo, auguri!

  • Fabio Zavatarelli ha detto:

    … ed io che posso dire di fronte ad un simile meraviglioso articolo?
    Una dissertazione che riporta nel giusto punto, nella giusta posizione band come MC5, New York Dolls, Dictators e poi Godz (indirettamente) e Boyzz evidenziandone quella inevitabile importanza per la scena Hard Rock e poi Heavy Metal , per troppo tempo negata e arbitrariamente sottratta dai cantori del Punk totalizzante ….. quelli per cui qualsiasi cosa veramente Rock ‘n Roll era Punk (ultimamente alcuni dibattono sui Kinks come primo gruppo punk, assurdo!!!!!!!!) … senza rendersi conto che è paradossale perchè per cui se tutto è Punk, nulla in realtà può essere Punk.
    Grazie poi per ricordare Bad Motor Scooter dei Montrose, non solo perchè è un pezzo che suono con amici, ma anche perchè è uno dei pezzi più viscerali ed epici dell’Hard Rock … con un Sammy Hagar immenso …. ed era il 1973!!
    Insomma grazie e … il mio invito è girare, far girare anche a figli, nipoti, amici etc …. questo articolo …. invitando ad immergersi in questi pezzi … trasformando la Rete in una Shakin’ Street ….
    Grazie Beppe …. Grazie ….

    • Beppe Riva ha detto:

      Fabio, io ringrazio te perché se qualcuno cerca di esprimere certi concetti, ma non c’è chi segue con le dovute competenze e apprezza, gli stessi concetti restano lettera morta…Quindi per me commenti di questo genere sono una vera soddisfazione. Beninteso, ci stanno anche le critiche, ma formulate sulla base di conoscenza della materia, non tanto per sparare sul mucchio. Condivido le tue osservazioni di fondo, ed in quanto a “Bad Motor Scooter”, è il brano più R&R del primo Montrose. Ecco il perché della scelta, altri pezzi sono comunque fantastici. Un salutone ed auguri!

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Grande Beppe, un excursus storico magistrale di band che avrebbero meritato ben altre fortune commerciali. A partire dai fantastici Montrose. Stasera ti seguirò col solito interesse nella diretta di Linea Rock.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro, ribadisco in quest’occasione un’opinione già espressa. C’è molto di significativo da ascoltare al di là di tutto ciò che abitualmente viene propinato dai mezzi più diffusi. La stessa Linea Rock di Marco Garavelli ne è un esempio lampante. Grazie a te e auguri!

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