Un mese fa, il 14 novembre, ci ha lasciato ad ottant’anni Peter John Sinfield, il sofisticato poeta della “nuova era” post-lisergica che con le sue liriche all’insegna del surrealismo neoromantico, ha stabilito una peculiare, magica connessione letteraria fra visioni gotiche e futuriste.
Prima di lui, la figura del paroliere “non musicista”, appariva complementare alla band ma in secondo piano, ricevendo limitata esposizione; certo, si erano messi in luce Keith Reid con i Procol Harum e Pete Brown affiancando i Cream, ma nessun altro suscitò lo stesso clamore di Sinfield.
Infatti l’artista londinese ha caratterizzato indelebilmente l’opera del gruppo che ha mandato in orbita il rock progressivo, King Crimson, ed in seguito, quella del trio che maggiormente ha contribuito alla popolarità del medesimo genere di musica, Emerson Lake & Palmer.
Epoca King Crimson
Pete Sinfield si unì nel luglio 1968 al nucleo embrionale dei King Crimson, quando ancora si chiamavano Giles, Giles & Fripp, presentato dall’amico Ian McDonald; nello stesso mese lasciava la formazione Judy Dyble, prima cantante dei Fairport Convention. Sinfield si impegnò nella nuova esperienza destreggiandosi come roadie, operatore delle luci e dei computer, tecnico del suono…E’ lui che un anno dopo (luglio ’69), assistette i King Crimson al mixer, nell’epocale free concert dei Rolling Stones a Hyde Park: fu la decisiva rampa di lancio per il gruppo di Robert Fripp, che incantò il pubblico stimato in 650.000 presenze. Da una sua illuminazione è nato anche il nome della formazione “pietra angolare” del prog-rock, che negli intenti dell’inventore voleva rappresentare qualcosa di potente, la stessa sensazione intimidatoria che suggeriva Led Zeppelin!
“In The Court Of Crimson King” (ottobre ’69), l’opera prima e dal mio punto di vista insuperata, presentava ufficialmente Pete Sinfield come quinto membro della formazione costituita da Fripp, Greg Lake, Ian McDonald e Mike Giles – a conferma dell’apporto cruciale dei suoi testi – oltre che in veste di co-produttore. L’album affascinò gli indagatori della turbinosa scena underground, sconcertando i puristi del rock per la sua inaudita fusione di stili musicali, ma scalò sorprendentemente la classifica inglese fino al numero 5. Le ricorrenti fonti d’ispirazione citate di Sinfield erano Shakespeare, William Blake, Percy Shelley, Arthur Rimbaud, ma nello scioccante atto introduttivo, “21 st Century Schizoid Man” – fondamentalmente una forma di heavy rock d’avanguardia – il paroliere sembrava chiamare in causa Aldous Huxley, scrittore e filosofo del ‘900 (influenzato a sua volta da Blake), convinto assertore dell’uso delle droghe per “aprire la mente”, tesi enunciata nel suo esplicito libro “Le Porte Della Percezione”…Quindi, particolarmente in voga nella controcultura hippy degli anni ’60, specie per la fama dei Doors.
Sinfield (il primo a dx) con gli originali King Crimson ad Hyde Park
Huxley menzionava “la schizofrenia come piaga dilagante nel ventesimo secolo”; Sinfield ne raccoglieva il testimone proiettandola in un futuro da incubo, immaginando “neurochirurghi urlanti alla porta avvelenata della paranoia”, “pira funeraria dei politici”, “innocenti violentati con il napalm”, mentre “sanguinano i figli dei Poeti…”: una sorta di grido di disperazione verso un tragico destino.
Un altro brano-cardine, “Epitaph”, si risolve musicalmente nell’attanagliante, crepuscolare atmosfera sinfonica, ma lo spleen romantico delle liriche non lascia spazio ad orizzonti più ottimistici: “Confusione, sarà il mio epitaffio, mentre cammino lungo un sentiero accidentato, se ce la facciamo, possiamo tutti sederci e ridere. Ma temo che domani piangerò, sì, temo che domani piangerò”.
Infine, una delle pièces più maestose mai apparse negli scenari rock, dove risalta appieno il potere d’atmosfera del mellotron, “In The Court Of…”. Sinfield sembra aderire al “romanticismo conflittuale” ereditato da William Blake, e sotto le spoglie del Re Cremisi si agita lo spettro di Federico II di Svevia, mecenate delle arti, sovrano che si ribellò all’autorità Papale subendo la scomunica; viene così proposta una similitudine con la generazione “floreale”, che tentava di sovvertire l’ordine tradizionalmente costituito.
Alla corte del re, “il pifferaio porpora suona la sua melodia ed il coro canta dolcemente”, ma poi prendono il sopravvento immagini forti come “La regina nera che modula la marcia funebre, le incrinate campane d’ottone suoneranno, per rievocare la strega di fuoco…”.
Non vado oltre su un’opera che è stata ripetutamente vivisezionata da studiosi più che autorevoli, come l’intero repertorio Crimsoniano. La collaborazione fra Sinfield e Fripp durò lo spazio di quattro album basilari, esaurendosi dopo “Islands”. Nel gennaio 1972, il poeta lasciava ufficialmente i King Crimson e Fripp, che ne dispose l’allontanamento, dichiarava al Melody Maker come “il loro rapporto creativo fosse finito da qualche tempo”, adducendo significative differenze d’opinione e divergenze sulla direzione musicale. Dopo questo annuncio, Pete confermerà che “la decisione era stata presa unilateralmente da Robert”.
I giorni della Manticore e degli EL&P
Ma c’è vita oltre la Corte di King Robert, dunque Pete Sinfield iniziava a rilanciarsi in qualità di produttore, sull’onda di quel movimento che per primo assesterà un duro colpo alle ambizioni del progressive, il glam-rock.
Con anni di anticipo sull’eversivo punk, il glam esplorava le origini del rock’n’roll con rinnovata freschezza creativa. E Pete estraeva dalle spire dell’underground il gruppo più futuribile di quel movimento, Roxy Music. Produceva il primo singolo “Virginia Plain”, istantaneo successo nel Regno Unito, e soprattutto il fondamentale ed omonimo primo album (1972). Parte dell’intellighenzia critica, che ne tesseva le lodi nell’era Crimsoniana gli voltò le spalle, paventandone la deriva commerciale; ma “Roxy Music” era la desiderabile sintesi fra rock viscerale e sperimentazione elettronica, e Sinfield ne poteva legittimamente menar vanto.
Chi non ha mai abiurato il versatile talento dell’artista è stato il suo compagno d’avventura nei primi King Crimson, Greg Lake.
Alla fine del 1972, Emerson Lake & Palmer figuravano nella ristretta élite delle più colossali attrazioni rock, decidendo di tutelare i propri interessi con la fondazione della loro etichetta, Manticore. Il vero e proprio artefice dell’operazione era lo stesso Lake, che Emerson considerava “il business-man del gruppo”. Il cantante e bassista sottolineava come molti artisti fossero manipolati dai manager; la Manticore avrebbe offerto ai suoi alunni un’opportunità rispettosa delle loro velleità creative, partendo proprio dallo scenario progressive. Fra le prime scelte c’erano infatti formazioni italiane come PFM e Banco, costituite da “meravigliosi musicisti”, assicurava lo stesso Greg. L’etichetta diventava realtà nella primavera 1973, ed il 25 maggio venivano sguinzagliati sul mercato britannico l’album solista di Sinfield, “Still”, ed il primo della PFM con testi in lingua inglese, “Photos Of Ghosts”, che poi si affaccerà straordinariamente nella classifica di Billboard. Un anno dopo la replica dei nostri, “The World Became the World”.
Come dichiarato da Franco Mussida in una recente intervista a Mox Cristadoro in “Linea Rock” (Radio Lombardia), Pete non si è affatto limitato alla traduzione, reinventando letteralmente i testi dei brani, che interpretavano la musica secondo il suo stile visionario.
L’unico album di Pete, “Still”, incorniciato da una splendida copertina fiabesca della pittrice tedesca Sulamith Wülfing, è stato troppo sottovalutato e avrebbe meritato miglior riconoscimento, non foss’altro per la magnitudine dei musicisti coinvolti, fra i quali vari cortigiani di epoche differenti del Re Cremisi: Lake e Mel Collins (parzialmente associati nella produzione), il pianista Keith Tippet (che ricordiamo leader dell’orchestra rock-jazz Centipede), Bozz Burrell, John Wetton e Ian Wallace. Da menzionare anche il notevole solista Snuffy Walden degli Stray Dog, un power-trio a sua volta scritturato dalla Manticore.
Sinfield non si poteva certo definire un “grande cantante”, ma la sua sensibilità poetica si sublimava anche nell’interpretazione dei brani, a partire da “The Song Of The Sea Goat”, che elabora musica di Vivaldi dal clima sinfonico-mistico, con il superlativo pianoforte di Tippet a rendere letteralmente magico il raffinato arrangiamento. Un altro incanto d’atmosfera è “Under The Sky”, composta nientemeno che da Ian McDonald, con inevitabili echi dei primi Crimson. E se “Wholefood Boogie” risente di influssi glam-rock à la Ziggy-Roxy, la title-track “Still” è davvero emozionante, quando una delle più ammirevoli voci mai ascoltate, Greg Lake naturalmente, avvicenda la fascinosa recitazione di Pete per impegnarsi in un solenne crescendo che declama “le mutevoli maree di Cesari e faraoni, poeti ed eroi, vincenti e perdenti” aggiungendo “Beatles e Bolans”(!). Da brividi, per chi ha vissuto il “moderno romanticismo” rock di quegli anni.
Anche in qualità di compositore musicale, Pete si faceva apprezzare in “Envelopes Of Yesterday”, sottolineata dal contrasto lacerante della chitarra di Snuffy, e in “House Of Hopes And Dreams”, con un efficace innesto della sezione di fiati, in chiusura. L’inquietante quadro della Londra notturna illustrato in “The Night People” (di cui è coautore Mel Collins) espone spunti jazz di pregio, ma il protagonista appare un po’ forzato nelle parti vocali.
“Still” resterà un unicum, perché il suo titolare accantonerà ogni piano individuale, confessando di “essere sedotto dalla prospettiva di collaborare con gli EL&P”.
Infatti il suo contributo filosofico al classico della maturità del supergruppo, “Brain Salad Surgery”, risulterà determinante, rinnovando la collaborazione nella stesura dei brani con Lake.
Il quinto album degli EL&P chiuderà in bellezza l’anno di grazia 1973, celebrato in occasione del suo 30° anniversario dalla rivista Prog (ho avuto il piacere di scrivere una breve memoria retrospettiva proprio di “BSS”).
Quest’opera monumentale è generalmente contemplata fra i capisaldi del rock progressivo, persino al primo posto fra gli album di tal genere, nella classifica redatta da Goldmine, la rivista americana che ha anticipato Record Collector nella specialità collezionistica.
A Sinfield si devono i versi del refrain probabilmente più famoso degli EL&P, “Welcome Back My Friends To The Show That Never Ends…”, annunciato istrionicamente da Lake per invitare il pubblico allo spettacolo grottesco di “Karn Evil 9”(“Carnival”), tema dell’epica suite che domina l’LP. Regalerà anche il titolo al loro smisurato triplo album dal vivo del ’74.
Il finale della “3rd Impression” (di “Karn Evil 9”) è agghiacciante e profetico, teorizza un avvenire in cui l’intelligenza artificiale dei computer avrebbe preso il sopravvento su quella umana, congedandoci con il sinistro interrogativo “…nel fare ciò che è giusto sono perfetto! E VOI?” La tecnologia impazzita designerebbe un crudele futuro per il genere umano, facendolo regredire alla preistoria. Dunque si trattava di uno scontro fatale fra l’Uomo ed il Computer, che si dice ispirato all’indimenticabile film di Stanley Kubrick, “2001 Odissea nello Spazio”, ma anche uno sguardo totalmente innovativo nell’estendere le frontiere del rock. Pete era affascinato dai computer; per anni dedicò la sua attività principale ad un elaboratore elettronico di dati, che calcolava i compensi per “opere dell’ingegno” dell’etichetta Pye. Ne apprezzava l’efficacia ed i vantaggi, chiedendosi però se l’umanità era già prigioniera di questi strumenti.
Sinfield con EL&P nello studio di Giger per la copertina di “Brain Salad Surgery”
Sinfield è anche responsabile del momento più disimpegnato e sardonico di “BSS”, “Benny The Bouncer”, cantato da Lake in greve accento cockney e scandito dal piano honky tonk di Emerson. Benny era lo scorbutico “buttafuori” del Palais de Danse di Chelsea (Londra), frequentato in età scolastica da Pete: ne immagina lo scontro con un “duro” più brutale di lui, tale Savage Sid, che lo uccide con un colpo d’accetta in piena fronte; Benny finirà così per svolgere il suo lavoro alle porte del Paradiso (“St. Peter’s Gate”)!
Il paroliere proseguirà la sua partnership con gli EL&P, ma il maggior successo del binomio Lake & Sinfield presso il pubblico di massa, risiede in una delle canzoni natalizie (siamo vicini alla ricorrenza…) che hanno sfidato gloriosamente il trascorrere del tempo, “I Believe In Father Christmas”.
Nel 1975, il singolo solista di Greg Lake non raggiunse il primo posto in Inghilterra solo per l’ostacolo insormontabile di “Bohemian Rhapsody” dei Queen, ma è diventato un evergreen, perennemente trasmesso in dicembre dalle radio (specie dalle FM americane), al punto d’assicurare allo stesso Sinfield un consistente reddito annuale. Non si trattava però di un “inno alla gioia”, entrambi i coautori esprimevano i loro sentimenti di sofferenza; il cantante criticava la trasformazione del Natale in uno spasmodico fenomeno consumistico, cercando attraverso la musica di restituirgli l’alone di “magico” ormai compromesso. Anche il poeta fu ispirato da un evento assai triste: figlio di una coppia divorziata, aveva vissuto felicemente la festività, finché fu mandato in collegio a otto anni: così gli mancò d’improvviso e dolorosamente lo spirito del Natale in famiglia.
Nel 1977 EL&P pubblicavano il tridimensionale “Works Vol.1”, e Sinfield contribuiva all’intera seconda facciata del doppio LP – dedicata a Greg Lake – che include la memorabile vena da chansonnier di “C’est La Vie”, oltre a ravvivare fantasiosamente l’apogeo orchestrale del trio riunito, “Pirates”. Emerson era stato ingaggiato per comporre la colonna sonora di un film sui mercenari, “The Dogs Of War”, che non fu mai realizzato, dunque propose le trame sonore già scritte a Lake e Sinfield: i due le trovarono molto più adatte a rappresentare l’immaginario mitologico dei Pirati, e si misero all’opera. Keith testimoniò che non lavorarono mai così a lungo insieme; addirittura ordinarono una quantità di libri per erudirsi sull’argomento. Questo è l’insegnamento di autentici campioni della musica e delle liriche, rispetto agli hits prefabbricati di oggi, con qualche rima rammendata ed effetti sonori plastificati.
Pete Sinfield partecipò anche a “Works Vol.2” e al bersaglio preferito dei detrattori di EL&P, il capitolo finale dei loro anni ’70, “Love Beach” (1978). Un album, piaccia o meno, “di svolta”, che a suo modo anticipava una tendenza ormai prossima; si avvertivano venti di cambiamento con l’affermazione americana di Styx, Kansas, Boston, dalle radici prog tradotte in un suono che ammiccava alle radio. Ne scaturiva per l’Atlantic un album più commerciale (la prima facciata) che precedeva le versioni anni ’80 di Genesis e Yes, accolte ben più benevolmente.
Il lato B, “Memoirs Of An Officer And A Gentleman”, una suite di venti minuti, è tutt’altro che easy listening…Si tratta di una narrazione di carattere storico – analogamente a “Pirates” – dove Sinfield offriva l’ennesimo, essenziale contributo. Racconta la vicenda di un giovane ufficiale inglese ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, all’insegna di un estro “romantico-escapista” che sembrava prendere le distanze dalle crisi della contemporaneità. Il poeta subiva così arbitrarie accuse di “conservatorismo, nostalgico del patriottismo inglese di vecchia scuola”.
Gli anni '80 e la svolta pop
In seguito Pete si occuperà delle versioni inglesi degli album del menestrello italiano Angelo Branduardi, “Alla Fiera dell’Est” e “La Pulce d’Acqua”, oltre a scrivere buona parte dei testi di “No More Fear of Flying” (1979), primo album solo di Gary Brooker dei Procol Harum.
Sarà che i sogni dei leggendari anni ’70 volgevano al tramonto, oppure perché i poeti devono a loro volta garantirsi una decorosa anzianità, ma lo stesso Pete Sinfield cambiava registro, tornando sulla scena londinese nel 1980.
Nel 1981 confezionava un hit per i Bucks Fizz, risposta inglese agli Abba, pressoché ignorati da noi ma già vincitori dell’Eurovision e fra i più famosi gruppi pop in patria: “The Land of Make Believe” raggiungeva infatti il primo posto in classifica, come altri loro successi. Così veniva varato un nuovo tandem compositivo più “leggero” con Andy Hill, autore anche della title-track dell’album di Cher, “Heart Of Stone” (1989); l’ex Crimson ne era particolarmente fiero: “Un mio brano cantato da Cher, è detto tutto!”. L’ultimo grande successo è “Think Twice” di Celine Dion, uscito nel ’94 – coprodotto dal maestro AOR, Aldo Nova! – che vale agli autori Hill & Sinfield un premio Ivor Novello come miglior canzone, musica e testo.
L’anno prima Pete aveva curato la riedizione (in tempi di grande fervore per le ristampe prog) di “Still”, ribattezzato “Stillillusion”.
Infine, una sorta di “ritorno al passato” si evinceva dall’unica scrittura, “Let There Be Light” per l’album solista di Ian McDonald, “Drivers Eyes” (1999), pubblicizzata ottimisticamente come “il vero spirito dietro In The Court Of Crimson King”. Il mood del disco è forse più Foreigner (Ian figurava nello loro originale line-up) che King Crimson, e vi partecipava una compagnia di stelle: Gary Brooker, Peter Frampton, Mike Giles, Lou Gramm, Steve Hackett, John Waite e John Wetton (in ordine alfabetico!).
Può bastare, per ravvivare il ricordo, senza pretese di esaustività, di un poeta del rock verso il quale tutti noi appassionati di lunga data ci sentiamo debitori, memori di esser cresciuti imparando a conoscere la sua arte, questa sì, immortale.
Quello che mi ha fatto profondamente meditare è quanto facilmente l’ispirazione e l’arte nella vita di Sinfield abbiano trovato la via della realtà. Pensavo per converso che nel 1997 Keith Emerson si lamentava di quanto cambiassero i responsabili delle etichette e della necessità ogni volta di spiegare loro finanche ELP chi mai fossero. Che epoca ragazzi! Ciao Beppe e buon Natale!
Ciao Leandro, Sinfield aveva senz’altro capito che i tempi erano cambiati e con il suo talento poteva adeguarsi alla nuova realtà, modificando l’approccio che l’aveva reso celebre. Su Emerson il discorso sarebbe lungo. Un responsabile discografico che non sa chi fossero gli ELP è come un dirigente calcistico che non ha mai sentito parlare dell’Ajax di Crujiff. Capisco la desolazione. Grazie, buon Natale a te e ai tuoi cari.
Complimenti Beppe! Sei riuscito a delineare un personaggio complesso come Pete Sinfield senza trascurare nulla di importante. Altri si sono limitati a considerare la sua presenza nei King Crimson ed eventualmente hanno accennato alla produzione del primo disco dei Roxy Music. Bene hai fatto a considerare anche le fasi successive e a citare la collaborazione con Branduardi. E se crediamo in Babbo Natale possiamo anche pensare che Pete e Greg Lake stiano di nuovo scrivendo qualcosa insieme!
Ciao Paolo. Ero motivato a dar il mio contributo alla memoria di Sinfield, un artista basilare per la nostra generazione. Ci ho pensato un pò per provarci in modo personale. Per questo non ho appesantito la parte sui King Crimson (con tutta l’ammirazione per i loro primi quattro album), in quanto in molti si sono sbizzarriti a riguardo, ho sottolineato la collaborazione con gli EL&P (di cui sono notoriamente acceso fan e non lo nascondo) spesso poco evidenziata, né ho voluto nascondere il periodo “meno intellettuale” dopo il 1980. Mi fa piacere che tu l’abbia notato, e sogno anch’io che Pete e Greg possano comporre insieme paradisiache melodie nell’aldilà. Prima o poi le ascolteremo. Grazie!
Ciao Beppe. Un articolo fantastico, che mi invoglia assolutamente ad ascoltare molti dei dischi citati sotto un’ottica più profonda e consapevole. Altri, come ad esempio il solista, dovrò invece recuperarli. Grazie!
Ciao Alessandro. Penso che tutti abbiamo sempre bisogno di imparare, di estendere le nostre conoscenze. L’impegno di chi scrive è anche fornire gli stimoli giusti e le motivazioni perché ciò avvenga. Grazie per seguire con passione.