Hard Rock free-form
Negli anni ’90, abbiamo assistito ad un progressivo inaridimento delle tendenze musicali dominanti nel decennio precedente e di conseguenza, al tramonto di numerosi eroi rock consacrati nello stesso periodo.
A mia volta cercavo di non farmi trovare impreparato di fronte al cosiddetto nuovo che avanza (dal grunge allo stoner, dal crossover al metal estremo) ma contemporaneamente avvertivo un’irrimandabile necessità di tornare alle mie radici musicali nei dintorni del 1970, quando avevo iniziato a collezionare LP. Non tanto per riascoltare i “classici”, quanto per approfondire ed estendere sempre di più la conoscenza dei nomi minori, che avevano solcato il fiorente panorama underground dell’epoca senza affermarsi a livello commerciale.
Si trattava di un orientamento ormai diffuso fra gli appassionati di lunga data, incentivati dall’ingente aumento di rarità discografiche riproposte sul mercato con ristampe in CD e LP, non sempre ufficiali. Nel frattempo aumentava vorticosamente il prezzo delle copie originali; infatti uno dei miei sogni ricorrenti era quello di poter fare un viaggio a ritroso nel tempo, per accaparrarmi ai prezzi di “una volta” dischi ormai introvabili ma piuttosto diffusi nei primi anni ’70. Allora, in città ero solito fare un tour pomeridiano dei negozi di dischi, e persino i supermercati avevano un reparto rilevante, dove le copertine dei 33 giri facevano bella mostra di sé. Acquistai edizioni italiane (!) del catalogo Vertigo a cifre irrisorie: ad esempio, esisteva una stampa made in Italy del rarissimo “Three Parts To My Soul” dei Dr.Z (a cui dedicai uno dei primi articoli sul Blog), che secondo fonti attendibili, nell’edizione originale inglese era stato distribuito in sole 80 copie!
Ben ricordo che sborsai la cifra più consistente di quei tempi (3.900 lire!) per una copia d’importazione americana di “Sea Shanties” degli High Tide…Oggi, soprattutto sul versante dei punti vendita, scomparsi ad eccezione di pochi valorosi casi di resilienza, la situazione è radicalmente cambiata, inutile aggiungere altro tale è l’evidenza. Non è affatto svanita invece la voglia di scavare alla ricerca di reperti archeologici del passato rock, anche fra i protagonisti misconosciuti.
Dunque stavolta niente celebrità (a cui mi sono dedicato ultimamente, da Bon Jovi ai Priest, dai Queen ai Def Leppard) ma gruppi riservati ai cultori di retro-rock che hanno solcato come meteore la scena d’inizio Seventies (1970-’71). In questa sede, il genere analizzato è basilarmente hard rock, ma nel senso meno restrittivo del termine: non a caso ho aggiunto nel titolo free-form: dunque, per definirne l’essenza distante da schemi precostituiti (a costo di una minor immediatezza) ma aperti ad influenze blues, psichedeliche, progressive ed altra extravaganza.
Mi riallaccio nell’occasione agli anni in cui ereditai su Rockerilla la rubrica “Perfumed Garden”, dedicata prevalentemente alle ristampe di rarità collezionistiche.
Cinque i gruppi con relativo album esemplare che vi propongo, certo non particolarmente accessibili a chi è cresciuto con i generi di musica più definiti dagli anni ’80 in poi: dimostrano come alle origini vi fosse un linguaggio comune, libero da rigidi vincoli espressivi, per artisti contemporanei seppur di diversa estrazione geografica (Stati Uniti, Inghilterra, Europa Continentale). Accomodatevi, se vi pare.
JOSEFUS: “Dead Man” (Hookah, 1970)
Josefus è una leggendaria formazione proto-stoner di Houston. La sua musica, narcotica combinazione di heavy e acid rock, rifletteva i cambiamenti della scena texana nella seconda metà degli anni ’60, che si muoveva gradualmente dalla psichedelia di 13th Floor Elevators, Fever Tree e Red Crayola, alle sonorità più hard di Moving Sidewalks e American Blues (nuclei embrionali degli ZZ Top), Bubble Puppy (in seguito, Demian), Nitzinger e Bloodrock.
Il quartetto sorge nel settembre 1969 dalle ceneri degli United Gas, riunendo Pete Bailey (voce), Dave Mitchell (chitarra), Ray Turner (basso) e Doug Tull (batteria) e adotta il soprannome ebraico del drummer, Josefus.
Due mesi dopo sono già chiamati alla prova del fuoco; quando Grand Funk Railroad giungono in città (con gli ZZ Top) la scelta della support-band ricade proprio sui Josefus. Il manager del gruppo di Flint, Terry Knight, resta impressionato al punto di scritturarli, ma i texani finiscono per affidarsi ad un produttore di Phoenix, Jim Musil, scelta infelice. Musil li convoca in Arizona per registrare il primo album, provvisoriamente intitolato “Get Off My Case”, ed impone ai musicisti di ribattezzarsi Come. Il suo intento era infatti quello di proporli all’etichetta Straight di Frank Zappa, con l’insulso slogan “Come On Straight Records!”. Ma nessuna label risulta interessata alla pubblicazione dell’LP, ed il gruppo deve ripiegare su un singolo tratto dalle stesse sessioni, “Crazy Man”/”Country Boy” (Dandelion, marzo 1970).
Tornati al nome originale, Josefus rielaborano i brani, sospinti da un notevole seguito locale. Registrato negli stessi studi Audio Recorders di Phoenix, l’album definitivo, “Dead Man”, include quattro tracce dell’abortito “Get Off…” e tre inediti: fra questi, la cover di “Gimmie Shelter” degli Stones, che anticipò nei tempi, e nello stile particolarmente heavy, la più famosa versione dei Grand Funk.
Forti di un’inattaccabile reputazione live, Josefus sono eletti a semidei nel loro stato, dove “Dead Man”, auto-finanziato su etichetta Hookah, e pubblicato nella stessa settimana di “Let It Be”, oscura le vendite del classico dei Beatles! Leggenda o realtà? L’album dei Josefus si presenta con “Crazy Man”, un passionale hard-blues “sudista” virato in psichedelia: sugli scudi la voce ricca di feeling di Bailey, che nell’aspetto assomiglia ad un antenato di Dave Wyndorf (Monster Magnet). In “I Need A Woman” il vocalist si esibisce anche in un viscerale assolo di armonica, mentre “Country Boy”, con la slide in evidenza, insiste sulle radici southern rock. Nei due minuti di “Situation”, Josefus sembrano invece pagare un tributo ai pionieri freak texani 13th Floor Elevators. In ogni caso, nulla è paragonabile al gran finale di “Dead Man”, simbolizzato dal macabro teschio in copertina. E’ un calvario heavy-acid rock di 17 minuti e mezzo che suona come un’improbabile jam session fra Grateful Dead e Black Sabbath, dove le variazioni soniche ondeggianti sull’ipnotico tema scandito dalla chitarra di Dave Mitchell, sembrano frutto di un angoscioso trip.
Qualche mese dopo, il quartetto si accorda con l’etichetta newyorkese Mainstream per la realizzazione di un secondo album, l’omonimo “Josefus”, uscito nell’autunno 1970; viene rinnegato dai musicisti che hanno subito i condizionamenti della casa discografica, perché vessati da ristrettezze economiche. Il disco non tradisce affatto lo stile del gruppo, che alla fine dell’anno è già estinto: dai suoi resti nascono Stone Axe, guidati da Bailey e Turner. Ma la nuova avventura termina nell’arco di pochi mesi, ed il nome dei Josefus sparisce dalle scene fino al luglio 1978. Sono ancora il cantante ed il bassista ad intraprendere l’opera di rianimazione, che riguarda anche l’etichetta Hookah: la reunion frutta ben quattro singoli nel 1979, ma ha vita breve, ed i Josefus si dissolvono nell’oblio. Riuniti nel 1990, si dice siano tuttora attivi nel Texas.
A prescindere, “Dead Man” conserva un posto di rilievo nella storia dell’heavy rock psichedelico.
POWER OF ZEUS: "The Gospel According To Zeus" (Rare Earth, 1970)
Quando si parla di Detroit e del Michigan Rock, inevitabilmente si citano Stooges, MC 5, Alice Cooper, Bob Seger, Frijid Pink, gli stessi Grand Funk, ma anche fra i nomi meno affermati non è facile imbattersi in un gruppo come Power Of Zeus, che incise l’unico album per un’etichetta dalle radici R&B, Rare Earth, legata alla celebre Motown.
Certamente il quartetto “consacrato” alla massima divinità greca dichiarava influenze blues/soul, ma la sua musica verteva prevalentemente sull’hard rock, con capillare presenza dell’organo Hammond di Dennis Weber.
Se è pur vero che negli USA già spopolavano Vanilla Fudge ed Iron Butterfly, la matrice stilistica di Power Of Zeus era molto vicina agli inglesi Deep Purple, che pure viravano in direzione heavy nello stesso 1970! Quindi, inutile inventare machiavellici processi di derivazione, riconosciamo a questa fugace meteora americana una personalità di tutto rispetto, come dimostra il suo solitario capitolo musicale, “The Gospel According To Zeus”.
A delucidarci circa l’insolito nome del gruppo è trascritto in copertina il “poema”, invero stravagante, dell’artista che ne ha curato la veste grafica, tale Evelyn Myles. Ma sul contenuto musicale non si può certo ironizzare: oltre ad essere un focoso chitarrista, Joe Periano possiede una solida voce, che favorisce l’accostamento ad una grande e sottovalutata band inglese di rock duro, Warhorse (“Realization”, “Hard Working Man”), grazie ad una timbrica aggressiva simile al magnifico Ashley Holt.
In apertura, orizzonti heavy-blues sono subito spalancati da “It Couldn’t Be Me”, ed “In The Light” rivela la cura del gruppo nello stilizzare armonie vocali.
Lo sappiamo, non era quella un’epoca in cui i gruppi s’accontentavano di specializzarsi in formule monofunzionali, ed ecco che “Green Grass & Clover” si compiace dell’innesto del clavicembalo, un indizio di gusto europeo, mentre un mix ritmico latino-funky si fa strada in “I Lost My Life”.
I pezzi dagli arrangiamenti più differenziati sono però “Death Trip” e “Uncertain Destination”, dove è facile cogliere spunti psyche-progressive che estendono lo spettro del suono, e l’elettrizzante finale di “The Sorcerer Of Isis”.
Anche stavolta, Power Of Zeus risultano allineati ad una tendenza appena emersa in Inghilterra, il dark sound, ma sarebbe semplicistico avvicinarli ai Black Sabbath; è innegabile che Periano impartisca al suono coordinate doomy, ma attenzione al metodo, con quella chitarra insidiosa ed ondeggiante come l’aspide che uccise Cleopatra (non siamo in tema di antico Egitto?); ed anche Weber ci mette del proprio, manipolando i registri più oscuri dell’organo, e sospingendo la musica alla ricerca di remote, se non soprannaturali, connessioni. Apprendo inoltre, perché l’hip-hop non è di mia competenza, che il ritmo di batteria di “The Sorcerer Of Isis” è stato campionato da celebrità quali Kanye West, Cypress Hill ed Eminen. Vi può incuriosire? Ma non è questo che mi induce ad invitarvi caldamente a (ri)scoprirli, per Giove!
SAMUEL PRODY: “Samuel Prody” (Global/Phonogram, 1971)
Innumerevoli tesori sepolti giacciono nel sottobosco heavy rock britannico dei primi anni ’70, e fra questi vale la pena ascoltare l’unico album/testamento dei Samuel Prody, dall’uscita di incerta collocazione (!). Alcune fonti lo danno pubblicato originariamente in Germania nel 1971, altre più tardi, nel ’73/’74. Il quartetto (età compresa fra i 20 ed i 23 anni all’epoca dell’incisione) nacque dall’evoluzione dei Giant, un combo dell’area londinese guidato dal chitarrista e vocalist Tony Savva, a cui si affiancava Derek “Mort” Smallcombe, a sua volta chitarra solista in un gruppo del Kent, High Broom.
Alla luce dell’omonimo LP, i musicisti si inserivano con autorità fra gli esponenti della generazione 1970 votata a suoni potenti ed originali, sulla scia di Led Zeppelin e Free, consanguinei di altre formazioni underground quali May Blitz, Leafhound, Incredible Hog e Ashkan. La presenza di una seconda voce solista, il drummer John Boswell, e di un bassista disposto a trasformarsi in terzo chitarrista (Stephen Day) offriva al gruppo una maggior gamma di risorse espressive, capace di risolversi nell’esplosiva “Scat Shuffle”, degna del paragone con Atomic Rooster ed Hard Stuff, o nel power-blues “Woman”, di tempra Zeppeliniana. Sottolineiamo anche i breaks strumentali di “Time Is All Mine”, che riecheggiano addirittura “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, oltre alle parti vocali decisamente lisergiche.
Infatti all’energia Samuel Prody sapevano unire un gusto spiccatamente inedito delle voci: basti ascoltare i cori a cappella che tipicizzano con uno straniante sapore mistico l’esoterica “Who Will Buy”, o che conferiscono un imprevedibile clima tribale alla lunga, spiritata “Hallucination”.
Inopinatamente, circa un anno dopo, dagli stessi studi di registrazione Trident, che hanno dato alla luce “Samuel Prody”, e grazie allo stesso produttore, Roy Thomas Baker, partirà alla conquista del mondo una delle band più famose della storia del rock, Queen! A Samuel Prody rimane invece l’ammirazione di una crescente nicchia di cultori; effettivamente, nonostante il silenzio che li avvolse all’epoca, sono numerose le ristampe susseguitesi in tempi recenti, l’ultima quest’anno della Guerssen.
HURDY GURDY: “Hurdy Gurdy” (CBS, 1971)
Nel 1970, l’onda lunga dell’eruzione underground con epicentro inglese aveva raggiunto altri paesi europei, ed anche la Danimarca coltivava una fiorente e versatile scena, dalla quale spuntavano Burnin’ Red Ivanhoe, Alrune Rod, Day Of The Phoenix, Ache, Old Man & The Sea… Fra questi, Hurdy Gurdy esibivano versatile rock elettrico dagli accenti hard, blues e psych in classica formazione triangolare; nati come Boom Boom Brothers, nel 1968 si trasferirono da Copenhagen a Londra, teatro di ogni nuovo fermento musicale, cambiando nome. Lì strinsero amicizia con il celebre cantautore scozzese Donovan, che addirittura dedicò loro una canzone, “Hurdy Gurdy Man”. Inizialmente dovevano esser loro stessi ad interpretarla, ma Donovan se ne compiacque al punto di registrarla lui stesso, negando al trio l’autorizzazione ad utilizzarla. Nel 1971 uscì l’unico album eponimo per la CBS, destinato negli anni alle brame dei collezionisti. Nonostante l’essenziale line-up, impostata sulla rimarchevole chitarra solista di Claus Bohling (anche vocalist e principale compositore), sostenuto dall’incessante background del basso di Torben Forne e del drumming di Jens M. Otzen, il suono degli Hurdy Gurdy dichiarava una provenienza rock-blues per espandersi in molteplici direzioni. Nel brano d’apertura “Ride On”, il chitarrista si esprime in limpidi fraseggi jazzy, mentre nel finale, sia il blues dilatato in chiave lisergica di “Lost In The Jungle”, sia l’approccio rock-blues aperto all’improvvisazione (alla maniera dei Cream) di “You Can’t Go Backwards” sono più sintomatiche delle origini stilistiche del trio.
Nel corso dell’album gli orizzonti musicali si spingono verso l’hard libero da schemi restrittivi di “The Giant” e “Tell Me Your Name”, dove Hurdy Gurdy dà sfoggio di virtuosistica ed istintiva creatività jamming, fornendo un saggio vintage di heavy-psychedelia in “Spaceman”. Episodio a sé stante, ma oltremodo suggestivo, è “Peaceful Open Space”, dove Bohling imbraccia il sitar rivelandosi abilissimo nell’istigare atmosfere di folk orientale, accompagnato dall’elasticità ritmica delle tablas di Otzen. E’ curioso rilevare come in questo brano, la voce del leader potrebbe esser scambiata per quella di Ian Anderson! Hurdy Gurdy videro sfumare le loro legittime ambizioni come una miriade di formazioni dello scenario inglese dell’epoca, ma non sono passati invano, tutt’altro.
IRISH COFFEE: “Irish Coffee” (Triangle, 1971)
Con valorose formazioni quali Irish Coffee e Jenghiz Khan, anche il Belgio proponeva le sue risposte alla diffusione dell’heavy progressive inglese di Deep Purple, Uriah Heep e Atomic Rooster; in particolare i primi sono considerati forse la miglior band mai espressa da una nazione sempre vissuta ai margini del fenomeno rock, che a differenza delle limitrofe Olanda, Francia e Germania, non ha mai imposto artisti di fama internazionale. Non è colpa del quintetto originario di Aalst, nelle Fiandre, che avrebbe meritato maggior fortuna. Quando ancora si chiamavano Voodoos, i musicisti si presentarono al Midem di Cannes con il primo singolo “Masterpiece” (nientemeno!), suscitando l’interesse di una non meglio identificata etichetta americana, che instaurò con loro una lunga trattativa, conclusasi in un nulla di fatto. Nel frattempo il gruppo si era ribattezzato Irish Coffee, ed aveva registrato l’omonimo album in quattro giorni nella primavera 1971. Pubblicato su etichetta Triangle, vendette circa tremila copie (un consuntivo di successo per gli standard del rock belga) e con il trascorrere degli anni acquisirà elevata quotazione collezionistica. Lo stile del quintetto è ben calibrato in due riconoscibili direzioni: da un lato l’heavy rock d’assalto in omaggio ai canoni dei Deep Purple, strutturato su impetuose combinazioni di chitarra ed organo Hammond, a partire dalla citata “Masterpiece”, e con altri esiti esemplari in “Can’t Take It” e “The Show”.
Il vocalist William Souffrau, non possiede gli acuti laceranti di Gillan, in qualche occasione è più affine a Coverdale, ma riesce ad esprimere contagiosa aggressività. Irish Coffee adottano un linguaggio più personale nei brani melodici e d’atmosfera, dove il tastierista Paul Lambrechts (alias Pol Lambert) esibisce un tocco classicheggiante e progressivo: “The Beginning Of The End” e “A Day Like Today” sono raffinate ed evocative, mentre “When Winter Comes” fa pensare ai paesaggi invernali di Bruegel. E si pensi che il maestro dell’inarrivabile pittore del ‘500 fu Kock, originario di Aalst! Dopo altri tre singoli, Irish Coffee si sciolsero nel ’75, in seguito ad un incidente stradale che provocò la morte di Lambrechts, mentre altri due musicisti riportarono lesioni.
Riattivati dopo lustri come tante leggende del passato, hanno realizzato dal 2004 in poi tre album di studio ed un live.
Ciao Beppe,
Dalla cripta hai tirato fuori quattro dischi molto belli e uno stupendo, quello dei Power of Zeus, che riascolto molto volentieri. Sempre molto interessanti questi articoli sugli artisti meno noti degli anni ’70.
Grazie
Ciao Marcello, bentornato. Noi cerchiamo di trasmettere passione e (auspicabilmente) competenza, poi giustamente prevalgono i gusti soggettivi, quindi c’è chi preferisce i Power Of Zeus, chi Irish Coffee etc. L’importante è che suscitino l’interesse dei lettori anche nomi misconosciuti ma degni di attenzione. Quindi aspettatevi altre “riscoperte dalla cripta”! Grazie.
ciao Beppe, un caro saluto e un breve intervento per esprimere un parere, del tutto personale e che spero sia gradito: i tuoi contributi sull’underground anni ’70, che sia prog, hard, dark sound o psych, sono per me i più affascinanti e intriganti che leggo seguendoti su questo blog… nonostante (o forse proprio per questo!) trattino un genere che non rappresenta la mia “prima parte di collezione”. Complimenti, quindi, e grazie ancora!
Ciao Massimo, ti ringrazio perché i vostri pareri mi interessano molto. In realtà non mi aspettavo particolare interesse a riguardo, invece ho verificato con piacere che mi sbagliavo. Purtroppo il tempo è tiranno (sia per me che per GC) e quindi dobbiamo inevitabilmente selezionare i nostri contributi al blog, e conta anche l’opinione di chi legge! Pertanto sappi che ho già in previsione una successiva rubrica Underground. Alla prossima…
Questi sono gli Articoloni che mi fanno impazzire ! Un tuffo nel giardino incantato dai profumi sublimi. Leggo e rileggo, ascolto, qui sto veramente bene, le vibrazioni di questi articoli, gli inserti fotografici ed una copertina cosi evocativa a me migliora la giornata. I migliori ? Non lo so, tutti, insieme a mille altri ! So solo che la polvere che si respira in questi articoli e’ genuina. Quanto vorrei sfogliarle queste rubriche. Come gia’ detto in altri commenti
Thanks God……it’s Beppe
…e grazie a Dio, ci sono lettori come te, Giorgio, che apprezzano, altrimenti sarebbe superfluo esercizio di retorica. Di certo si respira aria di ere geologiche fa! Il vostro consenso dà un significato a ciò che mi piace comunicare.Ciao!
Buongiorno a tutti,
intervengo per dare uno spunto, tranne che sulla qualità del pezzo. Questi gruppi lottavano contro le registrazioni pessime e sui migliori di quelli presentati, gli Irish coffee, possiamo farci un’idea di che avrebbero fatto con mezzi migliori, grazie agli ultimi loro due ottimi dischi (2015 When the owl cries e 2020 Heaven). Non hanno abbracciato la moda retro rock. A partire dall’esordio dei Wolfmother, s’è diffusa questa piaga di avere suoni anni 1970 ma brutti, fingendo che i metodi di registrazione e produzione fra 1980 e 1999 non siano esistiti e che i gruppi dell’epoca non li avrebbero mai usati. Legando ciò alla staticità della proposta di molti musicisti, ecco servita questa riproposizione dello stile conosciuto come Hard psych, che ha offerto veramente poco se non una sponda per i detrattori dell’Hard Rock, che lo definiscono privo di autenticità. Questo tuo pezzo, rischia di dare acqua a quel mulino, dal quale anche gli ultimi Greta Van Fleet si stanno scostando e ne pagano le conseguenze con meno riscontri. Uno stile che, secondo me, ha prodotto ai tempi gruppi eccelsi come Dust e Cargo, ma per il resto rimane una miniera di possibilità, ma poche concretizzazioni causa industria discografica poco munifica.
Ciao Luca, anche le osservazioni critiche sono ben accette, se fondate. Non è un mistero che sulle pagine di un certo mensile negli anni ’90, io mi sono dato molto da fare nel promulgare l’hard psych, lo stoner, il retro-rock. Che poi svariate proposte di questo genere non abbiano retto l’usura del tempo, è altrettanto vero. La tua severità nel giudicare superfluo l’hard psych posso capirla in parte, ma io penso che nei cambiamenti in atto in quel decennio, sia servito (anche, ma non solo) a riportare alla luce importanti formazioni cult del passato, meritevoli di valorizzazione: vedi il fenomeno delle ristampe. Anche a me sembrano inutili vari generi di musica, ma non questo. Infine, mi farebbe quasi piacere che il mio pezzo “possa dare acqua al mulino dei detrattori” (P.S. I detrattori ci saranno sempre, ormai è una moda a 360 gradi): vorrebbe dire che ci sono molti lettori del blog…Ce ne sono un pò comunque, mi accontento, non sono un giovane in carriera! Grazie in ogni caso dell’opinione motivata.
Ciao,
una risposta che fa riflettere: gruppi Stoner ottimi ci sono stati, e su quella rivista che mio padre comprava, leggevo tutte le tue recensioni avidamente. Io vedo l’apice negli Orange goblin e nei Monster magnet, ad es.
I detrattori: si spera sempre si “convertano” o portino acqua con la pubblicità involontaria.
In ogni caso, grazie della risposta e dello stimolo al riascolto, fanno bene entrambe.
P.s.: aproposito di Underground, gli Elektradrive suoneranno il 14 Giugno a Moncalieri, alle porte di Torino.
Grande articolo, che, reduce dal (fantastico!) concerto di sabato, è riuscito a strapparmi dal mantra degli immarcescibili AC/DC … infatti mentre scrivo sono all’ascolto degli Irish Coffee, con i Power Of Zeus i miei preferiti della cinquina proposta … avanti così Beppe, articoli di tal fatta sono per me il fulcro di questo bellissimo blog, spingendo alla (ri)scoperta di artisti di spessore inversamente proporzionale al loro successo commerciale e Dio solo sa quanti ce ne sono!
Ciao Giuseppe, quando i nostri tentativi di andar oltre i nomi più celebrati colpiscono i lettori, benché reduci (come nel tuo caso) dal concerto di giganti del rock come gli AC/DC, la soddisfazione è notevole! Penso inoltre che un appassionato sempre desideroso di estendere le proprie conoscenze sia ammirevole. Grazie.
Ciao Giuseppe, scusa il ritardo, ti avevo risposto dal cellulare ma evidentemente qualcosa non ha funzionato, e la mia replica non è apparsa. Mi fa davvero piacere che un “reduce” dal concerto di giganti del rock come gli AC/DC, si sia comunque emozionato nell’ascoltare artisti di “una volta”, finiti ai margini dello show-business. A me/a noi due del blog, interessa proporre ai nostri lettori qualcosa di possibilmente autonomo ed originale. Chiaramente anche il riscontro di chi commenta è una molla per spingerci a continuare, così per passione…Ti ringrazio molto.
Mammamia che 1-2 micidiale! Anzi, un 1-2-3-4-5! Io sono uno che ritiene di conoscere il rock degli anni ’70 in lungo e in largo. D’altra parte, penso, uno che ha i dischi Socrates drank the conium…Titus Groan…Arcadium…Highway Robbery…Dark…Zephyr…Still Mill è preparato in materia. E poi un bel giorno, quello stesso tipo accende il PC, fa un giro a leggersi se ci sono novità su un blog scritto da due persone cui tutti noi dobbiamo qualcosa e assume la consapevolezza, più o meno come il Socrate di cui sopra “So di non sapere niente”, che ne ha ancora di pasta da mangiare. Cinque nomi a totalmente sconosciuti (ho vacillato sui Josefus, ma me li confondevo con i Jericho). Non mi resta che fare come Alessandro Ariatti (un altro a causa del quale, all’epoca, di soldi ne ho spesi e parecchi) e mettermi lì a studiare. Grazie per le dritte
Ciao Paolo. Se ti può interessare ricerca nel blog un mio precedente articolo, “Rarità Prog & Heavy 1970-74”. Vi sono inclusi anche Dark e Arcadium che già conosci ed ulterori 8 gruppi-cult dell’epoca. Ce ne sono tanti altri, lo sai…Ti ringrazio per le positive considerazioni in merito e fa piacere che ci siano lettori sempre desiderosi di conoscere.
Beppe, trovo sempre adorabili questi scritti inerenti band underground, fuori dai grandi circuiti commerciali, soprattutto in un caso come questo in cui non conosco nemmeno uno dei nomi citati.
È un modo per andarsi a cercare materiale d’epoca, ma virtualmente nuovo, e visto che personalmente i miei acquisti di supporti audio riguardano ormai quasi esclusivamente artisti del passato, questo blog (e questo tipo di rubriche) è una fonte inesauribile di spunti.
Inesauribile, vista la quantità abnorme di dischi che è stata prodotta solo nel decennio 1970-1980.
Ciao Lorenzo, i vostri consensi mi inducono a considerare che (anche) questa è una linea musicale da perseguire. È indice di curiosità positiva la voglia di approfondire artisti misconosciuti. Vedremo di fare del nostro meglio. Intanto, grazie dell’incoraggiamento!
Tutte grandissime band! Hurdy Gardy la mia preferita, Irish Coffee splendidi con il loro sound undeground, Power of Zeus partono con it couldn’t be me brano da antologia x il sound e l’urgenza sonora dimostrata (il resto del disco non si assesta su quel valore). Josefus i più oscuri del lotto e i meno digeribili secondo me. Splendida disamina come sempre Beppe! Gli anni 70 sono zeppi di band di questo spessore ( Fuse, T2, Wild Turkey, Highway Robbery, Granicus ecc…..) arrivati a noi grazie ai Cd prima e al web poi….epopea storica tutta da riscoprire 😉
Ciao Luca Tex, so che nelle tue trasmissioni su Radio Trieste proponi (anche) materiale di questo genere che ben conosci, dunque sono lieto della tua approvazione. Certo, c’è abbondanza di materiale da ricercare negli archivi discografici di oltre 50 anni fa, basta averne voglia! Grazie dell’opinione.
Ciao Beppe,
Articolo preziosissimo che mi sono gustato con i brani correlati in sottofondo.
Inutile dire che nulla conoscevo e che ho gradito molto il poter, ancora una volta, imparare.
Grazie!
Le mie preferenze personali, a caldo, sono per Power of Zeus e Irish Coffee.
Nota a margine: Hurdy Gurdy (in italiano Ghironda) è uno strumento (cordofono a corde strisciate) che mi ha sempre affascinato ed a cui sono affezionato perché fondamentale nella musica tradizionale delle mie zone di origine.
Bellissimo articolo, grazie ancora.
Un saluto
Ciao Fulvio, grazie delle belle parole! Non avevo prestato attenzione al particolare dello strumento musicale che battezza il gruppo; incuriosito, ho riletto le note di copertina per scoprire se l’hurdy gurdy figurava nella strumentazione del trio, ma non c’è. Dettaglio comunque interessante.
Emozionante ed illuminante come sempre Beppe.
Grazie ancora una volta, per le emozioni dei tuoi scritti ma anche del significato scientifico-(pop)culturale che hanno, in questa landa digitale fatta di deserto emotivo ed intellettuale che è la Rete.
A Sangue Caldo in prima battuta io dico …. assolutamente Power Of Zeus!
Assolutamente maturi compositivamente e con una propria identità e senso e progetto musicale …. in linea con quei tempi ma …. con quella impronta Psych assolutamente speciale.
Cavoli che grandi pezzi!!!
Ciao Fabio, noto con piacere che sei sempre presente su certi argomenti e per me è significativo avere un feedback dai lettori su ciò che propongo. Per quanto riguarda le preferenze, posso garantirti anche da contatti privati che non c’è un gruppo nettamente favorito fra quelli proposti, ma ciò è positivo, perché significa che sono tutti differentemente apprezzabili.Ti ringrazio anche per il giudizio nei confronti del mio operato.
Ciao Beppe peccato non beccarci più a novegro io da tempo vado di domenica è una situazione piu easy ..bellissimo articolo come sempre …tranne hurdy gurdy che non conoscevo le altre bands sono fantastiche poi io adoro i josefus
Ciao Enzo, fa piacere risentirti. Sono contento dell’apprezzamento di un collezionista navigato come te, poi le preferenze sono molto soggettive. Importante è la passione comune che continua a motivarci. Grazie del commento.
Ciao Beppe, stavolta non posso lasciare pareri a “ragion sentita” sugli artisti da te trattati, visto che non ne conosco mezzo. Utilizzerò invece il tuo articolone stile “perfumed garden” per mettermi a STUDIARE, proprio come succedeva una volta con Rockerilla e Metal Shock. Mi permetto solo di segnalare, riguardo alla tua frase sulla “resilienza” di alcuni negozi, che qui a Verona ne esiste uno veramente (e fortunatamente) validissimo proprio in pieno centro storico. Non so se sia opportuno citarlo per questioni di “pubblicità non occulta”, ma sono sicuro che i lettori più appassionati del blog avranno già capito di cosa si tratta. Grazie ed un caro saluto.
Ciao Alessandro, tutti abbiamo sempre qualcosa da imparare. Importante è anche la disponibilità a conoscere. Per quanto riguarda il negozio di Verona, non sono informato sulle “pubblicità occulte”, ma non credo sia un problema se qualcuno ne segnala uno di fiducia. Rendiamogli comunque merito. Grazie a te!
È inutile, Beppe…
I tuoi costanti ed esaustivi interventi divulgativi, coi quali si scopre sempre qualcosa inerentemente le ‘nostre’ radici, sanno colmare sempre le mie lacune. Senza tutto ciò perderemmo sicuramente dei tasselli importanti.
Lunga vita e grazie, una volta in più.
Mox
Grazie Mox, sono onorato da quanto scrivi, detto da un enciclopedista come te. Parli di tue lacune, ma chi non ne ha? La storia del rock è ormai vastissima e non esistono tuttologi, anche se c’è chi millanta di esserlo. Ognuno di noi (naturalmente anche tu) cerca di dare il proprio, piccolo contributo. Ciao!