Citando un guru dell’era psichedelica contemporanea, Nick Saloman alias Bevis Frond: “Alla fine degli anni ’60 e nei primi ‘70, la musica rock godette di una libertà d’espressione mai sperimentata prima, ed i musicisti furono incoraggiati a ricercare nuovi orizzonti creativi.” In quei tempi ormai irripetibili, la scena di Canterbury svolse un ruolo peculiare nell’underground inglese, rielaborando melodie pop-psych e slanci progressive, accettando il confronto con il nuovo jazz-rock, sebbene gli artisti coinvolti (com’è avvenuto regolarmente in altri ambienti ed epoche) negassero l’esistenza di una vera e propria “scuola canterburiana”.
Capostipiti della medesima furono i Wilde Flowers, formazione R&B/soul costituita in origine da futuri membri dei Soft Machine e dei Caravan. Nelle loro file militavano fra gli altri Robert Wyatt, artista fra i più celebrati dalla critica intellettuale, l’eccentrico Dr. Dream Kevin Ayers, forse precursore del dandy Bryan Ferry, e Hugh Hopper: musicisti di grande spessore, che confluirono nei Soft Machine, oltre che intraprendere, specie i primi due, rilevanti avventure da solisti. Al di là di gusti particolaristici, Soft Machine hanno segnato un’epoca nel rock d’avanguardia, specie con l’acclamato “Third”. All’epoca di “Fifth” (1972), radicalizzavano la svolta jazz e complice un concerto dal vivo tenuto nella mia città, divennero anche gli idoli dei compagni di liceo. A mia volta comprai l’LP sull’onda dell’entusiasmo collettivo, senza però riuscire a condividerlo.
Il fascino di Canterbury, città del Kent, risale anche nell’intramontabile fama medievale, testimoniata dalla sua Cattedrale, prestigioso e più antico modello di architettura gotica britannica, sede storica della Chiesa d’Inghilterra.
Divenuta nel tempo città universitaria, con la sua peculiare commistione di cultura antica e moderna si è imposta, alla fine degli anni ’60, quale autoctona fucina di musica progressiva e militante.
Una scena particolarmente “promiscua”, come dimostra lo scambio di musicisti fra gruppi non solo famosi ma anche da culto, basti pensare ai Khan di “Space Shanty”, dove si ritrovavano luminari quali il chitarrista Steve Hillage ed il tastierista Dave Stewart, già insieme nei misteriosi Arzachel; Hillage diventerà famoso nei Gong di Daevid Allen (quest’ultimo reduce dagli originali Soft Machine) ed ancor più da solista, mentre Stewart ha suonato in altre leggendarie formazioni di Canterbury, Egg e Hatfield And The North.
Spesso gli alfieri di quella scuola si sono spinti oltre i confini dello scibile rock, contribuendo alla formazione di una sorta di Università del suono d’avanguardia, si pensi agli stessi Hatfield And The North, ai Matching Mole di Robert Wyatt e agli Henry Cow, questi ultimi piuttosto inaccessibili, per quanto mi riguarda.
Personalmente sono più incline verso il prog fantasioso e dalle spiccate virtù melodiche, per questo mi piace rievocare due formazioni affini di quella scena, Caravan e Camel. In verità i Camel avrebbero altre origini (nella Contea del Surrey) ma sono generalmente riconosciuti parte integrante delle vestigia canterburiane. In tema di promiscuità, Richard ed in misura minore, Dave Sinclair dei Caravan suonarono anche con i Camel, suscitando l’ironia della stampa che li soprannominò Caramel (cito Cesare Rizzi, dalla sua guida Progressive della Giunti)!
Ciò che segue è un’osservazione sui loro anni di maggior fulgore.
Caravan 1968-1974
Caravan 1969: Pye Hastings, Richard Coughlan, Richard Sinclair, David Sinclair
Nelle ultime fasi dei Wilde Flowers, a fianco del bassista Richard Sinclair, si schieravano in tempi diversi il drummer Richard Coughlan, il chitarrista e vocalist Pye Hastings, infine il cugino di Richard, David Sinclair alle tastiere, così la metamorfosi del nucleo originario in Caravan era compiuta.
Il quartetto è scritturato dalla MGM/Verve, etichetta di Frank Zappa e Velvet Undeground, che ha appena aperto una filiale a Londra, e nell’ottobre ‘68 esordisce con l’omonimo “Caravan”: il primo album somatizza il momento di transizione fra psichedelia e progressive come altri classici del periodo, ad esempio “The Thoughts Of Emerlist Davejack” dei Nice e “Music In A Doll’s House” dei Family. In apertura c’è l’affascinante melodia pop-psych del singolo “Place Of My Own”, ed altrettanto convincenti risultano “Policeman” ed il malioso gusto orientale di “Ride”, sottolineato dalle percussioni di Coughlan. David dà libero spazio al suo organo Hammond in “Grandma’s Lawn” e nella lunga “When But For Caravan Would I?”, che rispondono alle intuizioni prog dei Nice.
Sfortunatamente gli uffici inglesi della Verve chiudevano i battenti dopo pochi mesi, precludendo qualsiasi chance di successo all’opera prima dei Caravan. I pionieri di Canterbury suscitano però l’acceso interesse di un giovane produttore del settore artistico Decca, David Hitchcock, che li raccomanda alla sua etichetta. Non ottiene in cambio l’immediato placet per produrli, poiché i Caravan preferiscono gestire da soli le registrazioni di “If I Could Do It All Over Again, I’d Do It All Over You” (settembre ’70), preceduto di un mese dal raffinato singolo “Hello Hello”, che di fatto inaugura la loro fondamentale epoca Decca. Lo scenario agreste della bella foto di copertina non è ripreso nella campagna inglese ma all’Holland Park di Londra, comunque nell’LP convivono in magistrale equilibrio sofisticate digressioni strumentali prog-jazz ed atmosfere bucoliche, alle quali offre un necessario contributo il fratello del chitarrista, Jimmy Hastings, al flauto e al sax.
La sintesi avviene splendidamente in “Can’t Be Long Now/For Richard”, che molti considerano il brano per eccellenza dei Caravan, ed il livello dell’opera è costantemente elevato, da “And I Wish I Were Stoned” a “With An Ear To The Ground…”, che combinano melanconiche melodie vocali e sviluppi strumentali imprevedibili, dove le tastiere di Sinclair svolgono un ruolo primario ma non ridondante. Nelle vellutate atmosfere illustrate da flauto e pianoforte di “With An Ear”, Caravan palesano affinità con la svolta prog-jazz dei King Crimson di “Lizard”.
Il periodo di fervida ispirazione del quartetto culmina nella realizzazione del terzo “In The Land of Grey And Pink” (aprile 1971), generalmente acclamato come il loro capolavoro e prodotto da quel David Hitchcock che ne aveva caldeggiato il contratto discografico. Incorniciato da una fiabesca illustrazione di copertina, che ben rappresenta le fantasie à la Tolkien dell’epoca, l’album si dischiude sulla seducente sensibilità pop di “Golf Girl”, che riecheggia qualcosa dei Kinks, prima di inoltrarsi nelle suggestive atmosfere folk-prog pastorali di “Winter Wine”. I toni delle tastiere di Sinclair e della chitarra di Pye conservano quel loro meraviglioso senso della misura, senza eccedere in virtuosismi e gusto estetizzante, anche nell’estesa suite “Nine Feet Underground”, ed il contributo ai fiati di Jimmy Hastings è sempre fondamentale.
Nonostante gli eleganti accenti pop di “Love To Love You” e della title-track, anche questo opus magnum resta assai lontano dai quartieri alti della classifica inglese; le prime divergenze in seno al gruppo sfociano nell’abbandono di David Sinclair, che lo stesso Pye giudicava “superiore a qualsiasi tastierista inglese, ad eccezione di Emerson e Wakeman”. Desideroso di nuove esperienze, David suona nel primo album solo di Robert Wyatt, “The End Of An Ear”, quindi lo segue nei Matching Mole. Nei Caravan lo sostituisce Steve Miller (non si tratta del celebre artista californiano), che giungeva dai Delivery, protagonisti di un solitario album, “Fools Meeting”, nel ’70. Il nuovo venuto accentua l’orientamento jazz-rock del quarto album “Waterloo Lily” (maggio ’72), caratterizzandone il clima musicale con il piano elettrico.
La svolta intrapresa si riflette nelle fasi strumentali di “Nothing At All”, con l’illustre ospite Lol Coxhill al sax, già autore di un album solista per la Dandelion di John Peel. Solo una canzone acustica, “The World Is Yours”, si distacca nel finale dal dominante feeling jazz del disco, in sintonia con certe avanguardie inglesi del periodo che prendevano ormai le distanze dal classico prog-rock. “Waterloo Lily” non frena però l’emorragia interna di membri del gruppo: Miller se ne va subito dopo, seguito da Richard Sinclair, che prosegue la sua opera negli Hatfield And The North, altra formazione storica di Canterbury.
Vale la pena segnalare nell’ambito della discografia dei Caravan anche il postumo “Live At The Fairfield Hall, 1974”, per la prima volta su CD in edizione estesa nel 2002.
Idealmente avrebbe rappresentato il canto del cigno degli anni Decca dei Caravan, ma quando gruppo ed etichetta si separarono nel ’75, la pubblicazione fu annullata. Uscì in tono minore nel 1980 in Francia come doppio LP, intitolato “The Best Of Caravan Live”; era prevalentemente basato sul repertorio del non esaltante quinto album, “For Girls Who Grow Plump In The Night”, e la scelta dei brani è molto simile all’orchestrale “Caravan And The New Symphonia” (1974). In formazione ci sono il rientrante Dave Sinclair a fianco di Pye Hastings, oltre al talentoso Geoff Richardson alla viola elettrica e al nuovo bassista Mike Wedgwood. La freschezza dei giorni migliori è forse sfumata, ma lascia spazio a soluzioni di elevato profilo tecnico, che pongono l’accento sulla perizia esecutiva dei musicisti. E’ dunque consigliato agli estimatori del gruppo, mentre tutti dovrebbero conoscere almeno “If I Could Do It All…” e “The Land Of Grey & Pink”, per l’apporto innovativo all’evoluzione del rock inglese.
I Caravan sono tuttora in attività, addirittura nel 2021 c’è stato il ritorno di fiamma, anticipato in estate dalla pubblicazione di un immane box della loro opera omnia (37 dischi!), “Who Do You Think We Are?” su etichetta Madfish/Snapper: materiale per appassionati facoltosi, che dimostra quanto sia persistente l’interesse dei collezionisti nei confronti di questi pionieri. In ottobre, otto anni dopo il precedente, è stata la volta del nuovo album di studio, “It’s None Of Your Business”, con Pye Hastings unico superstite del team classico: un come-back pienamente approvato dai cultori.
Camel 1973-1978
I “classici” Camel: Andy Ward, Andrew Latimer, Doug Ferguson, Peter Bardens
I Camel spiccano a loro volta fra le più longeve formazioni dell’intero scenario progressivo inglese, ancora operativi agli ordini del fondatore Andrew Latimer, singolare caso di talentuoso chitarrista e flautista.
Il nucleo embrionale risale alla metà degli anni ’60, quando Latimer costituisce The Phantom Four nel Surrey; diventano Strange Brew con l’ingresso del bassista Doug Ferguson (1968), poi si ribattezzano The Brew, e nel gennaio del ’69 accolgono nelle loro file il 14enne batterista Andy Ward. Due anni dopo, il trio accetta l’offerta di suonare con il songwriter Phillip Goodhand-Tait, nel suo album “I Think I’ll Write A Song”, ma il sodalizio finisce qui, strozzato dall’insuccesso dell’opera. Determinati ad estendere la line-up con l’innesto di un tastierista, The Brew entrano in contatto con Peter Bardens grazie ad un annuncio sul Melody Maker. Sulle scene dal 1962, Bardens era il musicista più esperto della formazione, reduce da significative esperienze R&B quali The Cheynes (con Mick Fleetwood), The Peter B’s, ancora con Fleetwood e Peter Green, e Shotgun Express, dove Rod Stewart affiancava quegli stessi musicisti prima di unirsi al Jeff Beck Group. Nel 1965, Peter aveva suonato per qualche mese nei Them di Van Morrison, ma il suo esordio nell’emergente circuito progressive avviene nel ’68 con i Villane. Prima dell’ingresso nei futuri Camel, il tastierista aveva già realizzato due album da solista su Transatlantic, “The Answer” e “Peter Bardens”, fra il 1970 ed il ’71.
Non meraviglia pertanto che sia l’ultimo arrivato a prendere il comando delle operazioni, così The Brew si ribattezzano Peter Barden’s On nell’ottobre ’71, prima di assumere l’identità definitiva un mese dopo. I Camel fanno quindi il loro esordio ufficiale suonando da supporto ai Wishbone Ash il 4 dicembre ’71. Il contratto con la MCA è sottoscritto nell’agosto ’72, e dopo infruttuose audizioni, il quartetto rinuncia all’ingaggio di un cantante per la registrazione del primo album, decidendo di suddividere le parti vocali fra Andy, Peter e Doug. L’omonimo “Camel” esce nel febbraio 1973, decisamente in ritardo rispetto all’eruzione del progressive (con epicentro 1969/’70), ma la sua freschezza d’idee si riallaccia idealmente all’immaginosa genesi del movimento.
“Slow Yourself Down” è strutturata sulla spinta dinamica dell’organo Hammond di Bardens, che in combinazione con la chitarra di Latimer cesella il riff heavy-prog di “Arubaluba”, ma più sintomatica della pacata personalità musicale del gruppo è “Mystic Queen”, con la sua melodia suadente affine ai Fantasy, leggenda di nicchia del settore. Giova segnalare anche la splendida intro acustica di “Never Let Go”. Il promettente debut-album vende circa 5.000 copie in un anno, un consuntivo poco incoraggiante per la MCA, che non offre al quartetto una seconda chance.
Una nuova etichetta, Gama Records (subito rilevata dalla prestigiosa Decca) giunge in soccorso dei Camel, che entrano in studio con David Hitchcock, produttore di Caravan e Genesis, per registrare l’album che dimostra pienamente il loro potenziale, il secondo “Mirage” (marzo 1974).
A livello strumentale, l’opera pone in grande risalto le trame d’organo e mellotron di Bardens, ed include inossidabili classici del gruppo come la trilogia di “Nimrodel”, composta da Latimer in omaggio a “Lord Of The Rings” di Tolkien, e la superba “Lady Fantasy”. Il ritmo marziale che introduce “Nimrodel” e l’ariosa magia sinfonica del mellotron riecheggiano i magnifici Spring; inoltre Camel suggellano la loro inclinazione per elaborate composizioni nel finale di chitarra dalle sonorità dilatate e spaziali, che non sfigurano al cospetto del Gilmour di “Atom Heart Mother”.
Latimer esibisce le sue qualità di flautista in “Supertwister”, e la lunga pièce “Lady Fantasy” è un altro saggio dell’elegante mutevolezza d’atmosfere nelle partiture strumentali del gruppo.
La copertina dell’LP riproduce un pacchetto di sigarette, e viene sostituita nell’edizione Janus in USA, dove la Camel minaccia azioni legali; così l’inoffensivo quadrupede del deserto viene prontamente avvicendato dall’immagine di un dragone. Ma il contrattempo non impedisce ai Camel di affacciarsi nelle classifiche di Billboard, e complice un tour con Wishbone Ash, di raggiungere il n.149 in classifica.
La soddisfacente risposta di pubblico induce il gruppo a sviluppare un’idea coltivata da un paio d’anni: la realizzazione un album-concept, punto d’arrivo per ogni prog-band che si rispetti… E nonostante l’insistenza di Bardens, ammaliato dall’opera di Herman Hesse, gli altri componenti decidono una trasposizione musicale del racconto di Paul Gallico “The Snow Goose”, curiosa storia di un’oca e di un guardiano del faro all’epoca della battaglia di Dunkerque.
I Camel cercano vanamente di ottenere un’approvazione ufficiale del progetto, ma l’autore, che ha partecipato attivamente a campagne contro il fumo, inorridisce all’ipotesi di esser associato ad un gruppo con lo stesso nome di una nota marca di sigarette… Per evitare complicazioni, il disco viene battezzato “Music Inspired by The Snow Goose”, ed è interamente strumentale, nonostante questa scelta faccia rabbrividire i discografici americani. Ma il quartetto vince la sua scommessa in Inghilterra, dove il terzo album esce nell’aprile ’75 ed è premiato con il 22simo posto in classifica.
Si tratta di un collage di quadretti musicali assai sofisticati, ma piuttosto frammentario rispetto alle abitudini del gruppo, poiché vari tasselli dell’opera durano solo un paio di minuti.
Nonostante si tratti probabilmente del loro disco più famoso, non possiede la forza espressiva di “Mirage” o del successivo “Moonmadness”; resta comunque una pietra miliare della “contaminazione” rock-musica classica, come si evince dall’elegante tema di “Rhayader”. Gli arrangiamenti orchestrali sono diretti da David Bedford, autore nello stesso anno di una famosa versione sinfonica del capolavoro di Mike Oldfield, “Tubular Bells”. “Dunkirk” è verosimilmente il momento più epico e solenne della performance per gruppo & orchestra. Unitamente allo stesso Bedford, i Camel rappresenteranno “Snow Goose” dal vivo in un leggendario concerto alla Royal Albert Hall di Londra (17 ottobre ’75), che sarà immortalato sul doppio “A Live Record”.
Il quarto “Moonmadness” (marzo 1976) è a mio avviso l’ultimo grande album progressive dei Camel, e nello stesso tempo apre nuovi orizzonti alla loro musica; il produttore Rhett Davies (già engineer di “Snow Goose”) dischiude al gruppo le porte di un suono aereo e cristallino, ancor più “atmosferico” che in passato, ed in qualche modo anticipa teorie new age. I brani, che rappresentano allegoricamente le personalità dei musicisti, sono ancora uniti da un tema conduttore, e la bella copertina di Field onora a suo modo la scuola di Roger Dean. “Song Within A Song” è un ideale manifesto della maturità dei Camel, ed esordisce con incantevoli spazialità musicali affini ai primi Crimson. Nell’ipnotica “Spirit Of The Water”, la voce filtra attraverso una raffinata melodia illustrata da pianoforte e flauto, mentre il singolo “Another Night” fa eccezione con la robustezza di un riff che stilisticamente prelude al pomp-rock dei Magnum. Il brano più futuristico è senz’altro “Lunar Sea”, che intitolerà il doppio CD antologico – consigliato ai neofiti – del 2001 ; i suoni elettronici ricreano magistralmente l’atmosfera evocata dal titolo, e le parti strumentali si distendono in soluzioni jazzy.
Nel tour del 1976, l’ingresso in formazione dell’ex-sassofonista dei King Crimson, Mel Collins, accentua l’orientamento jazz, che provoca la fuoriuscita di Doug Ferguson nel gennaio ’77. Sebbene il suo autorevole sostituto sia Richard Sinclair, già bassista di Caravan e Hatfield & The North, nonché eccellente vocalist (capace di risolvere un annoso problema dei Camel) il nuovo album “Rain Dances” si avventura verso differenti e più rarefatte forme musicali. Esce nel settembre ’77 con i contributi dello stesso Collins e di Brian Eno, e consolida le quotazioni dei Camel in patria (n.20 in classifica), che non risentono dell’apocalisse punk. L’epitaffio del “ciclo progressivo” dei Camel è il doppio “A Live Record” (aprile ’78). La prima parte è quasi interamente registrata dalla formazione del ’77, con Sinclair e Collins, ed è interessante ascoltare i classici del gruppo con l’innesto del sax dell’ex-Crimson. Nella seconda, figura invece la celebre versione live 1975 di “Snow Goose” con l’orchestra di Bedford, che talvolta appare leziosa, o quantomeno non incisiva come nell’originale in studio.
Forse la mancanza di una grande voce (del calibro di Hammill, Gabriel, Lake e Jon Anderson) ha impedito alla classica line-up dei Camel di decollare verso la stratosfera raggiunta dalle più celebri formazioni prog, ma la loro classe di raffinati esecutori resta di livello assoluto, per nulla adombrata dal trascorrere del tempo.
Come anticipato, Latimer non ha riposto il suo “giocattolo nell’attico”, e la testimonianza più recente risale al prestigioso “Live At The Royal Albert Hall” (doppio CD, Blu-ray, DVD) del 2019. La raccolta più esaustiva è il cofanetto di 4 CD su Decca, “Rainbow’s End (An Anthology 1973-85)”.
Purtroppo l’altro personaggio-chiave della storia dei Camel, il tastierista Peter Bardens, è scomparso il 22 gennaio 2002 a 56 anni, soccombendo ad un male incurabile. Due giorni dopo, sarebbe uscito il suo album d’addio da solista, “The Art Of Levitation”.
Adoro questi 2 gruppi e ritengo IN THE LAND secondo solo a THE LAMB per quanto riguarda il PROG. E al terzo ci metterei MIRAGE dei favolosi Camel dei quali il disco che mi piace meno è proprio il più osannato THE SNOW GOOSE visto che i dischi tutti strumentali mi annoiano.
Ciao Vanni, fa piacere ricevere commenti anche a distanza di tempo dall’uscita dell’articolo, perché dimostrano che quando si trattano artisti ed argomenti classici, anche lo scritto resta un pò “senza età”. Per quanto riguarda le tue preferenze, prendiamo atto che si tratta di “eccellenze” (con tanto di rima). Grazie
Buonasera,
Sono un fan dei Camel ormai da lunga data. Ho avuto la fortuna di vederli a Torino. Pochi gruppi come i Camel sanno suscitare in me emozioni. Concordo con chi dice che anche gli album più recenti meritano un ascolto attento. E lasciatemi dire che ritengo “Stationary Traveller” il brano musicale più bello che sia mai stato scritto. Mi emoziono ogni volta che lo ascolto.
Buonasera Marco, fa piacere che anche dopo un po’ di tempo ci sia interesse su quell’articolo. Certamente i Camel hanno fedeli sostenitori, forse non tanti da noi, ma appassionati, come nel tuo caso. Grazie per l’intervento.
Ciao, Beppe, giudizio perfetto, forse assieme ai Genesis i 2 gruppi che amo di più del progressive, camel in particolare.
Mi permetto di aggiungere che forse sarebbero da considerare le opere successive dei camel, Rajaz e A nod and a wink in particolare, secondo me grandissima espressione di un prog maturo, Latimer compositore eccezionale.
Poi sono gusti personali, secondo me meritavano più considerazione dal pubblico
Grazie mille
Ciao Loris, non sei il solo ad aver sottolineato la qualità dei lavori successivi dei Camel e fai bene. Per ragioni di spazio, ho ritenuto di dedicarmi alla produzione “classica” ma questo non esclude altri valori. Per quanto riguarda il pubblico, come ben sai, un decadimento d’interesse è capitato anche ad artisti di maggior successo. Grazie!
Ciao Beppe,
pezzo ben esplicativo su 2 gruppi che han fatto dei gioielli.
Personalmente li trovo calanti a partire dai capolavori (Snow goose e 9 feet) in studio, mentre dal vivo, pure anche i brani seguenti al periodo d’oro, mi sembrano più coinvolgenti. Sbaglio io? E se si, hai qualche consiglio per farmi ricredere?
Grazie del vs ottimo lavoro che continua sulla rete.
Ciao Luca, e grazie della fiducia, per ora tirrem innanz, come si dice dalle mie parti. Non ho assistito a concerti dal vivo delle formazioni trattate, ritengo che il periodo più fecondo (a livello di produzione discografica) sia quello di cui si è parlato, ma molti (anche un lettore in fase di commento) hanno apprezzato anche i lavori più recenti. A mio avviso per tutti i gruppi/artisti esiste il momento di massimo fulgore creativo, poi si può essere estremamente dignitosi ma non è facile per nessuno replicare lo zenit già raggiunto.
Ciao Maestro, condivido pienamente il cappello del tuo articolo. Premetto che ho conosciuto tardi questa scena musicale e me ne dolgo, perche’ la trovo interessante e piacevole. Molto romantica, a me certi dischi dei Caravan e Camel riescono pienamente a trasportarmi in un prato prospicente l’ oceano avvolto dal mist . Li ho conosciuti tardi, perche’ le mie sensibilita’ prima vertevano sull’ hard e poi verso l’ heavy della nuova ondata. Forse prima cera una certa suddivisione negli ascolti, i progster erano colti, riflessivi, sognatori e non amavano il suono duro ed operaio della colline nere di Birmingham. Gli amanti del rock sporco e cattivo venato dalla sofferenza del blues, non coglievano le atmosfere bucoliche e rurali di una campagna (ma anche architettura) britannica dove regnava il senso del bello e del sogno. Fatico, a penetrare nei meandri dell’ evoluzione canterburiana, diventata cervellotica e intellettualistica ma mi godo pienamente queste due band da te così bene rappresentate.
Un abbraccio
Giorgio, il tuo “componimento” con vena poetica è molto bello. Dimostra come la musica sappia ispirare negli ascoltatori sensibili e preparati visioni di pura fantasia. Grazie del “Maestro”, troppa grazia. La fatica nell’accostarsi a talune spinte in avanti della Scuola di Canterbury è condivisa, certe posizioni sono distanti anche dal sottoscritto. Molti artisti meritano invece un approfondimento. Ciao e grazie, davvero.
Scusa Beppe, mi sono venuti in mente i nostri Picchio dal Pozzo, che da varie parti ho letto che siano sulla scena canterburiana italiana. A mio parere, il disco del Picchio e’ piu’ vicino al suono universitario dei Soft machine che alle melodie di Caravan e Camel, che forse rappresentano un unicum per quel genere così giornalisticamente marcato come “scena di Canterbury”. Ritornando al Picchio, lo trovo un disco interessante che piu’ l’ ho ascoltato e piu’ mi e’ piaciuto, forse troppo avanti per i tempi in cui uscì. Ci puo’ essere secondo te una ricerca dei suoni e delle voci come fecero gli Area ? o e’ un andare oltre gli schemi sia del prog classico e del jazz-rock alla Perigeo per intenderci ?
Grazie e a presto
Ciao Giorgio, il gruppo ligure dei Picchio dal Pozzo era sicuramente costituito da ottimi musicisti, e penso assimilasse sia spunti della cosiddetta scuola di Canterbury, sia del rock-jazz anni ’70, quindi ci sta un pò tutto quello che citi. Però a differenza di Caravan e Camel (più vicini al prog classico) sono piuttosto distanti dai canoni musicali di mia osservanza, quindi mi astengo dall’emettere inopportune sentenze…
Ciao Beppe. Non sono esattamente il più grande conoscitore della scena prog di Canterbury, tuttavia il capolavoro In The Land Of Grey And Pink fa bella mostra di sè nella mia collezione vinili. Approfondirò ulteriormente grazie al tuo articolo. Thanks, master!
Ciao Alessandro, è giusto anche riconoscere eventuali limiti di conoscenza, è più serio di chi si propone come “tuttologo” e magari non lo è affatto. Poi, nel caso l’argomento sia stimolante, si può approfondire a posteriori. Non è solo degli “anziani” la facoltà di apprezzare musica colta (o meno) del passato. Grazie a te.
Be che dire caro Beppe..ancora una volta hai fatto centro!!
Dei Caravan e del loro capolavoro In the Land mi bastò la copertina (favolosa) per capire la bellezza di un disco rimasto nella storia del rock progressive.
Dei Camel (una delle mie band preferite) avrei da scrivere per un po ma mi limiterò a dire che Andy Latimer è uno dei miei 5 chitarristi preferiti di sempre (pregasi ascoltare con attenzione l assolo di ICE dall album I Can See…) e che al di la dei classicissimi di sempre (The Snow Goose e Moonmadness su tutti) ho apprezzato anche la produzione piu recente del gruppo (Dust and Dreams e Harbour of Tears sono dischi stupendi) ed è un peccato che una maledetta malattia gli stia impedendo di fare ancora grande musica….
Ciao Mimmo, noto che sei un attento conoscitore dei due gruppi (e mi fa sempre piacere sottolineare la competenza dei lettori, diciamo che gratifica anche me!) e fai bene a dir la tua sulla produzione più recente. Nel Blog devo mantenermi entro certi spazi (anche per i miei tempi di scrittura…), quindi opero delle scelte, di periodi od altro. Purtroppo poi l’età che avanza ed i malanni non risparmiano nessuno, nemmeno i grandi musicisti. Grazie del contributo.
Due grandi band, purtroppo poco celebrate in tempi recenti. Per questo spero che questo tuo bellissimo articolo possa contribuire a farli scoprire o riscoprire da quante più persone possibile. Allargando il discorso alla cosiddetta scena di Canterbury, trovo una sola pecca, ossia una certa ripetitività, una connotazione facilmente riconoscibile proprio perché troppo legata agli stilemi fondativi. Da questo punto di vista direi che i Camel sono il gruppo che si è mosso con più creatività e capacità di rinnovamento, come dimostrato anche dall’eccellente comeback degli anni ‘90.
Ciao Paolo, per mio gusto personale sono poco incline verso le connotazioni più “radicali” (in termini di linguaggio musicale) della scuola di Canterbury, mentre i due gruppi trattati sono effettivamente più alla portata degli appassionati di rock progressivo “classico”. Spero che l’articolo possa servire ad incentivarne l’ascolto. Molte grazie per l’intervento.
Buonasera Beppe.
Purtroppo non ho moltissimo da dire sulla scena di Canterbury nonostante le due band di cui parli siano esattamente quelle che conosco meglio, anche attraverso i dischi citati.
La mia conoscenza si ferma più o meno qui oltre ai Soft Machine, quel suono jazzato e indolente tipico di Canterbury, che secondo me c’entra in effetti poco con il progressive, non mi ha mai colpito in modo tale da approfondire l’argomento oltre la superficie, pur riconoscendone il valore.
Stessa cosa per il cosiddetto jazz rock, roba tipo Mahavisnu Orchestra o Weather Report, che però vantano proposte un po’ più dinamiche.
In the land of grey and pink è comunque un gran bel disco.
Ciao Lorenzo, grazie dell’opinione su un argomento che non è tra i più scontati nell’ambito del Blog. Come si deduce dalla lettura, sono cresciuto ascoltando le proposte progressive delle origini, e mi sembra legittimo dar spazio a quelle tendenze, anche facendo un passo indietro (nel tempo) rispetto al mio precedente articolo che inneggiava agli anni 80. Si scrive su tutto ciò che vale oppure merita una riflessione. A risentirci