La copertina di “Zeit” (Foto: Bryan Adams)
Metal "Moderno": origini e controversie.
Facciamo una doverosa premessa: principali destinatari di questo Blog sono i lettori che ci hanno seguito con passione quando Giancarlo ed io facevamo del nostro meglio per diffondere la musica che ci entusiasmava dalle pagine di Rockerilla e Metal Shock negli anni ’80. Quindi, prevalenza hard’n’heavy con qualche conflitto fra le saghe dei “difensori della fede” e gli appariscenti slanci glam dall’impronta melodica che sconfinava nell’AOR. Naturalmente c’era un retroterra di tutto ciò, che cercavamo insistentemente di valorizzare; nel mio caso risiedeva soprattutto nella tradizione hard rock e progressive del decennio precedente, con la quale sono cresciuto ai tempi del liceo.
Gli albori degli anni ’90 hanno suscitato molta disillusione in questa generazione di fans; le responsabilità sono prioritariamente addossate all’ascesa dell’”impero di Seattle”, che ha sconvolto il mercato discografico spazzando via la tradizionale scuola heavy, come i cataclismi che nella preistoria portarono all’estinzione dei dinosauri. Ma il grunge era soprattutto una commistione di hard rock, punk, psichedelia ed inevitabilmente rock’n’roll, non necessariamente antagonisti diretti del metal. Invece nuove tendenze erano sorte proprio dalle spinte estreme della civiltà metallica; non è questa la sede per enumerarne le declinazioni, ramificate negli innumerevoli sotto-generi.
Ma proprio nel fatal 1990, l’album della svolta modernista dei Pantera, “Cowboys From Hell”, prodotto da Terry Date che già anticipava i “tempi nuovi” con i Soundgarden, veniva premiato con un successo al platino in America; si trattava forse del primo manifesto post-thrash, dove le sonorità si facevano più meccaniche e monocromatiche, e la voce di Phil Anselmo (che personalmente ho preferito nella dimensione stoner-doom dei Down) sdoganava a livello di massa un’espressività roca e gutturale, lontana dalle intonazioni del metal classico. Probabilmente era l’anello di congiunzione con sviluppi immediatamente successivi.
Rammstein nella “galleria del vento” della Trudelturm (Foto: Bryan Adams)
Da lì in poi, a mio avviso, si innalzavano le quote di popolarità di orientamenti prettamente “anni ’90” come l’industrial metal (dai Ministry, pionieri di lungo corso, a Nine Inch Nails e Fear Factory) e soprattutto nu metal (Korn, Machine Head, Limp Bizkit, Slipknot etc.). Specialmente quest’ultima “acciaieria” recepiva le istanze crossover già sperimentate nella seconda metà degli Eighties, assimilando eterogenei influssi hardcore, rap, funky etc. Una teorica ricchezza di contenuti che però spesso portava ad una standardizzazione ripetitiva della formula.
In quel periodo, dovetti lasciare Metal Shock non per “divergenze musicali”, ma per incompatibilità con gli eredi (in redazione) di Giancarlo, assurto agli onori di Videomusic.
Riallacciando il legame affettivo con Rockerilla, che mi aveva offerto dal nulla la possibilità di pubblicare i miei scritti alla fine dei ’70, la condizione era però di approfondire proprio le istanze alternative metal di “fine secolo”.
Pur facendo di necessità virtù, difficilmente restai conquistato da molte durezze cosiddette “moderne”; spesso mi sembravano inespressive, tecnocratiche senz’anima, ai limiti della cacofonia. Pur distanti dalla mia formazione, pochi nuovi oracoli mi apparivano davvero rispettabili: le articolate pulsioni neo-progressive dei Tool, il furore rivoluzionario dei Rage Against The Machine, la personalità di Serj Tankian dei System Of A Down nel prospettare una guida vocale unica in quel contesto.
A prescindere dalle eccezioni, non posso certo considerarmi un cultore di tali scenari musicali. Eppure non voglio privarmi, e spero anche voi, del gusto di apprezzare imprese significative che vanno oltre la comfort zone in cui tutti amiamo ritrovarci.
"Zeit", l'angoscia col passare del tempo.
Rammstein 2022 (Foto Bryan Adams)
E’ con questo spirito che ho “ripassato” con piacere le ristampe dei Rammstein nell’articolo “Arte siderurgica tedesca” di sei mesi fa (novembre ’21). Dunque non sto certo a riproporvi la storia del gruppo berlinese, se non a cogliere gli spunti suggeriti dal nuovo “Zeit”, il loro ottavo album di studio.
“Zeit”, Tempo, reca infatti lo storico titolo del doppio album dei Tangerine Dream, che uscì cinquant’anni fa (1972) ed imprevedibilmente rese popolari ben oltre i confini nazionali le pur intricate meditazioni elettroniche dei “corrieri cosmici tedeschi”. Certamente le filosofie di Rammstein e Tangerine Dream sono ben distanti, sia musicalmente che culturalmente, ma oserei dire che in comune c’è il vanto di aver esportato con successo uno stile prettamente teutonico. Era infatti dai tempi della creatura di Edgar Froese e naturalmente dei Kraftwerk, che un gruppo tanto connaturato alle sue radici mitteleuropee, Rammstein appunto, non raccoglieva folle di estimatori, addirittura riempiendo gli stadi con i suoi spettacoli pirotecnici.
No, non sto dimenticando i classici Scorpions, Accept o Helloween, e la loro statura internazionale. Ma queste formazioni hanno tratto linfa vitale dalla scuola hard rock ed heavy metal anglosassone, adottando anche la lingua inglese.
I Rammstein non hanno mai rinunciato al canto in tedesco, una scelta che poteva senz’altro ritenersi azzardata, ma subito vincente – grazie al carismatico vocalist Till Lindemann – e alle proprie fondamenta storiche, dall’epica Wagneriana alle atmosfere decadenti e provocatorie del kabarett germanico d’inizio Novecento, plausibili fonti d’ispirazione di un’avvincente personalità musicale, lontana dagli stereotipi.
“Zeit” è dunque consacrato all’inesorabile trascorrere del tempo di Virgiliana memoria, motivo di riflessioni amare, depressive ma alleggerite da risvolti satirici, sintomatici delle modalità espressive dei cinque berlinesi.
“Arme Der Tristen” inaugura l’opera con atmosfere sinfoniche crepuscolari, che sottendono lo spleen esistenziale del testo, ed un notevole crescendo sostenuto da taglienti riffs di chitarra conduce al teatrale chorus cantato da Lindemann con la consueta enfasi: una prima conferma che questi deutsche si distaccano da qualsiasi modello vigente, grazie ad una personalità inconfondibile.
Il titolo guida “Zeit”, immortalato in un immaginifico video del regista Robert Gwisdek, è una superba ballata spettrale scandita dalla lugubre solista e dalla marziale chitarra ritmica dei messeri Paul Landers e Richard Z. Kuspe, mentre incombono sinistri cori femminili che fanno da contrappunto alla ieratica interpretazione di Lindemann.
“Schwarz” insiste sulla stessa linea gotica di cupa atmosfera, stavolta scandita dal saturo rifferama e dal tocco misurato del piano di Flake Lorenz; a sua volta sfocia in un ennesimo, maestoso refrain vocale di evidente ceppo teutonico.
Differente l’accesso a “Giftig” attraverso sonorità techno dal sapore etnico, pur sempre incalzate da ritmi serrati. Un clima d’eccitazione sardonica, accentuata dai toni istrionici della voce, risuona invece in “Zick Zack”; ricollegandosi al tema portante dell’opera, la chirurgia plastica è derisa come un illusorio, maniacale stratagemma per sconfiggere il tempo che passa, spesso trasformando chi vi si sottopone in parodia di sé stesso. L’ironia tutt’altro che sottile, è esibita anche nel video di questo secondo singolo di “Zeit”.
Introdotta da apparenti cori misticheggianti, “OK” è invece un inno all’impellente desiderio sessuale, anch’esso messo in crisi dall’età che avanza, ma evocato dal ritmo martellante della musica.
Di tutt’altro stampo “Meine Tranen”, che di nuovo instaura una connessione con il controverso tema materno di “Mutter”, rinsaldando anche il legame con il capitolo discografico artisticamente più elevato dei Rammstein; si tratta di un nuovo vertice espressivo del gruppo berlinese, singolare commistione di momenti quasi sommessi e picchi altisonanti, ad esempio con l’esplosione di riffs densi di distorsione, alla maniera dei maestri gothic-doom Type O Negative. “Angst” emula piuttosto la tensione angosciosa di un altro loro classico, “Mein Teil”, pur non rifacendosi ad una realtà tanto terribile. Il suono è davvero poderoso, strutturato su minacciosi fraseggi di chitarra nonostante le aperture “spaziali” delle tastiere, e Lindemann appare al top delle sue potenzialità espressive, anche nei tratti più esasperati.
La fanfara circense di “Dicke Titten” – lascio a voi la traduzione – indugia su pensieri fra il serio ed il faceto che riguardano la necessità di una compagnia femminile in non più verde età. Sempre attenti nello sperimentare risorse tecnologiche, Rammstein azzardano persino l’innesto del famigerato auto-tune in “Lugen”, ma non preoccupatevi, nulla di sconvolgente, il brano non perde affatto la sua dignità.
Infine, se c’era un “Adios” quasi in chiusura di “Mutter”, “Zeit” si congeda con un funesto “Adieu” e non sorprende che sia tracciato da un riff di moderna matrice Black Sabbath; anche stavolta sono le note essenziali del piano a punteggiare l’atmosfera, ed il coro è imponente, nella miglior tradizione dei Rammstein.
Un “addio” enigmatico, forse allude all’impietoso flusso temporale che non risparmia nessuno; in ogni caso, se si poteva imputare qualche riserva all’Untitled (od omonimo) predecessore del 2019, che nonostante il gran successo, scontava un’assenza discografica di dieci anni, “Zeit” riporta il quintetto teutonico ai suoi migliori livelli, imponendosi come il più importante album del momento. Se il produttore è lo stesso, il concittadino Olsen Involtini, gran merito del suono del nuovo disco, tellurico come non mai, va forse attribuito alla masterizzazione di Jens Dresser.
In ultima analisi, non meraviglia che un protagonista dei chiari di luna anni Venti-Venti dall’intelligenza “diabolica”, Tobias Forge dei Ghost, abbia reso omaggio a questi musicisti visionari, dichiarandone l’influenza (contrariamente al nu metal). Invece un vecchio eroe degli ’80, il rocker canadese Bryan Adams, autore del classico “Reckless”, ma oggi forse più rinomato come fotografo, ha realizzato l’immagine di copertina di “Zeit”: ritrae i Rammstein sulle scale della Trudelturm, una singolare costruzione degli anni ’30 realizzata per la ricerca scientifica-aeronautica in un quartiere di Berlino, Adlershof.
Le edizioni "fisiche"
“Zeit” esce in tre configurazioni. In questo caso è allettante anche il formato-base CD, con copertina che emula la riproduzione in “miniatura” degli album in vinile, inventata dai giapponesi, di cui viene imitata anche la fascia-Obi con il titolo del disco in lettere dorate, incluso fascicolo di 20 pagine. Nell’edizione speciale CD le pagine diventano 56 ed il box che lo contiene è prolungato in altezza.
Infine, l’ormai obbligatoria edizione a 33 giri include doppio LP in vinile nero, copertina apribile e fascicolo dello stesso formato di 20 pagine.
Ciao Beppe,è sempre un piacere leggere i tuoi commenti, sembra di tornare a 3/4 decadi fa, quando tutto era più bello, specialmente la nostra amata musica, per cui mi ritrovo molto nel preambolo che hai fatto prima di passare alla recensione. Io che musicalmente sono cresciuto in diretta con la NWOBHM e in contemporanea andando a riscoprire i favolosi ed irripetibili ’70, ho una quasi venerazione per questi sestetto di crucchi folli, che nelle ultime due uscite discografiche sono tornati ai livelli di “Mutter”, ma con una produzione di gran lunga migliore. E dire che per anni gli ho snobbati, sbagliavo. Follia, genialità, melodia, unicità, capacità magnetica di coinvolgere i fans (splendidi, anzi superlativi i video, splendidi, anzi dinamitardi i concerti). Questo disco non è all’altezza del suo predecessore (galattico), ma è comunque un ottimo lavoro, segno che i nostri sono sempre in forma e spaccano di brutto senza guardare in faccia nessuno. Alla prox.
Ciao Marco, mi fa piacere che lettori come te prestino attenzione alle “introduzioni” che spesso riguardano il punto di vista di chi ha vissuto certe epoche musicali piuttosto che altre, con osservazioni personali a riguardo. Naturalmente condivido l’atteggiamento di chi si impegna ad andar oltre, con l’ascolto, le aree musicali già apprezzate per avventurarsi in qualcosa di nuovo: può piacere o meno, ma è giusto non irrigidirsi in posizioni preconcette. Che io sia “a favore” dei Rammstein l’hai capito leggendo, poi sulle singole uscite discografiche le posizioni dipendono molto dal feeling individuale. Grazie!
Ottima recensione come sempre. L’ho ascoltato con attenzione negli ultimi 15 giorni e ora mi sento di classificarlo subito a ruota dei primi tre classici.
Ciao Enrico, anche se i tempi delle recensioni (lo dico in generale) sono sempre stretti, un giudizio sarebbe da stilare dopo ripetuti ascolti, anche perché far paragoni con precedenti ben assimilati non è facile. Comunque concordiamo, Rammstein all’altezza del loro repertorio di livello superiore alla media. Grazie
Buongiorno Beppe, giusto il cappello introduttivo, nel quale mi ritrovo totalmente, compresa la diffidenza verso certe espressioni che potremmo genericamente ricondurre al rock più hard, affermatesi dopo il 1991.
Certamente tanto materiale post 91 è degno di attenzione e spesso di livello superiore, penso a un gruppo come i Korn, band magnifica, anche al di là dei gusti personali, ma spesso sbertucciata dai puristi.
D’altronde continuo a ritenere che band come Nirvana e Pearl Jam, riconosciute portabandiera del grunge, siano tuttora enormemente sopravvalutate, con il determinante avallo di quasi la totalità della critica musicale.
Magari i critici erano gli stessi che nei ’70 dicevano peste e corna di Zeppelin e Sabbath, tra i principali ispiratori del cosiddetto grunge.
La parte più squallida di tutta la vicenda la hanno fatta a suo tempo le case discografiche, che con un un colpo di stilografica hanno cancellato carriere di tanti magnifici gruppi hard rock, heavy e AOR, che avrebbero potuto tranquillamente coesistere durante gli anni 90 con le cosidette nuove realtà musicali. Sotto questa sorta di forche caudine sono passati anche insospettabili, tipo Motley Crue.
Sui Rammstein, onestamente ho poco da dire. Ho familiarità con la loro proposta e li hoseguiti con interesse fino al terzo disco, Mutter, poi mi hanno annoiato e li ho persi di vista, ma credo che soprattutto live meritino di essere visti. Dopodichè sono tra le poche band contemporanee che smuovono numeri reali, sia per gli spettacoli dal vivo sia per il poco che resta della discografia fisica, quindi viva i Rammstein.
Ciao Lorenzo, ottimo sunto del tuo pensiero. Effettivamente l’introduzione é stata scritta allo scopo di parlare un pò fra noi di questo passaggio “epocale” della storia del rock. I Rammstein sono una conseguenza di tutto ciò (che nella fattispecie giudico estremamente positiva), ma il Blog non è una rivista musicale, quindi a mio avviso ci sta anche un’opinione di carattere più generale come premessa ad un’uscita discografica. Al tuo posto non sottovaluterei l’ultimo “Zeit” del gruppo tedesco, ma qui non si vuole imporre nulla, si tratta ciò che si ritiene degno d’interesse, vecchio e più o meno nuovo. Grazie della partecipazione.
Ciao Beppe, io sono un appassionato del tradizionalismo del Rock duro e non quindi mi sento chiamato in causa su quello che hai scritto ed ho seguito gli sviluppi che il genere ha subito in tutti i suoi aspetti e diramazioni con estremo interesse e non mancando di entusiasmarmi nei casi più validi…
Questo grazie anche alla tua competenza nel giudicare, specie nelle tue recensioni appunto dell’epoca nei magazines citati, le realtà emergenti che apportavano realmente una ventata innovativa nel suono e nell’attitudine… Un nome su tutti i grandissimi Warrior soul che come rimarcasti tu, anche per me è stata la migliore band degli anni 90…poi la commistione di generi ha prevalso in misura un pó eccessiva e si è persa l’identità specifica, mettici anche un iperinflazionamento del mercato musicale ed ecco che trovare un nome che spicca è arduo senza contare che il cambio generazionale anche dei musicisti delle band cita influenze più recenti che classiche…quindi credo che il tuo blog sia utile a quelli come me che hanno bisogno ancora di una guida sicura che scandaglu la scena odierna con occhi e orecchie da ascoltatore “storico” ma non ottusamente retrogrado… Di questo non si può che ringrazraziarti
Ciao Roberto, ho fatto quella premessa perché ho riscontrato spesso scetticismo sui nomi nuovi o comunque più recenti, ma il mio invito è quello di non precludersi nulla a priori. Si può poi scartare ciò che non si apprezza. Non bisogna però irrigidirsi su posizioni pessimistiche del tipo “tutto è già stato scritto, inutile andar oltre etc.” Fa piacere che tu sia fra coloro che mostrano disponibilità ad accettare nuove proposte. Poi e’ evidente che certi maestri restino insuperati. Grazie anche della fiducia. In buona fede, cerco di divulgare gli artisti che trovo convincenti spiegandone i motivi.