Il piccolo stimolo di ragazzi con i tacchi alti
Nei miei “teens” la ricerca di un budget per comprare dischi era quasi maniacale, una fissazione quotidiana. Mi spiego meglio per chi non abbia vissuto quel periodo. Gli svaghi per un ragazzo erano – rispettivamente a salire dai dieci, dodici anni fino ai venti in cui si perdeva quel suffisso “teen” che tanto ci infastidiva – la bicicletta e i calci a un pallone, lo sport fatto e non seguito, il bar vicino casa con gli amici, il flipper e il biliardo, qualche raro cinema, le festicciole con amici e amiche, le singole piccole passioni. Chi suonava o ci provava, meglio dire, chi ascoltava musica, poca, da quella radio così avara, chi riusciva a comprarsi un disco che poi veniva sistematicamente riprodotto registrando una serie di copie su nastro. La televisione era solo Rai e nemmeno quella, dati gli orari. Non c’erano mica le 24 ore odierne e il prime time; la radio mancava di tutto, tranne qualche trasmissione che era un vero e proprio culto da non mancare per scoprire qualcosa senza spendere una lira, niente giornali esteri, pochi e scadenti…possiamo dirlo oggi con cognizione di causa… quelli italiani. Internet sarebbe arrivato qualcosa come una venticinquina di anni dopo e i suoi inizi non erano certo il “tutto di tutto” odierno. Io le provavo tutte le esperienze di ragazzino, tranne avere il coraggio di star dietro alle ragazze che mi piacevano da morire, sì, ma ero troppo timido e insicuro per provarci. Quasi, dico quasi, peggiore di come io sia oggi.
Giocavo a calcio, dunque, ovunque fosse possibile, dalla stradina sotto casa alla spiaggia, al parcheggio notturno dei grandi, primi, supermarket, al campetto non lontano da casa. E poi il tennis e qualsiasi cosa potesse farmi sfogare. I sedici anni con il porto d’armi controfirmato dal padre fiducioso ma incosciente erano da venire. Per tutto quello che significava necessità ulteriori, il primo motorino e la benzina, il cinema, la piccola uscita serale con pizza al taglio e spuma, era necessario ricorrere a un minimo di budget. Mio padre mi dava mille lire la settimana che rappresentavano un nulla, se avevi intenzione di fare un po’ di tutto. E dato che la mia grande passione esplosa nei miei dieci anni (incredibile…solo dieci…un giorno dovrò ringraziare la fortuna di aver avuto due iniziatrici che mi avvicinarono al culto con il loro mangiadischi, e magari ve lo racconterò…) era divenuta la musica, far rientrare tutto nelle mille lire era impossibile. Così, raggiunti i quindici anni, ma potrebbero essere anche un pelo meno, iniziai a darmi da fare, smettendo di rubacchiare 45 giri qua e là alle festicciole e provando qualsiasi piccola attività che mi garantisse un’entrata.
Ma non bastava lo stesso. Ricordo che i miei primi long playing, i 33 giri… costavano ai tempi dalle 1800 lire alle 2300. L’aumento che improvvisamente giunse tra capo e collo con gli import che portarono il costo a 2800/3500 fu come la mazzata economica della grande crisi di Wall Street del ’29. Ho ancora in mente i salti mortali che feci un natale, e che vi risparmio per pietà, per mettere insieme le 10500 lire per comprare i tre dischi che avrebbero rappresentato la mia personale strenna. Ovvio che qualsiasi possibilità di risparmiare sul costo dei dischi che progressivamente era diventato la mia prima voce in uscita, era una ricerca quotidiana. In più non tutti i 33 venivano stampati, con ritardo, in Italia ed era necessario, se volevi assolutamente avere QUEL disco, fare i salti mortali. Il fatto di avere un po’ di amici dalle disponibilità superiori alla media e che non facevano altro che sbattermi in faccia l’ultimo acquisto, costringendomi spesso a inventarmi, letteralmente, le entrate peggiorava le cose : occhio non vede , cuore non duole. Ricordo la vendita della scatola del trenino elettrico, salvo poi rimpiangerla per mesi. Lo scambio di una Aquila D’oro, bicicletta da uomo con freni a bacchetta che oggi varrebbe una mezza fortuna, per un 33, vendetti tutta la collezione di Tex, e, in momenti di vero delirio, quando i lavoretti mancavano, vendetti a pezzi una serie di oggetti che fregavo nel garage di certi zii che venivano solo in estate e che avevano improvvidamente lasciato le chiavi al portiere, chiavi che avevo imparato a rubare per poi rimetterle al loro posto. Un delinquente giovanile.
Comprenderete come un buon disco usato, uno scambio alla pari fossero merce rara. Poi, un giorno, credo fosse il 1972 o comunque io li scoprii in quel periodo, qualche grande negozio di dischi, iniziò a smerciare i famosi “forati”. Alcuni negozi li vendevano a prezzo veramente basso, in certi casi; altri approfittarono del grande guadagno per vendere a prezzo pieno un vinile che a loro costava quasi nulla, contando sulla ignoranza dell’acquirente. I forati erano i dischi che nella grande distribuzione estera, prevalentemente inglese ma soprattutto americana, venivano venduti a basso costo vista la scarsa penetrazione di mercato dopo l’uscita, piuttosto che venir distrutti. Si riconoscevano perché avevano su uno dei quattro lati un foro nella copertina; talvolta un vero e proprio piccolo taglio di un centimetro o due che ne rovinava l’estetica…un crimine di guerra paragonabile agli esperimenti efferati di Joseph Menghele, per noi appassionati! … ma che ti permetteva di acquistare con il costo di un solo 33 almeno due, a volte tre, in casi eccezionali quattro dischi. Ricordo alcuni album a 300 lire… un sogno…
I cataloghi di questi due o tre negozi, ricordo che il primo che ebbi in mano era di Genova, diventavano l’elemento di aggregazione per giorni per il nostro gruppo. Ognuno teneva per una sera il catalogo, sceglieva i dischi, li contrassegnava con un proprio colore o con una sigla e infine si procedeva all’ordine. Il motivo era evidente : oltre un certo ordine non si pagavano le spese postali. Se penso oggi a quante cose meravigliose non ebbi la possibilità di acquistare, mi gira ancora la testa. Ma tante riuscii a prenderle, però. Così, poco prima di natale del 1971, mentre trascorrevo la mia oretta quotidiana sfogliando dischi negli scaffali e ogni tanto avendo pure il coraggio di andarli ad ascoltare nelle due “salette d’ascolto” che quel negozio della mia città aveva e finendo per lasciarci spesso il cuore per non aver avuto il denaro in tasca, cascai su un disco tagliato. In alto a destra, la copertina era mancante di una bella fetta di cartone e pensai immediatamente che l’assassino che aveva gettato sotto la macchina quel disco fosse veramente distratto, oltre che stronzo.
Prendendolo in mano mi resi conto che anche l’angolo opposto era mancante di una uguale fetta di copertina e a quel punto mi soffermai con più attenzione. La copertina voleva dare l’impressione della tridimensionalità e i due tagli dovevano aiutare a dare il senso di un cubo che conteneva un cielo azzurro con il lungo titolo che ne sbucava tra le nuvole : The low spark of high heeled boys.
I Traffic non mi erano certo sconosciuti. Possedevo, come chiunque leggesse Ciao 2001 – un giornale che non smetterò mai di odiare per i contenuti e ringraziare al tempo stesso per avermi tenuto viva la passione, ma che rappresentò alla lunga più un danno che un vantaggio per la categoria musicale italiana – John Barleycorn must die, un disco molto bello, l’apoteosi della creatività di Steve Winwood e l’esplosione artistica di Chris Wood e grazie a Dio anni luce migliore di quei due primi del gruppo che vennero osannati e che mai riuscirono ad esaltarmi come gli scriba di quel settimanale fecero, io che iniziai ad amare, progressivamente, i Traffic, solo da Last Exit in poi. E’ vero, sul primo c’era quel lampo che squarciava la, per me, monotonia del resto…quella immortale Dear Mr Fantasy, e sul secondo LP la Feelin’ Allright di Dave Mason, ma se non ci fossero stati i successivi album, me li sarei persi lì. Ai tempi era necessaria una feroce selezione.
Anzi ricordo perfettamente che i primi due vennero quasi subito sbolognati in scambio di altro che mi aggradava molto di più. E ricordo anche che prima di comperare Last Exit e il successivo live Welcome to the canteen, li ascoltai a lungo su un nastro, fino a decidermi. Che fare dunque con questo ignoto vinile che arrivava per di più a brevissima distanza dal live della mensa ? Non avevo il coraggio di chiedere l’ennesimo ascolto; il titolare del negozio aveva imparato guardandoci nei movimenti quando le nostre richieste erano dettate da un futuro acquisto o da semplice curiosità e non volevo bruciarmi altre possibilità. Così lo riposi, sperando di trovare qualche brandello di notizia. Ma dove ? Il disco era visibilmente di importazione e sulla stampa locale sarebbe stato trattato, se lo sarebbe stato, dopo un paio di mesi al minimo. Comprarsi un Melody Maker nell’unica libreria della Versilia che lo faceva arrivare saltuariamente era un lusso, provare ad andarlo a sfogliare un rischio da non correre, dati i proprietari.
Attesi che uno in particolare dei miei amici più facoltosi ne portasse una copia a casa e due mesi dopo gli passai la mia copia di Thick as a brick, comprata di corsa prima di lui proprio per utilizzarla come “merce di scambio per ascolto”. Ricordo che i Jethro Tull mi piacevano moltissimo, Stand Up fu uno dei miei primi LP comprati con il sudore della fronte, e prendere Thick non fu un rischio.
Devo ammettere che il mio inglese impiegò parecchi anni prima di diventare dignitoso, anzi, quasi una vita, e solo con il lavoro e gli anni della maturità divenne una lingua parlata e non una sofferenza fisica, ma non riuscivo proprio a dare un senso a quella frase : the low spark of high heeled boys. Sì, era traducibile, diciamo, ma non ne comprendevo il senso. Non parliamo di afferrarne il senso dei testi… i testi, quei testi che quando erano presenti all’interno di un disco rappresentavano una luce in fondo al tunnel e quando mancanti facevano diventare una caccia al tesoro la possibilità di catturare anche solo poche parole dal cantato. Avere un madrelingua per le mani significava, per lui, o lei, passare un paio d’ore a captare qualcosa nelle canzoni che facevo ascoltare loro, tanta era la curiosità. Fu in quel tempo che mi resi conto che se era un esercizio difficile, talvolta impossibile, anche per loro, figurarsi per me.
Il disco era buono, in tutta onestà, ma oltre a un brano cantato da Jim Capaldi, era proprio quel brano a dare un sapore di mito a tutto il resto : lunghissimo, quasi dodici minuti, era uno snodarsi di voce, sax, chitarra e lente percussioni. Lo adorai dal primo ascolto.
Solo anni dopo scoprii che era divenuto un classico anche per le radio persino americane nonostante la lunghezza che ne impediva la trasmissione. Per anni, però, molti anni, mi rimase la curiosità bruciante di afferrare il senso compiuto di quel brano stupefacente, avvolgente. Finché mi arresi. Ne imparai il testo con l’avvento del web e di un inglese decente, ma continuò a sfuggirmene più che il significato, il senso. Mi ero fatto una mia idea, che poi trovò conforto chiacchierando con un tipo adorabile che suonava in un gruppo che amai e che ebbi a portata di mano per un paio di giorni, ospite per lavoro, Phil Manzanera. Apparentemente anche lui non ne aveva capito il significato pur amando i Traffic ed il brano in particolare, ed avevamo deciso che il senso fosse quello di una sorta di presa in giro della nascente scena inglese del glam rock, fornito di calzoni a zampa d’elefante e di tacchi altissimi, in voga proprio all’inizio dei settanta, quando quel disco era uscito e che c’era una vena di tristezza in Winwood che ne aveva scritto i testi per trovarsi con un gruppo schiacciato, circondato, da una musica certamente popolare ma rozza e poco nobile come quella dei Traffic. Ecco spiegata “la piccola scintilla dei ragazzi con i tacchi alti”.
Ovviamente non avevamo capito una beneamata mazza. Un giorno, leggendo una intervista a Capaldi, mi resi conto di quanto ci eravamo sbagliati. La storia era questa : Jim Capaldi era in vacanza con un amico, l’attore Michael J. Pollard, un tipo simpatico, dal naso schiacciato e che è morto solo pochi mesi fa, ed insieme a lui cercava di scrivere la storia di base per un film che volevano girare e che non vide mai la luce. Le cose andavano così a rilento che un giorno, Pollard, che girava vestito come un cowboy, con stivaletti a tacco e panciotto, come un ribelle del far west, lasciò scritta la frase sul copione incompleto dell’amico; quella frase stava a significare il desiderio di ribellione, lui, il cowboy bassotto, il low rider, dava una piccola scintilla dall’alto dei suoi tacchi alti. Capaldi la riportò a Winwood che ne fece un inno alle fregature che i discografici erano riusciti a dare a una generazione di musicisti… “la percentuale che hai pagato è troppo alta e l’uomo in giacca si è appena comprato una macchina nuova dai profitti che ha realizzato con i tuoi sogni, ma oggi hai appena letto che hanno sparato a quell’uomo con un fucile che non ha fatto rumore, ma non è stata la pallottola a ucciderlo, è stata la piccola scintilla dei ragazzi con i tacchi alti”… che seguiva quell’inizio deviante : “se vedi qualcosa che sembra una stella schizzare fuori da terra, e ti gira la testa per una chitarra che suona troppo alta e non puoi evitare quel suono, non ti preoccupare, se ti succederà, siamo stati tutti ragazzi a giocare con i giocattoli, e la cosa che senti è proprio la piccola scintilla dei ragazzi con i tacchi alti”….ammetto che non ci sarei mai arrivato.
Il successivo disco dei Traffic, neppure a dirlo, lo comprai al volo, anch’esso con la sua copertina tagliata ma ancora più bella e un messaggio ancora più subliminale “Shoot out at the fantasy factory”, ma le composizioni erano tutte luminose, bellissime, con un gruppo che viaggiava a mille. Ed uno dei miei più grandi rimpianti resta non aver avuto il denaro per andarmene a vedere il tour di quel disco, che, incredibilmente, passò pure per l’Italia. Aver perso i Traffic originali resterà una delle mie grandi delusioni, anche perché non potei far altro che consolarmi con il disco di quel tour, On The road, una cosa imperdibile, adorabile, che non può mancare in casa di nessuno, da uno dei più bei gruppi che la perfida Albione abbia partorito. Ma perché parlare di questa piccola scintilla ? E cercare di convincervi a scoprirla ? Perché i lunghi giorni di questa reclusione da virus mi spingono ad ascoltare cose che non tengo per le mani né sento da anni e così, per caso, mi è capitato di recuperare un cd di una strana coppia Dave Mason e Jim Capaldi che oltre vent’anni fa si incontrano e fanno un breve tour americano insieme.
Metà Traffic che riprendono, tra l’altro, otto brani del gruppo originale, offrendo una versione intima, delicatissima, inaspettata e imperdibile nella sua dolcezza, proprio di Low Spark, eseguita, chitarra acustica e voce. Una cosa che neppure il Tube del web può aiutarvi a trovare, perché, evidentemente troppo poco nota e chissà come finita in mezzo ai miei dischi. Ecco, quella scintilla acustica dovreste davvero fare di tutto per ascoltarla, non dopo aver imparato ad amare l’originale, guidata da quella voce unica che solo Winwood, l’ex ragazzo prodigio, possiede ancora.
E se non fosse sufficiente per spingervi a provare ad ascoltare quella gemma, vi indico anche un’altra cosa che proprio non potete mancare su quel bel disco : una versione di Shouldn’t have took more than you gave che contiene un omaggio di una strofa intera ai Beatles, a Lennon e alla sua Dear Prudence che è bellissimo scoprire che si incastona perfettamente nel brano dei Traffic.
Spero non vi manchi il budget per iniziare la ricerca. Potrei darvi suggerimenti casomai. Per il reperimento di piccoli budget sono ancora bravissimo.
The Low Spark Of High Heeled Boy
If you see something that looks like a star
And it’s shooting up out of the ground
And your head is spinning from a loud guitar
And you just can’t escape from the sound
Don’t worry too much, it’ll happen to you
We were children once, playing with toys
And the thing that you’re hearing is only the sound of
The low spark of high-heeled boys
The percentage you’re paying is too high priced
While you’re living beyond all your means
And the man in the suit has just bought a new car
From the profit he’s made on your dreams
But today you just read that the man was shot dead
By a gun that didn’t make any noise
But it wasn’t the bullet that laid him to rest was
The low spark of high-heeled boys
If you had just a minute to breathe and they granted you one final wish
Would you ask for something like another chance?
Or something similar as this? Don’t worry too much
It’ll happen to you as sure as your sorrows are joys
And the thing that disturbs you is only the sound of
The low spark of high-heeled boys
If I gave you everything that I owned and asked for nothing in return
Would you do the same for me as I would for you?
Or take me for a ride, and strip me of everything including my pride
But spirit is something that no one destroys
And the sound that I’m hearing is only the sound
The low spark of high-heeled boys
Le simili situazioni di quegli anni, le medesime esperienze, gli stessi dischi, che per comprarli rinunciavo a tante altre cose, e mi emoziono sempre ripensandoci… .e quel ciao 2001 assieme ad un’altra rivista ma piu’ “acculturata” nel settore, si chiamava “Gong”, la ricordi?
Ciao Guido, perdona il ritardo ma le anche in titanio richiedono i loro tempi per permetterti di nuovo di sederti per più di cinque minuti consecutivi… certo che mi ricordo di Gong, anche se la stampa di quel tempo era divisiva anche o forse solo per scelte culturali e politiche. Posso solo dirti che rimpiango lo stimolo che vedere nuove uscite mi davano certe pagine; i contenuti ho preferito rimuoverli. Come tanti altri decisamente più recenti. Sempre meglio accettare un consiglio e poi farsi una idea propria. Ciao.
Gran bel pezzo ! E non mi riferisco alla musica dei Traffic, che purtroppo conosco poco, ma alle emozioni e ricordi che hai suscitato. Di qunando si è ragazzini in cerca, alla scoperta di qulalcosa. Influenzato da piccolo da mio fratello, (Genesis, Led Zeppelin Tangerine Dream…) ho iniziato ad asoltare con cognizoone di causa verso il 1979/80. Con la paghetta comprai Reggatta de Blanc. Mio fratello abbandonò , il “mostro” in lui non era così forte. Aveva trovato in me terreno fin troppo facile.
Da allora la collezione personale all’inzio di pochi esemplari si è ampliata ,anche per colpa tua e di Beppe (maledetti voi !) . Ho raccolto dischi anche superflui, trascurabili ma mi sono affezionato a tutti. Anche quelli più brutti (vedi Bad Channels dei BOC.)
Adesso che sono passati ormai tanti anni , che la vita si è complicata, gli impegni aumentati e il tempo diminuito, sono sempre in cerca di un bel disco da ascoltare, Anche se poi mi abbiocco per la stanchezza durante l’ascolto e non sai qunanto mi scoccia cazzo !
In fondo mi rendo conto che non è cambiato poi molto da quando leggevo Rockerilla.
E adesso mi tocca approfondire con i Traffic e via altri soldi… Dio solo sa quanti me ne sono sputtanati… e quanti altri se ne andranno…
Beh…se ti abbiamo fatto buttar via soldini preziosi mi dispiace…ma non posso prendermi la colpa di averti fatto comprare Bad Channels…non lo possiedo nemmeno 😀 Grazie delle belle parole. Prometto che faremo di tutto per non farti buttar via palanche : le iperboli su tutti i dischi in uscita non fanno per me, non hanno mai fatto per me…
Sempre bello leggere dei Traffic, ma direi su tutti quei “nostri irripetibili anni” e di quella musica. Vi seguirò …Happy Trails!!!
Happy trails… impossibile evitarli ed evitare quel periodo, vedrai che ne parleremo presto. Grazie.
Grande Giancarlo! Rievochi perfettamente esperienze e stati d’animo comuni di un epoca in cui l’acquisto di un disco, ma anche solo un articolo, un rarissimo spezzone video in TV , erano conquiste cosi emozionanti! Perfino più di un bacio o di una palpata di tette, magari a carnevale, donato da una sconosciuta che aveva bevuto un bicchierino di troppo… Perché la tipa nei giorni seguenti di solito non si ricordava di te o non ti filava, mentre il disco continuava a consumarsi nel giradischi… e continua a farlo, magari in un altro formato, dopo 40/50 anni.
Beh,forse l’ho già condiviso in un altro post, ma mi hai fatto ripensare a quando ricevetti un improvviso e inatteso dono di qualche mila lire da un cugino che ripartiva x la Sardegna… Immediatamente uscii di casa, presi la bici sotto un mezzo diluvio (non potevo mica aspettare che smettesse!) e arrivai dal mitico Fontana…
Avevo 15/16 anni e il disco era… John Barleycorne must die. Grazie,Roberto
Grazie a te Roberto, davvero…torna a rileggerci.