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ALBUM & CDC'era una volta HARD & HEAVY

RIVIEWS: Bon Jovi, Nestor, Blue Öyster Cult etc.

Di 16 Giugno 202416 Commenti

Il format di “Rock Around The Blog” non è stato concepito per le recensioni, si presta maggiormente ad un approfondimento monotematico, ad esempio: il nuovo album o una riedizione, e l’inquadramento più generale in un certo contesto storico; oppure, una serie di dischi, canzoni o gruppi, legati da un trait d’union comune.
Ovvio che i modi per sviluppare gli articoli siano molteplici, e lasciati alla discrezione dell’autore (Giancarlo ed io), ma sempre di pezzi piuttosto ingombranti si tratta, anche per giustificare le nostre apparizioni non proprio assidue – la vita di tutti i giorni non ce lo consente – sul Blog stesso.
Ci piace lasciare una traccia significativa del nostro pensiero a qualche affezionato lettore e tanto speriamo possa bastare. D’altronde è impensabile concorrere con siti o riviste costituite da svariati protagonisti e/o professionisti, che possono permettersi un vasto raggio d’azione e si sfidano a colpi di anteprime etc.
Ere geologiche fa e per anni, anche noi eravamo pronti a questi cimenti, ma ora le modalità sono sensibilmente cambiate; la prospettiva di recensire in continuità sulla base di files di pre-ascolto su PC o altro non è (eufemismo!) la mia metodologia prediletta. Ciò non toglie che la passione per scrivere commenti su novità discografiche è profondamente radicata in me, ne faccio spesso il pretesto per sviluppare l’indagine su un artista, gruppo o genere musicale.
In passato ho scritto e pubblicato una quantità notevole di recensioni: non ne ho mai tenuto né vantato il conto, ed erano abbastanza analitiche da non risolversi in poche righe. Da tempo sono attuati dalle redazioni schemi prestabiliti per controllarne le dimensioni, li ho praticati a mia volta, trovandoli un po’ restrittivi. In quest’occasione ho dunque voluto raccogliere una serie di recensioni di uscite più o meno recenti, che non hanno alcuna ambizione se non la volontà di esprimere il proprio pensiero su nomi a me congeniali. Se avete già questi dischi nella vostra collezione, vi propongo semplicemente un confronto d’opinioni. E mi perdonerete la storpiatura del titolo in Riviews, non di errore si tratta ma di spiritosaggine dello scrivente.

BON JOVI: “Forever”

Ci siamo occupati diffusamente dei primi lampi di gloria di Bon Jovi in occasione del 40° anniversario dell’omonimo album (1984) e conseguente ristampa celebrativa in vinile. Ma non si vive di solo passato e Jon, una delle più grandi rockstar americane di sempre – le vendite discografiche non sono un’opinione – torna in azione dopo il delicato intervento chirurgico alle corde vocali, con la sedicesima impresa di studio della sua band, che ancora include i compagni di sempre, il tastierista David Bryan ed il drummer Tico Torres.
Se erano stati avanzati dubbi sulla direzione musicale di recenti e discussi lavori, affermiamo subito che “Forever” (Island) è un quintessenziale album dei Bon Jovi, in linea con lo stile che li ha elevati ben al di sopra di molti concorrenti negli anni ’80, semplicemente con un approccio meno impulsivo e calibrato sulla maturità dei musicisti. A livello puramente energetico ne risente un po’ la componente hard rock (melodico) ma a livello di eleganza espressiva, varie composizioni risultano decisamente riuscite.
“Forever” è stato anticipato dal primo singolo “Legendary”, uno dei tre brani firmati in rinnovata collaborazione con Billy Falcon, un protetto di Jon che aveva prodotto il suo album di maggior successo, “Pretty Blue World” del ’91. Esordisce su un suadente arpeggio di chitarra che ne accompagna la strofa, ben cantata dal riabilitato leader e si risolve in un’incalzante canzone rock da stadio. Non aspettatevi dunque un Jon Bon Jovi esplosivo alla maniera della classica “You Give Love A Bad Name”, ma il suo timbro vocale sembra recuperare la freschezza delle origini. Nella successiva “We Made It Look Easy”, rende omaggio ad uno dei suoi ispiratori, Bruce Springsteen, nella dinamica e specialmente nel passaggio di tastiere a seguire il refrain, che riecheggia palesemente “Born To Run”.
Uno dei brani migliori, “Waves”, riallaccia il filo con la comfort zone anni ’80 dell’autore: è una power ballad dove il chitarrista Phil X offre un saggio di bravura, con l’assolo d’effetto che decolla letteralmente nello spazio. Il secondo singolo “Living Proof” è alquanto tipico, con un riff di chitarra munito di talk-box che chiama in causa il modello vincente di “Livin’ On A Preyer”, e nella stessa “Walls Of Jericho”, un anthem prettamente bonjoviano, il cantante sembra fare il verso a sé stesso.

Altri manifesti musicali sono più caratteristici della fase matura di “Forever”: spiccatamente “Seeds”, pomp-rock con arrangiamento dall’enfasi orchestrale e pregevole crescendo conclusivo, oppure ”The People’s House”, con il ritmo incalzante dettato dal piano di Bryan in bello stile, pungolato da un altro rimarchevole assolo di chitarra.
Episodi d’atmosfera davvero intrigante sono “Hallow Man”, una ballata intimista e countryeggiante, interpretata con intenso savoir faire emozionale da Jon e “My First Guitar”, sorta di struggente, forse ingenua dichiarazione d’amore verso il suo primo strumento a sei corde, dal fascino discreto.
In conclusione, più luci che ombre in questo come-back di Bon Jovi, che ancora riesce a formulare canzoni di qualità contagiosa dotati di un appeal a cui è difficile resistere, almeno per i suoi appassionati di lungo corso.

NESTOR: “Teenage Rebel”

Si tratta di un gruppo di alieni, catapultati qui da una galassia retrò che vive con anni di ritardo l’epoca d’oro dell’AOR? Me lo sono domandato ascoltando l’album d’esordio dei Nestor, “Kids In A Ghost Town”, nel 2021.
Vari indizi contribuivano al sospetto: un brano intitolato “1989” rievocava proprio un anno magico del rock melodico (non a caso sul Blog avevo già celebrato, nel 2020: “1989: Un Anno di AOR Heaven”) e scoprivo che coincideva con l’anno stesso di fondazione del quintetto svedese; è rimasto a lungo nell’oscurità, dopo le prime mosse all’insegna del prog-metal, causa scioglimento e ricostituzione che induceva ad un cambiamento stilistico. Infatti un’altra canzone, “Tomorrow”, ospitava nientemeno che Samantha Fox, cantante e sex symbol inglese che doveva la sua fama ad un provocante hit del 1986, “Touch Me (I Want Your Body)”. Come se non bastasse, i Nestor cantavano le lodi di Demi Moore – che aveva iniziato la sua carriera d’attrice negli anni ’80 – in “Perfect 10 (Eyes Like Demi Moore)”. Dunque un legame evidente con il vissuto di quel decennio, ed è pur vero che le fredde terre scandinave sono da lungo tempo il terreno più fertile del rock melodico, tradizione che continua imperterrita dagli esordi di antesignani quali Europe (soprattutto), Treat, Dalton, Glory, Bad Habit etc. E’ però altrettanto vero che i loro epigoni peccano spesso di un suono codificato, prevedibile, munito di sonorità distanti dalle lussureggianti produzioni di un tempo. Quest’ultimo fattore è difficilmente superabile anche con i “moderni mezzi”, ma c’è modo e modo di emulare. Abbondano plagiari francamente tediosi, e per contro musicisti ispirati, che pur non inventando nulla, riescono con indubbio talento a ricreare certa magia d’atmosfere musicali. Ed è ciò che rende più credibili di tanti altri i Nestor.
Alla prova del secondo album, “Teenage Rebel” (Napalm), con una copertina che si può confondere con quelle allineate negli scaffali dei negozi di dischi di una volta, il gruppo di Falkoping non può destarci meraviglia come al debutto, ma riafferma i propri valori. Dopo il singolare prologo “The Law Of Jante”, recitato dall’attrice Freya Miller (la legge di Jante è un’attitudine tipicamente scandinava nel denigrare chi riscuote successo!), “We Come Alive” riconduce alla memoria degli sfarzosi White Sister, mentre il brano che intitola l’album è un rampante modello di hard rock melodico.

Illustrati da piacevoli videoclip, “Victorious” esibisce il propellente del singolo accattivante, e “Caroline” è un episodio romantico ad ampio respiro, che si conclude con un coro a cappella. A livello strumentale il quintetto è impeccabile, gli interventi del chitarrista Jonny Wemmenstedt sono virtuosi e limpidi, gli addobbi delle tastiere di Martin Johansson colorano il suono di eleganti coreografie, ma certamente la voce immacolata di Tobias Gustavsson è la stella che illumina la musica, capace di emulare grandi eroi dell’AOR ’80 senza copiare pedissequamente nessuno. Ascoltate “The One That Go Away”, una ballata che gli Asia non avrebbero trascurato, oppure “Unchain My Heart” che non è la stessa di Dokken, ma la paternità del riff potrebbe essere di George Lynch, ed infine il pomp-rock di “9-21”, con il synth in stile Gregg Giuffria.
Facile a dirsi, non a farsi, altrettanto bene.

BLUE ÖYSTER CULT: “Ghost Stories”

Trovo davvero irritante leggere superficiali considerazioni di analisti rampanti di fresca generazione sui Blue Öyster Cult, magari limitando la propria prospettiva alle opere più recenti, oppure ironizzando sull’intoccabile reputazione del gruppo nella cerchia degli appassionati hard’n’heavy di lungo corso. Per chi ha vissuto le loro origini, è fuor di dubbio che i BÖC abbiano tramandato una riconversione della formula heavy metal (tale era la definizione, andatevi a documentare sulla stampa dell’epoca) nei loro primi tre, leggendari album della prima metà anni ’70: “B.Ö.C.”, “Tyranny And Mutation” e “Secret Treaties”. Furono persino dipinti come i Black Sabbath “americani” e ad onorare questo titolo fu realizzato anche un “Black & Blue Tour” negli USA, proposto dal produttore dei Sabbath, Martin Birch, che aveva eseguito lo stesso incarico in “Cultosaurus Erectus” (1980) dei BÖC. Ma poco importa se il gruppo in questione fosse più o meno heavy, ciò che conta è che ha lasciato un’eredità inestimabile, con un suono originale, ammantato di peculiari suggestioni oscure e fantascientifiche, avvalorate da liriche intellettuali (ricordiamo il contributo di Patti Smith e Michael Moorcock), fattore piuttosto raro nel rock a tutto volume.
Oggi sono due i membri superstiti del quintetto originale: Eric Bloom, che si avvicina agli 80 anni e Donald Roeser (Buck Dharma), non molto distante. Per l’occasione hanno assemblato quello che verosimilmente sarà il loro album d’addio, “Ghost Stories” (Frontiers); si tratta di materiale d’archivio tratto da registrazioni fra il 1978 ed il 1983, mai apparse nello loro discografia di studio, naturalmente processate e rimissate con l’ausilio della tecnologia moderna: vi suonavano anche i componenti originari, i fratelli Bouchard e Allen Lanier. Il materiale può apparire disomogeneo, ma in realtà copre il vasto raggio d’ispirazione che ha sempre caratterizzato la carriera dei BÖC.
Si apre con “Late Night Street Fight”, un mid-tempo piuttosto muscolare dal tocco esoterico tipico della band, e basta un intervento della solista di Buck Dharma per ravvivarne il ricordo di chitarrista fra i più ingiustamente sottovalutati della storia. “Cherry” è un omaggio al classico rock’n’roll, ma evidentemente più caratteristico è il brano-anteprima dell’album, “So Supernatural”, permeato di quell’alone melodico e spettrale che ha senz’altro influenzato gli ormai celebri Ghost, da “Ritual” in poi: vi ascoltiamo anche un arpeggio di chitarra che si riallaccia al principale successo del Culto, “Don’t Fear The Reaper”.

Qui incluse anche le uniche versioni in studio di due imperituri classici come “We Gotta Get Out Of This Place” degli Animals e “Kick Out The Jams” degli MC5, già contemporaneamente immortalate sul secondo album dal vivo dei BÖC, “Some Enchanted Evening” (1978). “Shot In The Dark” si cala in un’ambientazione jazz che suggerisce l’accostamento ai contrastanti flashes di “Monsters” (da “Cultosaurus”). La varietà rock rimbalza poi dall’attraente melodia psych di “The Only Thing”, all’impronta southern di “Money Machine”, sfumando nei melodrammatici cori AOR di “Don’t Come Running To Me” (memorabile in quest’ambito la loro “Take Me Away”, scritta da Aldo Nova). Per finire una versione unplugged di “If I Fell” dei Beatles, probabilmente un divertimento in sala di registrazione, con il contributo ai cori di Kasim Sulton degli Utopia. “Ghost Stories” non è album indispensabile, ma certamente godibile per i completisti della grande formazione.

DEMON: “Invincible”

Demon non hanno certo rappresentato un’entità elusiva per i cultori della prima ora New Wave Of British Heavy Metal.
Nell’ormai lontano 1980 esordivano con il primo singolo su Carrere, “Liar”, seguito nell’81 dal debut-album “Night Of The Demon”, sempre per l’etichetta di Saxon e Rage.
Il quintetto fondato da Dave Hill (voce) e Mal Spooner (chitarra) – entrambi compositori del repertorio – si presentava con un’illustrazione di copertina all’insegna dell’arte macabra e con il testo altrettanto tenebroso della title-track, allineandosi idealmente con le contemporanee matrici proto-doom di Angel Witch, Witchfinder General, Witchfynde. In realtà, fin dal primo LP e dal secondo 45 giri (ivi incluso), “Ride The Wind”, palesavano una vena più versatile e non strettamente heavy, dotata di un proprio afflato melodico. Poi il Demone di Stoke-on-Trent prendeva le distanze dal ruolo assegnatogli di gruppo dedito all’occulto, e con il secondo “The Unexpected Guest”, invocava l’eredità dei Black Sabbath indirizzati da Ronnie J. Dio verso uno stile più epico. La versione di “Don’t Break The Circle”, realizzata dai celebri Blind Guardian, riaccenderà la luce sui sortilegi dei Demon, che con il terzo album “The Plague” proponevano addirittura un concept ispirato alle tragiche prospettive futuristiche del “Grande Fratello” di George Orwell, poste in musica con ambiziosi spunti progressive.
Nonostante la prematura scomparsa di Spooner, Demon proseguivano con alterne vicende fino allo scioglimento del 1992. Come tanti veterani metal, anche l’immarcescibile Dave Hill ha rilanciato la sua creatura nel Terzo Millennio, pubblicando quattro album fra il 2001 ed il 2016.
Nel maggio ’24 i Demon hanno celebrato il 45° anniversario della loro fondazione con il nuovo “Invincible” (Frontiers). Non si tratta di un’improbabile sfida agli ultimi Judas Priest, ma di un’opera ben meritevole di attenzione.

Si riallaccia alle origini con un’intro di tastiere seventies che evoca addirittura i Black Widow di “In Ancient Days”, seguita dalla dirompente “In My Blood”, che nei cori e nel riff cesellato, avvicina il modello delle attuali stelle nere Ghost. Naturalmente Hill non altera le caratteristiche della sua vocalità, simile ad un Ronnie Dio dalla timbrica più grave, e lo conferma nell’efficace “Face The Master”, che oltre ad un’overture da film horror, evidenzia un originale, potente riff dagli accenti funky e un refrain impetuoso ma elegante, memore dei trascorsi NWOBHM. “Hole In The Sky” (no Sabbath relation) è un altro pezzo-forte: si dispiega su arpeggio e sonorità sinfoniche che si risolvono in atmosfere doomy, sapientemente illustrate dalla voce teatral-spettrale del leader. Concludo segnalando “Break The Spell”: suona come un impeccabile tributo al pomp-rock dei disciolti Magnum.
“Invincible” rende onore al passato dei Demon, niente di meno.

REMEDY: “Pleasure Beats The Pain”

A suo tempo vi abbiamo presentato negli Short Talk “Something That Your Eyes Won’t See”, il debut-album dei Remedy, un quintetto di Stoccolma guidato dal chitarrista Roland “Rolli” Forsman, già fra i protagonisti dei musical “We Will Rock You” e “Rock Of Ages”. Notoriamente in Svezia è più che mai d’attualità un genere in sottile equilibrio fra l’hard rock, AOR e metal melodico ispirato agli anni ’80 americani, condensati nella tipologia musicale battezzata Scandi rock.
Approdati ad un’etichetta specializzata in tema di rock melodico, Escape Music, a fine maggio i Remedy tornano sul mercato con il secondo album “Pleasure Beats The Pain”, ancora con la supervisione di studio di Erik Martensson degli Eclipse. Ad incoraggiarne ed anticipare l’ascolto, il titolo dal tocco noir di “Moon Has The Night”, ben evidente nel videoclip che lo rappresenta: si tratta di hard melodico con cori dal tono drammatico, nulla di nuovo (in questo caso) sotto la luna, ma l’esito è convincente. Un altro video-singolo inaugura l’album, “Crying Heart”, che riecheggia i prime-movers svedesi Treat con un accentuata enfasi sinfonica nell’arrangiamento di tastiere e nei cori austeri.

La formula non è certo un mistero insondabile: armonie vocali ad ampio respiro (“Hearts On Fire”), ben amministrate dal cantante e secondo chitarrista Robert Van der Zwan, riffs d’impatto (che evochino i Dokken in “Caught By Death” oppure i Ratt in “Poison”) ma con l’addizione di tastiere ben presenti, ad esempio in “Girl’s Got Trouble”, con l’organo vintage in stile Uriah Heep. Non sorprende troppo che un gruppo svedese renda a suo modo omaggio alle icone pop nazionali Abba in “Angelina” – limitatamente al refrain – mentre il quadro si completa con “Something They Call Love”, una ballata un po’ edulcorata, dal vistoso arrangiamento orchestrale ed un’interpretazione alla Bon Jovi di Van der Zwan.
L’assortimento espressivo nell’ambito del genere musicale perseguito è apprezzabile come la qualità e la coesione degli strumentisti, resta da affinare una personalità più identificata nel linguaggio compositivo.

BILLY IDOL: “Rebel Yell” 40th Anniversary Edition

Gli anni ’80 non sono stati terra di conquista riservata in esclusiva alle legioni hard’n’heavy. Infatti il fronte dilagante dell’After Punk estendeva i suoi tentacoli in molte direzioni, dalle tendenze votate alla sperimentazione alle proposte di maggior tasso d’inquinamento commerciale.
Billy Idol era emerso dall’insurrezione punk della prima ora, suonando con i Chelsea e poi imponendosi nei Generation X come carismatico frontman. Trasferitosi in America nel 1981 dopo lo scioglimento del gruppo, stringeva alleanza con il geniale chitarrista di Brooklyn, Steve Stevens, e con il produttore Keith Forsey, a sua volta di New York, affermatosi al fianco di Giorgio Moroder. I tre artisti salivano sul treno in corsa del lancio di MTV, ed il primo album omonimo di Billy era un istantaneo, macroscopico successo. Il cantante non tradiva affatto il suo cognome (d’arte) diventando davvero un Idolo, specialmente per il pubblico femminile. Balzava agli occhi il suo fascino perverso che aggiornava la casistica del divo cresciuto sotto il segno di sesso, droga e rock’n’roll. Da un lato un atteggiamento duro ed arrogante, al confine fra punk e hard rock (non a caso figura nell’Enciclopedia Rock Hard & Heavy che curai per l’Arcana nel 1991) ma al contempo un aspetto glamour ben confezionato; Billy deve molto della sua celebrità al “fattore immagine”, tanto importante alla fiera delle vanità di MTV. Ma non è un concetto necessariamente negativo, MTV avrebbe spianato la strada al successo di gruppi eccellenti quanto trascurati come Angel, Starz, Rex, se fosse nata prima…Inoltre il cantante dalle origini londinesi riesce a concentrare nel suo precipuo stile espressivo/vocale l’innata sensualità da moderno Elvis Presley e l’aura drammatica di un’icona “bella e dannata” quale Jim Morrison.
Il secondo album di Idol, “Rebel Yell” è l’apogeo della sua carriera discografica, che non avrebbe mai più raggiunto quei picchi. Alcuni brani sono classici riconosciuti dell’epoca, dal rock’n’roll rinnovato ed incalzante della title-track, alla produzione che mescola sapientemente effetti elettronici new wave ai sofisticati orizzonti AOR di in “Daytime Drama”. Il suono è originale, fa breccia anche nelle mura difensive dei battaglioni heavy rock quando la solista di Stevens sale al proscenio, ad esempio nel potenziare la fatale melodia di “Man Without A Face”. La partenza accelerata e rombante del chitarrista in “Blue Highway” si commenta da sola; ricordiamo che lui è il co-autore di tutti i brani con Billy e quando se ne andrà, oltre a collaborare con svariati famosi, consegnerà alla storia il super-classico hair metal degli Atomic Playboys (alla voce l’ex Warrior, Parramore McCarty).

Invece il clima insidiosamente felpato della cruda “Flesh For Fantasy” lascia immaginare una versione dark dei Simple Minds.
La riedizione 2024 di “Rebel Yell” (Capitol) contempla un bonus CD inaugurato dall’inedita e accattivante “Best Way Out Of Here”, dallo stile obliquo fra funk e fusion; ma la punta di diamante è una versione di “Love Don’t Live Here Anymore” dei Rose Royce, gruppo soul della Motown. Idol sfoggia una rimarchevole, abrasiva interpretazione R&B, ma deciderà di ometterla dall’album, appresa la notizia che Madonna l’avrebbe a sua volta coverizzata in “Like A Virgin”. Le demo più sporche ed aggressive di “Daytime”, “Flash” e di “Crank Call”, con un riff che combina T. Rex e Cult, valgono decisamente l’ascolto. Unica eccezione, il remix da deejay di “Eyes”, superfluo per non dire di peggio.
Ma “Rebel Yell”, piaccia o meno, è un momento topico del rock anni ’80.

16 Commenti

  • francesco ha detto:

    Salve Beppe,
    ci ho messo un po’ a scriverti perchè mi sono preso del tempo per ascoltare quanto evevi presentato in questo scritto.
    Ti ringrazio sempre perchè leggendoti si ha sempre una chiave di lettura interessante per ascoltare e valutare gli ascolti e questo non è niente male. Devo dire che personalmente mi aiuta molto!
    Dopo ripetuti ascolti questa volta ti ho trovato un po’ “bonario” (in senso amichevole e senza nessuna critica, ma solo uno scambio di idee) con certi nomi che hanno fatto parte della nostra storie e compagni di vita.
    Se i Nestor mi sono piaciuti veramente molto, come era accaduto per la loro precedente opera, lo stesso vale per Billy Idol che pur non avendo prodotto in tale disco novità ha però una carica emotiva veramente eccezionale.
    Personalmente mi fa lo stesso effetto di quando ascolto Jim Morrison con i Doors ( il carisma per me è lo stesso, forse la proposta musicale del Re Lucertola superiore!). Purtroppo mi deludono notevolmente i miei amati BOC che producono un disco inascoltabile e impresentabile.
    Sono scarti, erano stati scartati per motivi ben chiari ( sono brutti) perchè riesumarli ?
    Prego lasciare il mito intatto….
    Infine mi sono soffermato su Bon Jovi. Disco suonato e cantato bene, di mestiere, ma che suscita…calma piatta. Appena si inizia a ascoltare un brano si sa già cosa succede.
    Mamma mia!
    D’altronde in USA dopo una sola settimana in classifica è sprofondato fuori dalle top list 200.
    In coclusione, scusami ho sproloquiato, grazie per gli scritti e per lo scambio di idee.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Francesco, non c’è preclusione di critica, assolutamente: forse più che bonario, ti sono apparso benevolo. Sinceramente, capisco che le opinioni siano differenti, ma da parte mia mi sento più “realistico”. Parliamo dei dischi di BOC e Bon Jovi. Nel primo caso, i BOC sono mostri sacri della nostra musica. Non mi piace definire “scarti” i pezzi riesumati (anche se possono esser ritenuti tali); mi sembra comunque ci siano spunti interessanti (ne ho già parlato). Aggiungo che ho ascoltato innumerevoli rough mix/inediti o presunti tali nelle riedizioni di dischi famosi, che mi sono sembrati ben più superflui. E gli stessi BOC qualche episodio in tono minore l’hanno pure già realizzato, come tanti altri mostri sacri. Per Bon Jovi dico che è innegabile la presenza di brani “canonici”, ma anche nel suo nuovo disco ci sono spunti degni del passato, anche se non più accolti dai favori di massa. Ho grande rispetto per l’uomo, munifico e attento ai problemi della gente comune (ma questo è un altro discorso lo so). Mi fa piacere che ti sia piaciuto Billy Idol! Grazie

  • Paolo Mon ha detto:

    Mi associo ai complimenti per l’idea della “Riviews” e alle richieste che diventi una rubrica se non fissa, molto presente. Leggere recensioni di dischi attuali da parte di chi ha contribuito (inventato?) a creare un certo genere di giornalismo è sempre un piacere. Che poi venga data l’opportunità di interagire con il predetto è un valore aggiunto. Ad esempio, io dei Blue Oyster Cult posso dire di avere quasi tutto a casa, me ne mancheranno 4-5 di album in studio (perché mai trovati…perché dicono brutti…perché troppo costosi), ma quest’ultimo proprio non ce la faccio. L’ho ascoltato più volte in rete e francamente mi sembra di una inutilità abissale. Ed è un peccato perché l’ultimo, The Symbol Remains, l’ho trovato proprio bello, con una Tainted Blood, degna del loro più fulgido passato (e dire che l’ha composta l’ultimo arrivato). Per contro i Nestor li ho trovati strepitosi. Con Bon Jovi non sono più andato dopo i primi 5 oltre a qualche canzone qua e in là, mentre dei Demon dopo i primi tre ho smesso, ma se mi sono perso qualcosa di importante accetto consigli. Che bella scoperta sto blog…

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Paolo: de gustibus non est disputandum, se ricordo bene vetusti studi. Ti faccio un esempio: su una rivista inglese molto importante, ho letto una recensione estremamente elogiativa sui Remedy, qui accolti con toni più moderati. Dunque, padronissimo tu di emettere i tuoi giudizi. Io ti ringrazio dei “complimenti all’idea”, che unitamente all’approvazione di altri lettori, mi inducono a riflettere!

  • Giuseppe ha detto:

    Che bella idea questa delle Riviews, urge farne una rubrica fissa del blog!
    Nello specifico, approfitterò dei servizi di streaming per ascoltare i dischi in questione, in primis il nuovo Demon … ma non posso esimermi dall’elargire i miei “due cents” sull’ultima (in tutti i sensi, pare) fatica dei mitici BOC, band da me semplicemente adorata e di cui posseggo realmente tutto, inclusi il vetusto (ma magnifico) Bootleg EP ed una miriade di registrazioni non ufficiali che (in uno con i ricordi di diverse occasioni in cui ho avuto il privilegio di vederli dal vivo) semplicemente giustificano il loro status di grande live band … per farla breve, a prescindere dalla qualità eterogenea delle registrazioni di Ghost Stories, ho notato che la maggior parte delle critiche rivolte al disco ha mancato di cogliere un semplice punto, cioè la possibilità di godere per un’ultima volta della magia della formazione storica che anche in questi “scarti” dimostra di avere svariate marce in più di tanti celebrati ensembles, di ieri come di oggi!
    E una marcia in più ce l’ha anche sicuramente Steve Stevens … quanto criminalmente sottovalutato (e purtroppo senza seguito) il progetto capolavoro Atomic Playboys, per fortuna non da te, Beppe!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Giuseppe, fa piacere che tu abbia apprezzato l’idea, ed altrettanto gradita è la passione dei lettori che non dimenticano la grande tradizione dei Blue Oyster Cult. A tal riguardo in agosto uscirà il doppio “50th Anniversary Live – Second Night”, ossia il secondo della trilogia di concerti (2022) dedicata ai primi tre leggendari album. In quest’occasione viene suonato interamente “Tyranny And Mutation”. Per finire, ricordi la mia recensione di Steve Stevens Atomic Playboys? Complimenti per la memoria e tante grazie!

  • Fabio Zavatarelli ha detto:

    Ciao Beppe,
    brevemente le mie opinioni.

    1. – Bene fare, ove possibile, ogni paio di mesi o ogni trimestre una uscita di recensioni “a sacco”. Direi, a mio modestissimo avviso, con una porporzione una ogni 4 tuoi interventi

    2. – Blue Oyster Cult ….. che devo dire altro. Band da me adorata da sempre, anche quando ha fatto prodotti un po’ deboli, come – per me – il penultimo. Questo ultimo disco avevo visto che era uscito ma non sapevo che fosse una collection di inediti ed outakes: è evidente il sapore delll’epitaffio, anche se i pezzi mi sono piaciuti e si rivela ancora una volta l’importanza ed influenza del B.O.C. su un “fenomeno” musicale di questi anni come i Ghost. Poi …. come tu ben mi puoi capire …… sentire (finalmente!!!) la splendida versione “in studio” di Kick Out The Jams degli MC5, per me che, come ben sai, sono un devoto dell’Hard Rock della Detroit di fine ’60s/inizio ’70s …. è solo rivitalizzazione e ringiovanimento ….. pezzi così e in versioni così ….. troppi idoli dell’ultim’ora se le sognano ….

    3. – Bon Jovi …. non l’ho mai amato … non ho mai amato l’AOR, però non posso essergli grato per un certo contributo culturale che seppe dare decenni fa pur in pezzi da FM come BAD MEDICINE, con citazioni enormi dei T-Rex di Marc Bolan … e poi quando piano piano si è allontanato dall’Hard rock AOR, anche perchè forse iniziava a sentire l’indebolimento della voce …. ha fatto comunque pezzi piacevoli … certo che io non comprerei mai, ma opggettivamente piacevoli e con un lavoro ocmpositivo e produttivo di alta professionalità.

    4. – Aspetto la tua recensione sull’ultimo Deep Purple …. 😉

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fabio, premesso che puoi anche dilungarti maggiormente se ti va, comunque non sei troppo ermetico. Terrò conto dell’interesse per le recensioni raggruppate, basta (da parte mia) non tardare troppo il “blocco”. B.O.C. e MC 5 lo sai bene, sono miei idoli e fa piacere che qualcuno si ricordi anche dei pionieri di Detroit. Fra l’altro in ottobre uscirà un album postumo: purtroppo oltre a Wayne se ne è andato anche Dennis “Machine Gun” Thompson, a suo tempo scatenato batterista. Nessuno dei 5 della Città dei Motori è più in vita…Saprai altrettanto bene che io sono un fan dell’AOR (specialmente anni ’80) ma non pretendo che tutti i lettori lo siano! Inoltre noto il tuo giudizio obiettivo sull’album di Bon Jovi, e questo è un segnale ed atteggiamento lodevole (sebbene non sia il tuo genere). Presumo che mi occuperò del nuovo Deep Purple, accordandomi con Giancarlo. Grazie anche a te della partecipazione.

  • Lorenzo ha detto:

    Buongiorno Beppe.
    Mi permetto anche io di fare alcune considerazioni telegrafiche rispetto a quello che ho sentito dei dischi trattati
    BON JOVI: Keep the Faith è a mio parere l’ultimo album importante, dopo effettivamente ne ha “combinate” troppe (musicalmente parlando), ma era comunque già entrato nella leggenda. Questo ultimo album ammicca effettivamente alle sonorità che hanno reso celebre Jon, ma sempre in forma depotenziata; e non potrebbe essere altrimenti tutto sommato. Un ritorno di Sambora sarebbe auspicabile.
    NESTOR/REMEDY: per me, meglio i primi. Tra l’altro i Nestor sono una band dalla storia decisamente singolare, nati artisticamente addirittura nel 1989, come hai rilevato. La musica è una sorta di time capsule gradevole e a tratti eccellente, solo il nome della band stessa non è proporio il massimo…
    BOC: disco direi per ultra fans completisti, ma loro sono comunque la punta di diamante assoluta dell’hard rock americano e forse solo per questo meriterebbero l’acquisto fisico.
    BILLY IDOL: Rebel Yell è una icona degli anni 80, obbligatorio averlo in collezione, non serve da parte mia aggiungere altro. Beppe, hai citato il grande e solitario disco degli Atomic Playboys, con Steve Stevens che è ad oggi uno dei più grandi e sottovalutati guitar wizard dagli Eighties in poi. Per favore mi dici la tua anche sull’altrettanto solitario LP dei Jerusalem Slim, in cui presenziano lo stesso Stevens con Michael Monroe?
    DEMON: del gruppo di dischi analizzato, forse quello che mi ha impressionato di più. I Demon sono una band di talento, con in cascina parecchi grandi album, sorprendente ritrovarli a questi livelli.

    Grazie per questi contributi

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, inizio dalla tua richiesta sui Jerusalem Slim, che erano un supergruppo comprendente anche un altro ex Hanoi Rock (Sam Yaffa) ed un ex Shark Island (Greg Ellis); ho il CD giapponese in mini-box dell’unico album, che combina sleaze rock’n’roll e glam metal. Monroe l’ha rinnegato lamentando produzione ed eroismi di chitarra di Stevens troppo “heavy metal”, probabilmente disturbato anche dal fatto che Stevens di fatto li silurò raggiungendo Vince Neil. Monroe dimostrerà di trovarsi più a suo agio con R&R dall’attitudine punk (si evince anche da materiale recente). Di sicuro gli Hanoi Rocks restano il meglio della sua carriera e Jerusalem Slim, dal punto di vista compositivo non è un classico, è un buon esempio dello stile citato. La chitarra di Stevens è comunque pirotecnica; da segnalare anche la versione di “Teenage Nervous Breakdown” dei Little Feat (gruppo alla Trumpets!) ma più vicina alla cover dei Nazareth. Ti accontenti? Sul resto delle tue puntuali osservazioni non ho nulla da eccepire; poi la preferenza accordata ai Demon è giustamente soggettiva, come alcuni dettagli che chiariscono il tuo pensiero. Fa piacere che consideri il significato di “Rebel Yell” nell’ambito dello stile Eighties. Grazie della partecipazione.

  • Fulvio ha detto:

    Ciao Beppe,
    Bello leggere di nuovo qualcosa in formato recensione (o Riviews se preferisci…): si apre il libro dei bei ricordi e la nostalgia si prende la scena.
    Sintetizzo le mie impressioni su quello che ho avuto modo di sentire.
    Scandi AOR: due buone proposte tra le quali la mia preferenza va ai Nestor ai quali riconosco (ovviamente a mio gusto) un songwriting più accattivante. Dei Remedy ho preferito il loro esordio.
    B.O.C.: personalmente li adoro, ho tutta la loro discografia e li ho visti dal vivo nel 1986…nel pieno loro rispetto mi permetto però di dire che trovo questo “Ghost Stories” piuttosto trascurabile.
    N.W.O.B.H.M. e affini: non mi è dispiaciuto il nuovo lavoro dei Demon anche se l’unica cosa che richiama veramente gli antichi fasti è la voce carismatica di Dave Hill.
    Restando nel perimetro delle vecchie glorie british mi sono piaciuti di più i recenti album di Praying Mantis e Lionheart.
    Bon Jovi mi ha deluso troppo negli ultimi anni, però la tua recensione mi ha incuriosito e lo sentirò.
    Billy Idol non l’ho mai seguito e non sono competente in materia.
    Grazie per lo spazio che ci concedi sempre e per le tue garbate e competenti risposte.
    Un saluto

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fulvio, in merito alle tue osservazioni: sui due gruppi svedesi penso che leggendo, si intuisca chi a mio parere ha fatto meglio. BOC: giusto “adorarli” per la loro storia ed è vero, “Ghost Stories” è un’antologia di rimanenze di studio, come i bonus di tante edizioni deluxe: le si possono definire trascurabili, ma visto il tenore del gruppo, le ho ascoltate ben volentieri. Demon certamente differenti dal passato, ma vitali; Praying Mantis l’ho ascoltato, trovo un pò contrastante il cantato con lo stile melodico perseguito attualmente dal gruppo. Di Bon Jovi ho scritto, capisco i delusi di certe sue produzioni; ricordo che a mia volta non ero stato troppo tenero recensendo “These Days” su una rivista metal da tempo estinta. Billy Idol: valeva la pena rievocare “Rebel Yell” e sottolineare l’apporto di Steve Stevens. Se hai ascoltato, com’è probabile “Atomic Playboys”, sai di cosa sto parlando. Ti ringrazio del parere sempre esplicito.

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe. Ho ascoltato il nuovo Bon Jovi, ed effettivamente, a meno che uno non si aspetti una nuova Runaway, scorre molto bene. Molti refrain funzionano bene, un buon disco pop-rock insomma. Non conosco Nestor (approfondirò) e solo superficialmente Remedy. Su Demon e BOC, pur senza gridare al miracolo, li trovo piuttosto ispirati. Concordo, riguardo ai BOC, sul pressapochismo generale con cui vengono trattati; e, riguardo ai Demon, su alcuni punti di contatto con la teatralità melodica dei Ghost.
    Un caro saluto.
    Alessandro

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro. Lo ripeto: BOC fra gli immortali del rock americano, ed ovviamente la loro grandezza non si misura da una raccolta di brani mai apparsi nella discografia ufficiale come “Ghost Stories”. Per quanto riguarda Bon Jovi, c’è un certo accanimento nei suoi confronti da parte di alcuni, a mio avviso eccessivo. Fra l’altro l’uomo è decisamente meritevole di rispetto. Altri, che magari realizzano dischi mediocri o ripetitivi, vengono invece giustificati. Grazie della costanza nel seguirci.

  • Roberto Torasso ha detto:

    Ciao Beppe, concordo il fatto che purtroppo gli impegni quotidiani lasciano ben poco spazio al piacere di coltivare le passioni quali musica e quanto ne concerne come ad esempio condividerne opinioni su un blog senza menzionare la possibilità di ascoltarla con regolarità… quindi che si tratta di recensioni o approfondimenti di cose passate poco cambia, è il discorso che ogni volta leggere uno scritto tuo e e poter interagire con un commento è una soddisfazione immensa perché oltre a rimembrare tempi lontani si ha l’ occasione di poter dare un’ opinione condivisa o no di quello che esprimevi ai tempi , cosa che non avveniva spesso o mai in passato … detto questo per me il melodic rock scandivano ha sempre lo stesso difetto ovvero professionalità indiscutibile ma zero personalità .. neanche da accostare ai modelli noti come lo stesso Bon Jovi dei tempi migliori che invece paga lo scotto di doversi reinventare allontanandosi dalla formula che ne decretò le fortune ..cosa successa analogamente ai Metallica… maturità? Può darsi ma pretendere che rimanga il pin up rocker di Living…o You give love. .. è impensabile e qualsiasi direzione intrapresa è lecita aldilà della bontà o meno della proposta…Demon e B.o.c. nomi mai troppo considerati dalle nostre parti tranne i secondi che spero almeno godano dell’ importanza storica che hanno avuto visto che vengono citati solo come la band di Don’t fear …a fronte di 23 album pubblicati…se sono pochi ..

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Roberto, le mie opinioni in merito le hai già lette. Sugli scandinavi sei drastico ma è pur vero che generalmente (lo sai, ritengo corretto fare delle eccezioni) mancano di personalità. I Demon erano e restano una cult-band; anche nei tempi d’oro della NWOBHM non erano popolari (superstar a parte), come Diamond Head, Angel Witch o Samson. Mi sembra giusto sottolineare la scarsa considerazione dei BOC in Italia. A mio avviso imperdonabile; a dimostrazione di quanto “noi veterani” teniamo al gruppo di New York, anche Giancarlo proprio all’apertura del Blog aveva dedicato loro un lungo articolo. Grazie della fiducia!

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