Keys (on stage)
Come previsto, in piena e torrida estate diamo un seguito alla prima serie di recensioni presentata sul nostro Blog a metà giugno. L’ho già scritto, nessuna pretesa di tornare alla quantità di dischi commentati ai (nostri) tempi sulle riviste specializzate, solo la voglia di confrontarsi con l’attualità variando un po’ le proposte rispetto all’articolo esaustivo dedicato ad un singolo gruppo o artista; in realtà non si tratta di recensioni propriamente “snelle”; essendo la scrittura libera da moduli prestabiliti, riemerge l’inclinazione dell’autore nel risultare ben poco sintetico!
Anche in questa seconda raccolta, oltre alle novità discografiche di artisti d’indubbio rilievo, si intende dar spazio ad una ristampa particolarmente significativa; come nel precedente caso di “Rebel Yell” di Billy Idol – un classico rock degli anni ’80 – ci occupiamo di un’opera a sorpresa non anticipata nei titoli, senza risalire ai tempi arcani della “Cripta”. Infatti gli album dei due decenni precedenti (non vado più indietro, nei Fifties ero appena nato!) hanno già il loro spazio dedicato.
Stavolta ci occupiamo di un autentico album-pilastro degli anni ’90, ovviamente a discrezione di chi scrive…Volete saperne di più? Se vi va, proseguite nella lettura.
DEEP PURPLE: “=1”
Il sole sembra non tramontare mai sull’impero dei Deep Purple, una delle più longeve ed idolatrate istituzioni della musica rock: il quintetto ha superato l’ennesima avversità, costretto a porre fine al duraturo sodalizio con il chitarrista americano Steve Morse – nei ranghi dal purpendicolare 1996 – desideroso di stare a fianco della moglie malata (deceduta lo scorso febbraio) ed atteso invano al rientro. Gli indomiti Deep Purple, smaniosi di tornare sulle scene, l’hanno così sostituito con Simon McBride, che si era segnalato nella rifondazione degli irlandesi Sweet Savage, formazione da culto per gli appassionati della NWOBHM, nonché rampa di lancio per uno dei chitarristi più affermati dell’era metallica, Vivian Campbell; McBride ne raccoglieva l’eredità, oltre ad impegnarsi in una carriera solista sotto l’egida del rock-blues.
Il 23° album di studio di Gillan e compagni, “=1” (Ear Music), è la prima collezione di nuovi brani dall’apprezzato “Whoosh!” del 2020 (ampiamente trattato anche sul nostro Blog); segue l’interlocutoria e tutt’altro che essenziale raccolta di cover, “Turning To Crime”.
In tempi di crisi del “supporto fisico”, l’invincibile armata dell’hard rock classico non fa nulla per accattivarsi le attenzioni di un nuovo pubblico; la copertina è infatti fra le più insignificanti di sempre (non è il caso di accostarla al White Album dei Beatles, icona novecentesca), ed è pur vero che i Deep Purple non ne hanno avuto più bisogno, dall’età psichedelica riprodotta benissimo su “The Book Of Taliesyn”, e poi con la definitiva consacrazione, quando le raffigurazioni di “In Rock” e “Fireball” catturavano in pieno la potenza del gruppo in perentoria ascesa.
Il titolo del nuovo disco sembra invece immortalare la coesione del gruppo, ben oltre i decenni trascorsi e le mode, mentre l’ispirazione deriva dalla critica di Ian Gillan alle complicanze e agli ostacoli burocratici della vita contemporanea, che almeno noi boomer non possiamo che condividere.
Il primo singolo “Portable Door” è stato la miglior presentazione possibile del come-back discografico, trascinante come nella grande tradizione della storica formazione Mk II, con McBride e Don Airey perfettamente a loro agio nelle schermaglie solistiche di chitarra ed organo che hanno incantato le platee dell’intero globo terrestre, certo con minor forza d’urto ma altrettanta eleganza. Se aggiungiamo che Gillan vi appare in forma melodica ottimale e che la produzione del veterano Bob Ezrin è impeccabile, il risultato è quasi irripetibile. Anche il successivo “Pictures Of You”, forgiato su un riff memorabile, ripropone i nuovi Purple sulla falsariga quantomeno del quintetto Mk II della ricostituzione in “Perfect Strangers” (non scomoderei “In Rock” e “Machine Head”!). Non meno corroborante il brano d’apertura “Show Me”, con il nuovo venuto Simon già efficace nell’imbastire un fraseggio di chitarra meno tipico di altri, e subito abile nello “scontro di titani” con Airey.
“A Bit On The Side” è a sua volta travolgente, con l’energia di Glover/Paice che ripropongono l’autorevolezza di una sezione ritmica fra le più quotate di sempre. Se aggiungiamo un Don Airey davvero “mago delle tastiere”, degno del suo indimenticabile predecessore, converrete che il risultato è al 100% Deep Purple. Certo, non tutto è oro a 24 carati (porpora); nonostante ampiamente celebrato, Gillan denuncia qualche forzatura nei registri vocali di “Sharp Shooter”, né appare particolarmente a suo agio nei brani lenti: “If I Were You”, con qualche tonalità un po’ stiracchiata e nell’altra ballata piuttosto trascurabile, “I’ll Catch You”.
In conclusione, “=1” è senz’altro galvanizzante nel riprodurre le ormai distanti glorie della più osannata formazione Purple, ma le lodi vanno dosate senza eccessi di zelo.
KEYS: “The Grand Seduction”
Doveroso premettere che Mark Mangold è un autentico keyboards hero, forse il più amato superstite di quella generazione di fenomenali tastieristi dell’hard rock americano che contemplava il grande Gregg Giuffria, ormai ritirato dalle scene, ed il disperso Mike Prince dei Legs Diamond.
Mangold vanta una carriera iniziata negli anni ’70 con gli American Tears, gloriosamente proseguita nei Touch (omaggiati sul Blog in occasione del come-back 2021 di “Tomorrow Never Comes”), Drive She Said e The Sign, e costellata da contributi “stellati” alle celebrità Cher e Michael Bolton negli anni (d’oro) ’80. Degno di nota anche un brano da lui composto con Benny Mardones, “For A Little Ride”, in apertura dell’unico album (1991) dei The Law di Paul Rodgers.
Dall’incontro di Jake E Lundberg (cantante dei “supergruppi” metal svedesi Amaranthe e Cyrha) nello studio di registrazione di Mangold a New York, sono state gettate le basi dei Keys e dell’omonimo album d’esordio (2022). Se aggiungiamo che si tratta di un progetto multi-tastiere, e che nell’opera prima ha suonato Charlie Calv, meritevole erede di Giuffria nei rifondati Angel, si poteva sognare una sorta di Paradiso pomp-rock. Anche alla luce dell’attualissimo secondo album, “The Grand Seduction” (Escape), non aspettatevi però un sovraccarico di classicità. Mark non eccede nostalgicamente verso il suo passato, desidera sperimentare nuove soluzioni ed in particolare emula con le tastiere il suono delle chitarre “moderne”: non propriamente una caratteristica esaltante per chi scrive (poco attratto dall’impatto tagliente/monocromatico abusato negli anni 2000) ma nel caso dei Keys, lodato anche da un musicista di spessore come Randy Jackson (Zebra, China Rain).
Il singolo che anticipa il secondo album, “Vortex” conferma le finalità espressive del gruppo; introdotto dal drumming secco e martellante di Alex Lundberg (Kamelot, Cyrha etc.) il brano si avvicina fin troppo a tipiche strutture del metal sinfonico svedese, ma si riscatta con l’avvincente refrain di Jake E, oltre ad esibire un assolo di Mark, assai riconoscibile (Keys si avvalgano di un altro paio di tastieristi) nella pura tradizione “classica” del sintetizzatore. Il brano che intitola l’album è una monumentale prova di resistenza di nove minuti: Mangold cattura i suoi vecchi proseliti rispolverando l’organo Hammond, con qualche sprazzo alla Keith Emerson, poi sbalordisce riproducendo chitarre metal con le tastiere, sulle quali si erge il talento vocale di Jake.
“All I Need” ne conferma le scelte con maggior sintesi, insistendo sulla commistione di musicalità moderne e vintage: queste ultime si ravvisano brillantemente nelle aperture vocali alla Styx/Kansas e nelle evoluzioni delle tastiere, mentre trovo discutibile la registrazione della base ritmica, sferzante ma asciutta.
Il prologo di tastiere di “Shining Sails” crea davvero l’atmosfera in chiave pomp-rock e ci lasciamo piacevolmente trasportare dall’intrigante chorus vocale. “Skin And Bones” è un’altra prova di valore, fra i virtuosismi estetizzanti dei tasti d’avorio e l’avvincente melodia valorizzata dal cantante svedese. La formula alchemica fra innovazione tecnologica e ripescaggi di “vecchia scuola”, esperimento comunque coraggioso, si conferma nel resto dell’album, ad esempio in “Crazy Town”, paragonabile a dei Deep Purple desiderosi di osare oltre la loro comfort zone. “The Grand Seduction”: avventuroso, parzialmente controverso, certamente non scontato: dategli una chance.
MR: BIG: “Ten”
Foto: Joel Barrios
La definizione di supergruppo è stata spesso abusata; non è da tutti rientrare nella stessa categoria di fuoriclasse come i Cream, Emerson Lake & Palmer, Crosby Stills Nash & Young.
Esaurito l’effetto “condanna dei dinosauri” da parte dei rivoluzionari punk, verso la fine degli anni ’80 la tendenza è tornata d’attualità, ad esempio nell’hard rock americano, con i Bad English ed i Mr. Big, per riesplodere in seguito (persino nel grunge, con i Temple Of The Dog) soprattutto nella miriade di “progetti collaterali” che riunivano ben noti musicisti. A differenza dei Bad English, già famosi in partenza, gli stessi Mr. Big hanno meritato il titolo soprattutto sul campo; se incontestabili erano le doti individuali e l’esperienza di Paul Gilbert, Eric Martin e Pat Torpey, si trattava di artisti strettamente per conoscitori, mentre Billy Sheehan aveva già raccolto i favori del grosso pubblico come straordinario bassista della all star band di David Lee Roth.
La consacrazione dei Mr. Big a supergruppo è comunque avvenuta rapidamente, con il secondo, decisivo album “Lean Into It” (1991, Atlantic), prodotto da Kevin Elson di fama Journey, Europe etc. Ne venivano tratti tre singoli, il retrospettivo ed incompreso “Green-Tinted Sixties Mind”, “Just Take My Heart” e soprattutto la serenata acustica “To Be With You”, toccante al punto di salire al primo posto in classifica non solo in America, ma in una sfilza di nazioni a livello mondiale. Mai più riuscirono ad avvicinare tale successo, e la loro storia, piuttosto travagliata, sembrava conclusa nel 2001. Invece, dieci anni dopo, la formazione originale (già ricostituita in tour) si ripresentava con l’album “What If…” e solo la scomparsa di Torpey nel 2018 ne ha drammaticamente spezzato la coesione.
Il nuovo album di studio “Ten” (Frontiers) è il primo realizzato senza di lui, ed in segno di stima, viene chiamato a sostituirlo un altro batterista eletto, Nick D’Virgilio, rinomato in ambito prog non solo per la fugace apparizione nei Genesis, ma per militanza negli Spock’s Beard e Big Big Train.
“Good Luck Trying” riparte dagli albori dei Mr. Big; infatti il loro nome traeva origine da uno dei più classici brani dei Free, ed Eric Martin, reduce negli anni ’80 da una carriera solista all’insegna del blues e dell’AOR, si ripropone nelle vesti di credibile erede di Paul Rodgers, accompagnato dalla tecnica virtuosistica dei compagni.
Forse impreviste le sue interpretazioni di “I Am You” e “As Good As It Gets”, dove parrebbe di ascoltare Jon Bon Jovi affiancato dai musicisti dei Mr. Big. Mentre “Who We Are” riflette a sua volta l’impronta R&B di Martin e “What Were You Thinking” è un trascinante boogie-rock dagli echi sudisti, impreziosito dall’ennesimo assolo di Gilbert, un’altra sorpresa giunge da “Sunday Morning Kindsa Girl”: suona come il britpop anni ’90 ispirato ai Kinks, con una base strumentale di hard melodico del decennio precedente. Evidenze hard rock à la Def Leppard emergono in “Up On You”, mentre “The Frame” vorrebbe forse emulare il gran finale di “Lean Into It” (ossia “To Be With You”); si tratta infatti di una nuova ballata intimista, ma inevitabilmente non farà epoca come la precedente. L’edizione europea di “Ten” si conclude però con la bonus “Day On The Road”, offrendo saggi pirotecnici di chitarra e basso. Se “The BIG Finish” sarà davvero l’ultimo tour del gruppo americano, “Ten” si configura come testamento discografico di apprezzabile versatilità.
JIM PETERIK & WORLD STAGE: “Roots & Shoots Vol.2”
Fra i grandi “sopravvissuti” del rock melodico non si può ignorare il nome di Jim Peterik. L’apparizione sulle scene dell’artista di Chicago risale agli anni ’60, quando figurava nel gruppo Ides Of March. Nel 1976, oltre ad esordire da solista con l’album “Don’t Fight The Feeling”, avveniva l’incontro risolutore con il chitarrista Frankie Sullivan. In origine Jim e Frankie si proponevano come un duo di compositori, firmando il successo dei 38 Special “Rockin’ Into The Night”. Decidevano così di formare il proprio gruppo, Survivor, che esordiva con l’omonimo LP nel 1980.
Un paio d’anni dopo irrompono letteralmente nelle classifiche con il popolare tema del film con Sylvester Stallone, “Rocky III”, numero uno nella classifica di Billboard; il brano s’intitola “Eye Of The Tiger”: ritmo incalzante, chitarra tagliente, melodia da stratosfera del rock radiofonico. I Survivor replicano con “Burning Heart” nel follow-up “Rocky IV”; stavolta alla voce c’è l’indimenticabile Jimi Jamison (ex Target e Cobra) ormai da tempo nel mausoleo dei grandi caduti del rock. Con lui i Survivor realizzano il fondamentale quinto album, “Vital Signs” (include la gemma melodica “I Can’t Hold Back”) ma la loro parabola si esaurisce al tramonto degli anni ’80, la belle époque dell’AOR.
L’iter artistico di Peterik non finisce qui, ed il Terzo Millennio lo vede particolarmente attivo: allestisce la formazione “aperta” World Stage, allo scopo di riunire musicisti dal consistente passato e legati da solida amicizia. L’esordio è avvenuto nel 2000, con la collaborazione degli illustri Dennis DeYoung, Kevin Cronin, Johnny Van Zant e Tom Kiefer, ed ha proseguito il suo corso anche con il progetto parallelo “Tigress”, dedicato ad emergenti “donne in uniforme” rock. Dal 2003 è spalleggiato dal vocalist Toby Hitchcock nei Pride Of Lions. Inesauribile, rilancia anche i Survivor e la sua carriera “solo”, seppur episodicamente, avanzando pure con Ides Of March.
Giungendo all’attualità, World Stage si ripresentano in agosto con il Vol.2 di “Roots & Shoots” (Frontiers), che sta a significare un’alternanza di artisti già affermati ed in ascesa, che si avvicendano a fianco di Jim Peterik. All’inizio dell’anno, l’opera prima di “R&S” ospitava fra gli altri Kevin Cronin, Don Barnes (38 Special), Kelly Keagy dei Night Ranger e persino lo storico front-man dei Grand Funk, Mark Farner.
Stavolta il prolifico titolare è supportato da nomi meno eclatanti, ad eccezione di Mike Reno: il cantante dei Loverboy duetta con Peterik nella suggestiva “Your Own Hero”, che ridesta emozioni ormai distanti nel tempo. Il brano iniziale, “American Dreamer”, cantato da Dave Miskulis degli Hi Infidelity (ispirati ai principali nomi dell’AOR ’80) è un accattivante inno del genere musicale limitrofo fra rock per FM e pop. Lo stesso vocalist si esibisce positivamente con Peterik nella ballata “Stronger Than You Know”, che si riallaccia all’evergreen dei Survivor, “The Search Is Over”.
Un album di questa natura palesa inevitabilmente soluzioni mutevoli, adattandosi alla personalità dei protagonisti. I due contributi di Toby Hitchcock, voce dei Pride Of Lions, non mi entusiasmano; se le sue doti vocali sono inequivocabili, l’enfasi è fin troppo accentuata in “Forever Endeavor” e nella sciropposa ballata “All That’s Mine To Give”. Orizzonti molto orientati verso il pop si aprono nella romantica “Love Lies”, con Cathy Richardson dei Jefferson Starship, nella vena commerciale molto americana di “Until”, e con reminiscenze dei Fleetwood Mac più soft in “Hit Of Freedom”. A mio avviso, convince maggiormente l’hard melodico di “Been To The Mountain”, con Jason Scheff, ex Chicago.
Album naturalmente risolto con classe, ma da avvicinare con cautela se attratti da istinti più risolutamente rock!
N.B.: Il video di “Dangerous Combination” con i REO Speedwagon è tratto dal Vol.1 (non sono per ora disponibili altre outtakes del Vol.2, in uscita il 9 agosto)
TYPE O NEGATIVE: "Bloody Kisses: Suspended in Dusk” 30th Anniversary
Insistiamo nell’acclamare una ristampa, si tratta infatti di un album sensazionale, il terzo dei Type O Negative, “Bloody Kisses”, pubblicato in pieno agosto 1993. Che non si tratti di un’opinione strettamente personale, lo dimostra che fu la prima uscita discografica della prolifica Roadrunner a raggiungere il traguardo del “disco d’oro” negli U.S.A., superando poi il milione di copie vendute.
Il gruppo di Brooklyn nasceva dalle ceneri dei predatori Carnivore, a loro volta diretti dal disturbante carisma del vampiresco gigante Peter Steele, voce e bassista. L’album d’esordio dei TON, “Slow Deep And Hard”, emanava un olezzo di morboso auto-compiacimento, e dalla sua musica trasudava un’allarmante dose di violenza, in apparenza ben poco simulata: “Prelude To Agony” era in assoluto il pezzo più impressionante dell’epoca nel rapporto musica-testi (chi è interessato può scoprirne il tema…); inoltre certe allarmanti dichiarazioni di Peter Steele, non sembravano espedienti pubblicitari. Il successivo e falso live “The Origin Of The Feces” non era da meno in quanto a famigerati eccessi. Indagando nel corso di un’intervista sul tenebroso personaggio, Peter Steele si rivelerà qualche anno dopo più maturo, riflessivo, caustico: “Non è vero che la mia visione della vita sia totalmente pessimistica, ma è nei momenti di depressione che scrivo canzoni, traducendo in esse sensazioni tutt’altro che serene, a tratti selvagge e violente – mi disse – ma non sono più giovanissimo e le mie liriche sono cresciute con me, non sono più così dure e oltraggiose come in origine, forse perché sono meno arrabbiato di un tempo. Per quanto io possa accanirmi, sono conscio di non poter cambiare il mondo, e che combattere contro tutti è una guerra persa in partenza.”
“Bloody Kisses” è un’opera che potrebbe documentare l’ardita tesi secondo cui certe patologie psicologiche sfiorano la genialità… Nell’opera terza i TON propendono per una carica aggressiva iconoclasta e talvolta vistosa, ma più intimamente vissuta e sempre intrisa di fantasie malate. I procedimenti sono prevalentemente gli stessi, brani ‘tentacolari’ che si compongono di sub-songs diversificate, ma il progetto oggi chiama in causa elementi stilistici più eterogenei: in “Christian Woman”, Peter canta come un David Bowie immerso in un’ambientazione sado-maso, la sua voce sembra esalata dal più recondito groviglio viscerale, e gli fanno eco le immense sonorità dell’organo in stile seventies di Josh Silver. E quando il cantante, sotto il lento incalzare di una chitarra-mannaia, pronuncia il blasfemo refrain “Gesù Cristo mi assomiglia…” sarete piuttosto convinti della sua natura diabolica. “Black n. 1”, che supera gli undici minuti, è semplicemente il brano che Glenn Danzig avrebbe sognato di incidere; si può benissimo parlare di lirismo ‘noir’, la musica si sviluppa inseguendo melodie dark (affrescate persino dal clavicembalo) e Peter celebra una sorta di grottesco amore per la morte – o per una donna che la rappresenti… – sull’enfasi di un solenne chorus. Colpisce la versione di “Summer Breeze” (il maggior successo del duo texano Seals and Crofts), con voci e tastiere trasognate sullo sfondo, subordinate ad un densissimo riff che sottolinea l’espressività ieratica del leader.
“Set Me On Fire” è allacciata ad essa in una consecutio temporale da medley, e l’imperioso Hammond che sale al proscenio riecheggia l’era di Ken Hensley degli Uriah Heep, regalando altri momenti d’estasi. Un episodio fra i più veementi è il programmatico “We Hate Everyone” , con qualche gutturale accenno doom/death. Complessivamente, “Bloody Kisses” raggiunge una straordinaria statura artistica, è identificabile esclusivamente come Type O Negative, ed in qualità di perfetta combinazione fra gothic e doom metal – ardito trait d’union fra Black Sabbath e Dead Can Dance dalle atipiche convergenze di melodie anni ’60 e psichedeliche – non si può che riconoscerne l’eccezionalità.
Peter Steele è prematuramente deceduto nell’aprile 2010 a causa di una setticemia; il chitarrista Kenny Hickey ha finora resistito alle pressioni per rifondare la banda senza Steele, assolutamente insostituibile per leadership ed unicità della sua voce grave ed abissale.
La ristampa Rhino – doppio LP in vinile verde – contempla la stessa sequenza di brani e la copertina con differente artwork (sempre di amore saffico si tratta…) della seconda versione in CD digipak, anch’essa del ’93. Nella medesima era presente il mortifero ed imperdibile inedito “Suspended in Dusk”, caratterizzato da una gelida liturgia gregoriana. Già disponibile anche il doppio CD, che invece replica la copertina e contiene tutte le tracce dell’originale, alcune versioni alternate, naturalmente “Suspended…” oltre a due differenti e plumbee cover di “Black Sabbath”. Tutti i remaster sono del 2009.
A mio giudizio, “Bloody Kisses” persiste fra gli album più originali e rilevanti degli anni ’90.
Salve Beppe, finalmente ho avuto il tempo necessario per ascoltarmi ripetutamente i dischi da te segnalati e vorrei soffermarmi su due di loro che mi hanno colpito per opposti motivi.
I Keys li ho trovati veramente coinvolgenti, non mi sono stupito perché stimavo Mark Mangold e avevo seguito tutta la sua carriera, ma non credevo che a questa età fosse ancora in grado di tirare fuori dal cilindro un disco così. Veramente bello con quella commistione di suono anni 80 AOR, accenni pomp e magniloquenza tipica di certo prog emerso iano il tutto rivestito da suoni moderni. Mi ha affascinato e cercherò l’ opera prima che mi era sfuggita!
Viceversa mi hanno deluso i Deep Purple autori di un album formale,ineccepibile sul piano del mestiere , ma che io trovo privo di fascino, di emozione! Scorre come la pubblicità durante un evento sportivo, trascurabile. Me ne dispiace perché li adoro, ma sono diventati solo forma e poco contenuto. Peccato!
Un saluto e complimenti per quanto ci regali.
Ciao Francesco, mi fa piacere che apprezzi Mangold e i Keys. C’è da aggiungere che il tastierista aveva già dato una bella scossa agli House Of Lords in “Saints and Sinners”, quindi lo ascolteremo anche nel loro nuovo album, che uscirà a metà ottobre. Per i Deep Purple credo di interpretare il tuo giudizio, che è severo ma poggia su basi reali, perché il gruppo cerca di rifarsi alla sua formula di maggior successo. Difficile pero’ aspettarsi qualcosa di diverso o addirittura rivoluzionario, non pensi? Grazie delle opinioni schiette, siamo sempre disponibili nell’accoglierle.
Ciao Beppe,
eccomi, finalmente ho letto la tua recensione di =1 e nel complesso concordo con quanto dici. Non hanno bisogno di stupirci ancora, da loro ci aspettiamo solo musica con la M maiuscola, album solidi e, soprattutto, immediati come solo loro sanno fare: quattro giorni di jam e tirano fuori i brani quasi bell e pronti.
Eh, diranno ma sono i soliti “duelli” tastiere/chirarra…… e allora? noi fan quelli amiamo e quelli vogliamo, se poi chi li inventa ed esegue sono musicisti del calibro dei nostri guai se mancassero.
Come fece Steve Morse 30 anni fa anche McBride ha dato una scossa alla creatività dei nostri vecchietti riportando il gruppo verso sonorità più vicine all’hard rock più intriso di blues dando comunque tributo al suo predecessore, in prima persona con un paio di spunti molto vicini al suo stile più prog (finale di Puctures of You e prima parte di assolo di Now You Are Talkin’) e con l’intera band nella finale Bleeding Obvious (ci starebbe su un album dei Flying Colors).
Gillan….. sono anni che ormai quando pubblicano nuovi album li “pesiamo” in base alla sua performance … prendiamolo per quello che è, un ormai 79enne che ha avuto il dono di una bella voce, ma che non si è mai preso la briga di tenerla curata o di lavorarci per impostarla… alla lunga alcol e fumo e, certo gli anni, la minano.
Qui alterna momenti di difficoltà ad altri nei quali è molto fluido e addirittura azzardato, in particolare mi ha stupito quando al minuto 00:57 circa di Now You Are Talkin’ si lancia in uno dei suoi classici urli spacca corde vocali da dove pensi non ne esca più ed invece eccolo ritornare sorprendentemente in canzone come se niente fosse… grande.
Poco da dire sulla sezione ritmica… due rocce… Glover molto presente e ben “evidenziato” dal mixaggio del sempre ottimo Ezrin e i tocchi swing e jazzy di quel genio di Paice, batterista completo prestato al rock, contribuiscono a confezionare un gioiellino.
Nessuna lode, per carità, non potrebbero più stravolgere la musica come fecero 50 anni fa, ma anche stavolta l’attesa è stata pienamente ripagata e, sicuramente, quando smetteranno ne sentiremo la mancanza. Lunga vita Deep Purple.
Ciao Civi, noto spesso che gli esperti appassionati di un gruppo vanno in profondità analizzando la novità discografica dei loro idoli, e non c’è affatto da meravigliarsi: talvolta ne sanno più dei “recensori”. Voglio solo precisare che per me le lodi ci stanno, basta che non siano esorbitanti. Il nuovo chitarrista ha senz’altro dato la scossa. Non pensare al futuro, il presente è ciò che conta e nel caso dei Purple, non c’è crisi all’orizzonte, tutt’altro. Complimenti per la cura del commento e grazie.
Hello Beppe! Deep Purple: l’ho trovato un buon disco che, quando punta sull’hard rock, diventa veramente notevole. Keys: mi era piaciuto molto l’esordio, e mi è piaciuto il nuovo singolo, quindi ascolterò con attenzione l’album. Mr. Big e Peterik finora non pervenuti, invece BK dei Type O Negative sicuramente un classico dei 90’s: merita la celebrazione.
Ciao.
Ciao Alessandro. Riflettendo sulla situazione di crisi a vari livelli e al pericolo di guerra globale, mi viene purtroppo da pensare al titolo premonitore di un altro album dei Type O Negative, “World Coming Down”! Andando oltre, certamente il nuovo Keys ti piacerà. Grazie e buon agosto!
Buongiorno Beppe
Dico la mia su quello che ho sentito rispetto a queste segnalazioni, intorno alle quali ti sei così dettagliatamente speso, nonostante l’afa soffocante di questi giorni
DEEP PURPLE: mi pare evidente un ritorno deciso alla matrice hard rock, grazie al nuovo chitarrista che ha un background decisamente più legato alla tradizione blues e hard blues britannica.
I pezzi guadagnano in riconoscibilità rispetto agli episodi con Steve Morse, che effettivamente col tempo aveva portato la band verso uno strano ibrido in cui le influenze “prog” avevano più peso del dovuto.
MR.BIG: purtroppo ritengo quello che dovrebbe essere un addio ai fan, un commiato in tono decisamente minore.
Ho trovato questo disco poco interessante, troppo distante dai loro capitoli migliori, con pochissimi spunti alla loro altezza… tutti i loro dischi sono da avere compresi i due con Ritchie Kotzen, ma la reunion discografica, partendo da “What if…” non ha giovato a questa band che è comunque stata tra le migliori proposte hard rock tra fine anni 80 e fine millennio.
JIM PETERICK: non posso dare giudizi poiché non ho ascoltato ancora nulla del disco citato. Peterick è comunque songwriter di serie A, magari per i miei gusti spesso un po’ troppo sbilanciato verso il versante più pop dell’ AOR.
KEYS: dopo attento ascolto del materiale proposto, ritengo questa realizzazione la più interessante tra quelle segnalate (per ciò che riguarda il materiale inedito ovviamente). Mi è piaciuta l’enfasi sinfonica dei pezzi e l’approccio moderno, poi qualche chitarra vera la potevano suonare, ma tutto sommato ci si passa sopra. Disco che merita l’acquisto fisico.
TYPE O NEGATIVE: prima cosa da dire: Peter Steele era un anima tormentata VERA, non un bello e dannato da operetta, e questo si sente in ognuno dei suoi dischi.
La produzione discografica dei TON è a mio parere di livello altissimo perché è stata una proposta originale e forse anche innovativa, a cominciare da Bloody Kisses qui analizzato.
L’apice secondo me rimane October Rust, ma questa band ha illuminato gli anni 90 ( e primi 2000) con un lotto di lavori insuperabili, dove il carisma di Peter insieme ad una band magnifica si sono uniti in un equilibrio irripetibile. Legittimo e augurabile che nessuno pensi mai ad una reunion.
Grazie per questi contributi.
Ciao Lorenzo, hai preso posizione su tutte le proposte, impegnativo! Hai giustamente apprezzato il nuovo album dei Keys,che effettivamente meritano la vostra attenzione, non solo in omaggio al background di Mangold, e hai reso un doveroso tributo a quel grande (in tutti i sensi) personaggio “maledetto” che fu Peter Steele, e ai suoi valorosi Type O Negative. Quando lo incontrai per l’intervista in promozione di “October Rust”, successore d’alto livello di “Bloody Kisses”, Steele appariva più appagato, soddisfatto del maggiore budget che la casa discografica aveva stanziato per “October” dopo il successo del precedente, e sempre molto ironico. Purtroppo non hai mai debellato i suoi demoni interiori. Unico, comunque. Grazie anche di averlo evidenziato.
Interessantissima selezione che offre ottimi spunti. Ma la mia attenzione è stata assorbita dai Deep Purple. Probabilmente il mio gruppo hard rock preferito. Come chi mi ha preceduto, Made in Japan ascoltato a 14 anni mi ha cambiato la vita e ha decretato che Ritchie Blackmore è dio e Gillan il più grande di tutti (con Paul Rodgers, ma questa è un’altra storia). Eppure la fase Morse non mi ha mai preso più di tanto complice anche il declino totale di Gillan. Buoni dischi, alcuni eccellenti, ma la scintilla non c’era. C’erano solo i miei soldi che uscivano dalle tasche per l’acquisto. Quindi, questo ultimo l’ho preso con lo stesso spirito: completismo. Bene, sono rimasto di sasso. Poche storie, con Simon McBride siamo tornati all’hard rock, quello puro. Non so come spiegarmi; Steve Morse è un Gigante, ho letto che un produttore l’ha definito il miglior chitarrista con cui ha lavorato, ma il suo stile, per me, non ci stava più di tanto nei Purple. McBride mi è sembrato più tradizionalista e quindi…quindi questi qua hanno sfornato il miglior disco dai tempi di…boh? Battle rages on (c’è Anya, quindi è un disco stupefacente)? Whoosh? Non lo so, ma erano secoli che non ascoltavo un loro disco a ripetizione per il gusto vero dell’ascolto. E anche Gillan è “presentabile”. Don Airey conferma di essere il più sottovalutato tastierista della storia. Nessuno che lo menzioni mai quando c’è da fare delle classifiche (oh! io per primo sia chiaro), ma se ha suonato di tutto con tutti, qualcosa vorrà pur dire. Poi ci sono le autocitazioni: I’ll catch up è Wasted Sunsets; Portable Door è Pictures of home; Sharp shooter sembra uscire da The house of the blue light. Ma francamente non me ne frega niente. Sono autenticamente esaltato per questo disco suonato da 80enni. Infine, grazie per l’omaggio ai Type O Negative, questi li ho vissuti in diretta. E ricordo che Bloody Kisses era anche la mia colonna sonora per certe situazioni che…(quello e l’omonimo dei Bad Company, bisogna essere variegati anche in certi contesti). Scusa per il posto lunghissimo, ma non è colpa mia, è tua che hai recensito con la solita classe i Purple
Ciao Paolo, è fuori di dubbio che i Deep Purple abbiano fatto la storia dell’hard rock e suscitino sempre grande interesse e stima. Su di loro si può scrivere tantissimo, una recensione ha naturalmente i suoi limiti e vedo che anche tu ti sei impegnato in una serie di legittime osservazioni. Steve Morse sicuramente gran chitarrista, però di matrice stilistica diversa e non è un caso che molti si siano infiammati all’ascolto del nuovo McBride, più vicino allo spirito dei classici Deep Purple. Mi fa però piacere che tu abbia apprezzato il “recupero” dei Type O Negative, a mio avviso un gruppo che anche a posteriori meriterebbe maggior attenzione dal pubblico competente. Sicuramente protagonisti di un sound fra i più originali ed oscuri degli anni 90. Grazie!
Ciao Beppe, eccoci alla tua recensione che avevo sollecitato.
Concordo che si percepisce la tua disciplina nell’esprimere in maniera equilibrata ma mai “diplomatica-ruffiana” la tua opinione …. opinione che mi trova concorde.
Anzi io avrei “denunciato” anche un altro limite, che in questi dieci anni si ripete ogni uscita dei DP, e cioè che c’è sempre un pezzo con la melodia, il cambio di accordi che cambiano esattamente come un pezzo dell’album prima che, a sua volta, era uguale ad un altro del penultimo album … etc ….
Un problema costante sin dai tempi in cui Don Airey è subentrato a Jon Lord e quindi su Bananas.
E’ molto più irritante di sentire un pezzo che sembra la versione 21°secolo di Pictures of Home, come accade in questo =1
Questo però per me non toglie che questo album è il migliore dai tempi di Whoosh del 2013 (ultimo album dei DP che ho veramente amato) d cui eredita la freschezza e quella sensazione di avere di fronte una “Villa Arzilla” più unica che rara, forse superata dai soli Rolling Stones.
Perchè questo è un album Rock che – grazie all’entusiasmo di Simon McBride – riesce a superare quella rotondità e mancanza di “cazzimma” che aveva caratterizzato la seconda parte dell’Era Morse o almeno molti/troppi brani.
Qua si vede che la band è uscita da una dimensione di “Moderna” (in senso stilistico, non anagrafico) Prog-Rock Band dagli spunti Hard, che sembrava caratterizzarla dai tempi di Bananas e soprattutto di Rapture Of The Deep e degli ultimi due in studio, per ritornare col piglio di una Hard Rock Band …. certo di quasi ottantenni ….. ma questo che sembra un limite (ed in parte non può non esserlo) è girato a vantaggio dalla band e da un grande produttore classico ma con una mente e gusto musicale notevole come Bob Ezrin ….. perchè il pensiero che ti viene istintivo con questo album è esclamare … “**zzo, ma questi hanno quasi 80 anni ed hanno ancora un tiro della madonna …… e i pezzi sono belli”
Il vero pezzo forte dell’album è per me “A Bit On The Side” .
Dal primo momento che l’ho sentito sono rimasto estasiato …. da 8 giorni ocntina a ronzarmi in testa col riff di McBride, ed un groove ed un tiro incredbilie … e poi Ian Gillan … vecchio rugoso (e sono anche rughe di dolore personale), dimagrito per l’età …. con testi che non ti immaginavi avrebbe scritto … lui il cantante che scrisse Mitzi Duprèè …… la voce è indebolita, eppure si sentel o sforzo, l’impegno a non essere banale … ad aggirare gli acciacchi del tempo …. per donare quella magia chei lgrande Rock solo sa donare …e “A Bit On The Side” è un fuckin’ gran pezzo di Rock … come non se ne sente da decenni come tanti virgulti arroganti nei loro tatuaggi si sogneranno id scrivere e che tanti non sanno più scrivere.
Solo questo pezzo?
No, Portable Door … e altro ….. c’è perchè il disco a mio giudizio merita il successo nelle chart di questi giorni-ore e dà anche riscontro alla sua qualità.
Tutto positivo? No, quello che ho osservato e che tu ancora meglio hai detto (e non detto) è lì …. ma poi … scusate cosa vogliamo pretendere ancora dai DP?
Morti e risorti infinite volte … e con un filo conduttore di passione e di visione del Rock unica …..
… e quindi? Chi se ne frega se quel bridge e coro è identico a quello di tre anni fa o almeno … io ci passo sopra quando poi ascoltiamo quei quattro pezzi che …. ti fanno venire la pelle d’oca ed i brividi, come i miei ora … nell’afa padana a 30° …..
Grazie ancora una volta ai Deep Purple per essere stati ancora una volta causa di emozioni nella mia tormentata vita …. così come la prima volta che li sentii con Made in Japan nel’estate del 1980, cambiandomi la vita.
… e grazie sempre a Beppe Riva ed al “Trombetti”, grazie di esserci.
Ciao Fabio, ho letto anche il tuo commento alla riedizione di “Machine Head” e mi sembra che tu abbia un “orecchio” da musicista o in ogni caso molto attento ai dettagli. Noi apprezziamo in ogni caso chi si impegna a darci un’opinione puntuale. Ovviamente una recensione, seppur lunghetta, non esaurisce mai il tema, si potrebbe sempre proseguire l’approfondimento. Tutti i grandi gruppi finiscono per citare loro stessi, specie se hanno una vita “infinita”! Però conta sempre l’emozione che suscitano. Ho voluto semplicemente sottolineare qualche debolezza perché decantare e basta oggi per me, anzianotto d’ascolti, non ha senso. Ma ho ancora il lettore CD in auto e mi porto il nuovo dei Purple domani in vacanza, perché mi
piace! Grazie della tua partecipazione.
PS: Whooosh è del 2020, Now What?! del 2013. Forse alludevi al secondo?
Sì chiedo scusa a tutti …. ed a te intendevo Now What …..
P.S. – Sì sono un amatoriale ma suono Hard anche io ….
Ciao Beppe. Alla fine della recensione dei Purple mi sono per un attimo fermato: c’era qualcosa di atipico in quelle valutazioni, al solito circostanziate, e dopo averci riflettuto sono giunto a definirlo. Mancava la caratteristica dei nostri tempi, il “politicamente corretto”, la paura di far storcere il naso ai fans indicando qualche sbavatura o poco riuscite soluzioni artistiche. Invece si può scrivere onestamente di ultrasettantenni senza indulgere alla benevolenza pur mantenendo rispetto e ammirazione. E questo è merce rara, in epoca di social e di studiata radicalizzazione dei rapporti. La migliore strada per tutelare artisti e chi legge. La musica per ciò che è, adesso nel momento in cui si scrive. Grazie.
Ciao Leandro, bentornato. Devo dirti che hai colto il punto, condivido in pieno il tuo parere. Questo è un Blog personale di due appassionati di vecchia data, non ci sono interessi in ballo. Certo, spiace se qualche sincero appassionato non gradisce eventuali critiche, però mi preme innanzitutto esser fedele alle mie opinioni, apparire onesto nei giudizi, anche se a mia volta sono un fan (come tutti coloro che scrivono). Ti ringrazio perché il commento è molto oculato.