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ALBUM & CDC'era una volta HARD & HEAVY

RIVIEWS, Old and…News

Di 3 Febbraio 20258 Commenti

Ci ritroviamo in occasione di una nuova serie di Riviews, all’appuntamento con il sesto anno di vita di Rock Around The Blog.  Vorremmo poter dare maggiore continuità ai nostri scritti, convinti però che in questo arco temporale vi siano state offerte proposte di qualità apprezzabile. Come sempre potete comunicarci le vostre opinioni.
Ringraziando i lettori, auguro a tutti una favorevole continuazione del 2025.

MÖTLEY CRÜE: “Dr. Feelgood” Deluxe Edition (BMG)

Un tuffo rigeneratore nel passato, in quegli sfavillanti anni ’80 che per me, nato boomer -da appassionato di musica- nei sixties e ammaliato dal decennio successivo, rappresentano l’ultima frontiera del rock come fenomeno trainante.
I Mötley Crüe fanno parte a pieno diritto di quella belle époque, sono stati gli autentici apripista della riconversione metallica dell’hard rock americano, nonché della “moda” hair metal (perché di immagine si trattò, non di stile musicale, comun denominatore il glam-rock dei ’70).
In tale ottica, il debut-album “Too Fast For Love” (1981), già celebrato sul Blog, resta LA pietra miliare per freschezza d’ispirazione, ma ancora lontana dall’apogeo della fama.
Alla fine della decade (settembre 1989), usciva “Dr.Feelgood” e la popolarità dei Mötley Crüe era in costante ascesa; oltre due anni prima il quarto album, “Girls Girls Girls”, scalava la classifica di Billboard fino al secondo posto, vetta mai raggiunta a quel punto della loro carriera, ed aveva già venduto oltre due milioni di copie negli U.S.A.; insistenti notizie fra il piccante ed il tragico non avevano affatto intaccato l’”attrazione fatale” esercitata dai Motley Crue… Anzi, il business americano è da sempre abilissimo nel tramutare attitudini socialmente pericolose in uno strumento di lucro. Non a caso il nuovo album “Dr. Feelgood” era pubblicizzato con frasi d’effetto del tipo “Il ritorno degli originali Bad Boys” oppure “I Mötley, la più cattiva R’n’R band del mondo”.
Rilanciava dunque il loro ruolo di oltraggiosi capostipiti della scena di L.A. anni ’80, nel momento in cui gli ultimi campioni della tradizione “negativa”, i Guns N’Roses, stavano facendosi beffe di tutti i loro predecessori in termini di vendite discografiche, con la pur tardiva esplosione di “Appetite For Destruction”. Nikki Sixx e compagni raccoglievano il guanto di sfida dei Gunners, e non perdevano occasione per dichiarare che “loro hanno aperto la strada alla nuova generazione di rockers hollywoodiani e non hanno seguito nessuno”; non era difficile immaginare a chi fosse indirizzata la stoccata… Come se non bastasse, il video del primo singolo, il titolo-guida “Dr. Feelgood”, era parzialmente ambientato nelle back streets di L.A., ideali per ricostruire una credibilità rock’n’roll, lontana da fatui aspetti divistici.

Avevano inoltre ingaggiato un produttore in grande spolvero, Bob Rock (Bon Jovi, Kingdom Come, The Cult etc.), trasferendosi nel suo studio di Vancouver per dedicarsi a lungo sia alla composizione dei brani, sia alle registrazioni. Sixx ha dichiarato che prima di lui, era stato preso in considerazione addirittura Quincy Jones, recentemente scomparso ed artefice del più grande successo discografico di sempre, “Thriller” di Michael Jackson.
Il suono appariva riverniciato di urbana autenticità, accantonando il taglio più commerciale di “Girls, Girls, Girls”, ed indirizzandosi verso un hard rock extra-forte, dalle solide basi blues-funky. E’ giusto ammettere che i Crüe hanno sempre cercato un’identità differente per i loro LP, ma il predecessore più affine è senz’altro “Theatre Of Pain”, che affondava le sue radici nella tradizione più rock che metal americana.

Sorprendeva solo in parte la ricerca di un confronto con i padrini Aerosmith, evidente nell’impatto viscerale della rampante title-track, in “Slice Of Your Pie”, ma non solo: ecco infatti i “numeri uno” di L.A. adottare una sezione fiatistica nel contesto rhythm & blues di “Rattlesnake Shake”, e li scopriamo recidivi nell’emulare i Bostoniani in “Sticky Sweet” (ai cori Steven Tyler, oltre a Jack Blades e la stella canadese Bryan Adams).
L’altro torrido apice dell’album è la sfrenata “Kickstart My Heart”, ma vi figurano anche ballate energizzate come “Without You”, composta da Nikki in omaggio a Heather Locklear -allora moglie di Tommy Lee- al quale “ha salvato la vita” (!) e “Time For Change”, dove sorprendentemente i Mötley si prendono sul serio e con responsabilità sociale, in un inno che parla del futuro in mano alle nuove generazioni: a livello musicale la canzone suona come un autentico omaggio agli Angel! Aggiungendo che “She Goes Down” giustifica con un feeling Cheap Trick la partecipazione di Robin Zander e Rick Nielsen, riconosciamo che in “Dr. Feelgood” i Mötley Crüe, ripuliti da qualche sostanza nociva di troppo, hanno suonato meglio di sempre. Il pubblico li premiava con il primato nella classifica americana, e l’album finiva per accumulare sei dischi di platino.
Dopo questo trionfale testamento, i Mötley Crüe non saranno più gli stessi, e non solo per le frizioni che allontanarono Vince Neil dal classico quartetto. Alla fine del 1989, non si chiudeva solo un’epoca irripetibile dell’hard’n’heavy, ma della loro stessa storia.
In occasione del 35° Anniversario, la BMG ha pubblicato due differenti box set – 3 CD oppure 3 LP in vinile nero/verde – che oltre a sfoggiare il nuovo mastering curato dall’illustre Andy Pearce, presenta cinque versioni demo e altrettante live di brani dello stesso repertorio (esclusa “Get It For Free”): inevitabilmente al calor bianco, ma non aggiungono granché a quanto già noto. Si tratta dunque di un’edizione –certamente deluxe- per allettare i collezionisti: include infatti una decina di memorabilia e gadgets (oltre ai dischi), che potete osservare nell’immagine sottostante, come la foto promozionale dei Mötley Crüe in apertura.

THE BIG DEAL: “Electrified” (Frontiers)

Pur constatando tristemente che il rock non è più la scelta musicale prioritaria delle nuove generazioni, rileviamo che i suoi confini geografici, si sono costantemente estesi nel corso degli anni rispetto all’epoca d’oro (compresi gli Ottanta) quando U.S.A. e Gran Bretagna rappresentavano i punti di riferimento imprescindibili. A livello di ascendente sul pubblico di massa è tuttora così, ma in quanto a diffusione, lo scenario internazionale si è notevolmente emancipato.
Prova ne è che in Croazia si affermano The Big Deal, formazione all’altezza delle migliori proposte attuali nel settore di competenza. Si tratta di un quintetto costituito nel 2020 dal chitarrista e produttore Srdjan Brankovic, che fra i suoi precedenti annovera collaborazioni individuali con gli Shadow Gallery e Michael Matijevic (già voce degli Steelheart), oltre a suonare in apertura di concerti di Whitesnake e Savatage come membro degli Alogia.
The Big Deal sono contraddistinti dalle impeccabili armonie vocali di Nevena Brankovic (anche tastierista con studi classici) e Ana Nikolic; completano i ranghi il batterista Marko Milojevic, mentre nel primo album “First Bite” (2022) figurava al basso il versatile talento della maison Frontiers, Alessandro Del Vecchio, che ha caldeggiato il gruppo all’etichetta italiana. I loro videoclip, forse per meriti non strettamente musicali, diventavano i più “visti” dell’anno sul canale Youtube della Frontiers…Negli anni a seguire, The Big Deal hanno maturato una consistente attività dal vivo e le due cantanti hanno partecipato all’album tributo a Michael Bolton, “Steel Bars”.
In gennaio il gruppo croato si ripresenta con il secondo album “Electrified” (Frontiers), e con l’eloquente biglietto da visita dell’inaugurale “Survivor”, composta da Anders Wikstrom degli svedesi Treat. Al di là della sua firma, il brano sfoggia una raffinata introduzione pianistica (oltre ad un assolo di synth) di Nevena, e l’interagire delle voci in perfetta sincronia, rievoca gloriose -e pompose- atmosfere hard rock anni ’80. Un altro contributo di rilievo risiede in “Don’t Talk About Love”, scritta da Jona Tee degli H.E.A.T. insieme a Del Vecchio, fuoriuscito perché impegnato nei suoi progetti: ancora voci femminili stentoree ed accattivanti sul fluido background del piano, spesso soverchiato dall’energico dinamismo del suono. Fatte le citate eccezioni il repertorio è opera del leader Srdjan, ed il livello generale è altrettanto valido.

Ad esempio “Fairy Of White” e “They Defied” si avvicinano alla loro maniera, dunque con il tocco barocco/classicheggiante conferito dalla Brankovic, a certe atmosfere maestose dei Nightwish. Non meraviglia affatto, perché The Big Deal si presentarono prima del debutto con una trilogia di video-cover, fra cui una brillante “Amaranth” dei celebri finlandesi. “Like A Fire” è munita di un altro refrain contagioso, e Nevena appare fra le migliori rivelazioni in tema di tastiere -senza distinzione di “genere”- ad esempio in “Better Than Hell”, dove riecheggia un maestro come Mark Mangold. “Burning Up” è la più appariscente nell’avvicinarsi al metal classico contemporaneo, mentre “Coming Along” e “Dare To Dream” si rifanno piacevolmente a canoni AOR/Pomp anni ’80. “Electrified” raggiunge quote più elevate rispetto a “First Bite”, promuovendo un gruppo che dimostra un’identità musicale ben riconoscibile.

CORY MARKS: “Sorry For Nothing” (Better Noise Music)

Artista emergente del prolifico scenario canadese, Cory Marks proviene dall’Ontario ma cita pionieri della musica country come Waylon Jennings e Merle Haggard fra le influenze primarie, accanto a classici dell’heavy rock. Ascoltandolo, più che nel Nord America sembrerebbe cresciuto nelle paludi della Florida, che hanno ispirato il southern-blues dagli evidenti influssi country dei Lynyrd Skynyrd e degli Allman Brothers; oppure, lo si ipotizzerebbe epigono della West Coast di fine anni ’60, dove si impose l’originale fusione fra tradizione americana roots con il rock’n’roll.
Più arduo accostare l’opera del chitarrista e cantante canadese a luminari quali Ozzy e Rush, da lui riconosciuti fra le originali fonti d’ispirazione. Emerge però la volontà di mescolare atmosfere immaginifiche a riffs d’inequivocabile impatto, ed in questa particolare combinazione risiede l’indubbia personalità della sua proposta.
Ma andiamo per ordine: Cory Marks esordisce nel 2015 con l’album “This Man”; l’anno dopo si lega contrattualmente al produttore Kevin Churko, lui sì, già all’opera con Mr. Osbourne. Alla fine del 2016, il primo singolo per la Better Noise, “Outlaws & Outsiders” riscuote un impressionante successo, raggiungendo il vertice di varie classifiche “digitali” (non chiedetemi di entrar in merito, non è affar mio) e radiofoniche. Bisogna attendere l’estate 2020 per il secondo album, “Who I Am”, forse una professione di fede che certifica il suo dichiarato amore sia per il rock che per il country. Più espliciti i due EP in successione dell’anno dopo, “Nashville Mornings” e “Nashville Night”, riverenti omaggi alla “culla” della country music. Giungendo all’attualità, il terzo album si presenta con “Make My Country Rock”: può apparire un titolo rilevatore ma aspettatevi tutto meno che musica soft…Siccome impera la moda del featuring, il brano ospita tre “famosi”; c’è effettivamente un cantautore e alfiere del country contemporaneo, Travis Tritt, ma anche Mick Mars e Sully Erna (voce dei Godsmack); i primi due già avevano contribuito al successo di “Outlaws & Outsiders”. La presenza di Sully smaschera l’altra faccia di Cory, che si riflette nei suoni potenti del metal post-grunge (ad esempio i Five Finger Death Punch, clienti dello stesso produttore di Marks). Così questo “fare il suo country rock” si risolve in passaggi d’atmosfera bluesy e ombrosa, alternati a riff trancianti, quasi una versione bombastica degli Skynyrd.
Può sembrar paradossale, invece giustifica una teoria di modernizzazione del rock classico. La successiva “Guilty”, dove Cory è affiancato dal cantante dei Bad Wolves, Daniel Laskiewicz, si avvale della stessa formula: intro sospesa e fatale, poi il tempestare di un livido fraseggio.
Decisamente più vicina allo spirito retrò “Whiskey For Sale”, con un pregevole innesto del violino che sorvola la strumentazione elettrica. La title-track “Sorry For Nothing” è ammirevole, nella miglior tradizione delle power-ballads, come il Bon Jovi dal gusto western “ricercato vivo o morto”…

Analoghe fantasie cinematografiche evoca “Drunk When I’m High”, con Cory nella parte di moderno cowboy alticcio in un saloon, fra memorie roots, cadenze reggae e senso dell’humour. In un contesto country più tradizionale si muovono “1949” e “Late Night Of Drinking Again” (ancora!), deliziosamente accompagnate da chitarra acustica e slide del protagonista; se invece preferite orientarvi verso le montagne rocciose, ecco “A Lot Like Me”, un solido heavy-blues di stampo Bad Co. e Tangier, o “Lift It Up”, che avvicina persino i Metallica più hard rock (che metal). Infine, un paio di tributi ad un’altra luce-guida del giovane Cory, Bryan Adams, in “Fast As I Can” e nella bonus “Learn To Fly”.
Consiglio vivamente l’ascolto di “Sorry For Nothing” ai cultori di classic rock non strettamente “conservatore”.

FATAL VISION: “Three Times Lucky” (Art Of Melody)

Gli appassionati di lungo corso ricordano con nostalgia i valori dell’AOR canadese negli anni ’80, con picchi di notorietà per Bryan Adams e Loverboy, episodici exploit di Sheriff, The Box, Prism e di una miriade di gruppi di nicchia, alcuni dei quali hanno trovato spazio tempo fa in questo Blog (Orphan, Refugee etc.).
Anche le origini dei Fatal Vision risalgono a quella scena, come suggerisce l’aspetto non propriamente giovanile del cantante Simon Marwood. All’epoca non ebbi notizie di questa formazione di Ottawa, che però si volatizzò senza lasciar traccia per ricomparire sorprendentemente nel 2021. Da allora hanno intrapreso un’avventura discografica senza soste, realizzando tre album: “Once”, “Twice” e verso la fine dell’anno scorso, “Three Times Lucky”. A quest’ultimo hanno contribuito nomi eminenti dell’hard rock melodico (il connazionale Paul Laine, oltre a Jeff Scott Soto e Joel Hoekstra). I Fatal Vision si professano devoti del classico AOR, dagli Asia ai Journey, ammirando anche i Van Halen, ed in occasione di Halloween 2024 hanno anticipato il terzo album con un video d’ispirazione horror del brano “Shadows”, superiore ai 13 minuti. Si tratta di un’interessante escursione nel prog-metal, fra cori melodici ed atmosfere orchestrali suggerite dal synth e dal violino, ma distante dalla produzione tipica del quintetto, molto più incline verso una formula in bilico fra dinamico pop-rock e soffice AOR: infatti non è inclusa nel nuovo album. Fatal Vision ambiscono anche ad una proposta multimediale, abbinando ad ogni brano di “Three Times Lucky” un video dedicato: ma non giudicherei l’aspetto visuale quale punto di forza di questi canadesi. Nemmeno particolarmente derivativi dagli astri nella stratosfera del rock FM di epoche fa, propongono un’intrigante repertorio fondato su un’andatura ritmica coinvolgente e cori raffinati, ben gestiti da Marwood con l’apprezzabile cantante Christine Corless (che non figura nella formazione ufficiale).

Ne sono accattivanti esempi il nuovo singolo “It’s Not Over”, il brano d’apertura “Time Of Our Lives” e l’altrettanto incalzante “Dangerous”. In “All Roads Lead To London” la voce femminile appare persino predominante, oppure si esibisce in un duetto alla pari con il frontman, ad esempio nella ballata pop “In Another Life”; in ogni caso si tratta di un innesto davvero funzionale allo stile del gruppo. Basta che non vi aspettiate qualcosa di tendenzialmente heavy come l’ingannevole citazione dei Van Halen può suggerire: forse solo “One Wild Night” può esser definita hard rock, ovviamente di stampo melodico. In conclusione, “Three Times Lucky” è un album di piacevole ascolto, eseguito con indubbia eleganza, ma riservato ai cultori del rock radiofonico senza forzature verso istinti più bollenti!

QUEEN: “Queen I” Deluxe Edition (EMI)

Fu un colpo di fulmine artistico a far scattare i Queen da umili blocchi di partenza verso la fama planetaria che li avrebbe consacrati fra le massime istituzioni del rock.
Ormai definito il classico quartetto costituito da May, Taylor (entrambi ex Smile), Mercury e completato da John Deacon nell’estate 1971, i Queen collaudarono i nuovi studi De Lane Lea di Wembley, approfittandone per registrare i demo dei primi brani, all’inizio del ’72.
I produttori di un’altra struttura di primo piano, gli studi Trident di Soho (Londra), Roy Thomas Baker e John Anthony, visitarono i De Lane Lea per aggiornamento sulle novità tecnologiche, mentre i Queen stavano suonando. Baker, che diventerà il loro mentore per antonomasia, era impegnato nelle sessioni di registrazione del secondo LP dei Nazareth, “Exercises”, ma rimase appunto, fulminato dall’esecuzione di “Keep Yourself Alive”. Altrettanto entusiasta fu John Anthony, che aveva già collaborato con gli Smile, ma all’epoca era noto soprattutto come produttore dei gruppi prog della Charisma: Van Der Graaf, Genesis, Rare Bird (ed in seguito, Roxy Music!).
Grazie a loro, i Queen venivano scritturati dalla Trident Audio Productions ed hanno accesso agli studi, ma solo di notte, perché la programmazione di artisti prestigiosi, che già li frequentavano assiduamente, non concedeva loro altre tempistiche. Dal maggio 1972 in poi, per circa quattro mesi, i musicisti condussero una vita spossante da “animali notturni” per rincorrere i loro sogni. Erano determinati ad esigere i suoni alla loro maniera, ma pur ammirandoli, i produttori li reputavano inesperti, quindi poco attendibili. Si consideri che l’ingegnere del suono era un’altra futura autorità, quel Mike Stone poi famoso -fra gli altri- con Journey, Asia, Foreigner.
Alla fine tutto si risolse positivamente, ed il gruppo fu ingaggiato dalla EMI, che però ritardò l’uscita di “Queen I” fino al luglio 1973: l’album d’esordio, nonostante l’indubbio potenziale, fu tutt’altro che un immediato successo.
Recentemente però i plenipotenziari del faraonico catalogo, Brian May e Roger Taylor, molto abili anche come promulgatori dell’Opera Queen, hanno inteso rimetter mano alle registrazioni originali, per farle suonare “esattamente come avrebbero voluto” all’epoca. Quindi il restauro (perché – sostiene May – “non di semplice rimasterizzazione si tratta”), ha visto la luce un paio di mesi fa in una edizione deluxe (EMI), sia come impegnativo box (6 CD + 1 LP) sia in succinta versione 2 CD. Non staremmo ad occuparcene, se non fosse che “Queen I” è probabilmente l’album più sottovalutato della loro storia; si tratta invece di un autentico caposaldo, straripante di energia e gusto melodico, con tutte le eclatanti doti dei protagonisti già in netto risalto.

L’atto d’apertura e primo singolo “Keep Yourself Alive” è fra i brani più noti, galoppante hard rock all’altezza dei maggiori protagonisti del suono a tutto volume di 1970 e dintorni. La duttilità pressoché unica della voce di Freddie si evince sia in quel contesto, sia quando sfoggia il suo timbro più melodico e soffuso, accompagnato da piano e chitarra acustica in “Doing All Right”, poi conclusa da un’altisonante sequenza musicale heavy.
“Great King Rat” esibisce una minacciosa vena epica che è corretto teorizzare esperimento proto-metal, ma con la varietà espressiva di uno dei grandi chitarristi della cosmogonia rock, Brian May. Trova poi spazio (secondo gli intenti d’origine del gruppo) “Mad The Swine”, allora esclusa dal repertorio perché avversata dai produttori ed invero, pop-rock più manierato.

Tutt’altra creatività risalta in “My Fairy King”, dal tono operistico che prelude alle glorie di “Bohemian Rhapsody”; i Queen fanno le prove delle loro ammirate armonie corali, Freddie si esercita al piano “classico” e cita una Mother Mercury, a quanto si tramanda precedente alla scelta del nome d’arte. “Liar” è hard rock sempre caratterizzato dal tocco esclusivo della chitarra di May, mentre “The Night Comes Down” alterna sapientemente fraseggi progressive ad accenti pop. “Modern Times R’n’R” non ha proprio nulla da invidiare alle asprezze del rock duro contemporaneo (a.d. 1973) americano. Davvero sorprendente, per chi non la conosce, “Son And Daughter”, animata da un riff cupo e rimbombante di puro ceppo Black Sabbath. In “Jesus”, Mercury si diletta in un inno gospel di fonte biblica, che sconfina in un impressionante finale elettrico. La conclusione è affidata al preludio strumentale, fondato su piano e chitarra pomp-rock, della “Seven Seas Of Rhye…” completata in “Queen II” e certamente istruttiva per emuli d’oltreoceano quali Styx e Angel.
In rapida sintesi: ogni brano è vincente.
Nella più economica riedizione doppia, il primo CD include l’eccellente remix dell’LP ed il secondo le “Queen I Sessions”, che hanno il pregio del contenuto inedito; infatti comprendono outtakes registrate presso gli studi Trident e De Lane Lea, con arrangiamenti provvisori spesso basati su chitarra acustica e “guide vocal” (ovvero Freddie che intona la melodia senza testo, del tipo na-na-na…), frammentati da dialoghi del gruppo impegnati in sala prove. Invece il cofanetto raccoglie, oltre ad un libro di ben 180 pagine, una selezione di brani dal vivo al Rainbow (1974), BBC sessions 1973-’74, altri demo negli studi De Lane Lea (il tutto già distribuito in precedenti uscite discografiche); da segnalare poi un CD di backing tracks (senza la voce di Mercury). Infine, sul CD 6, anche cinque brani dal vivo, tratti da concerti a San Diego (1976) e all’Imperial College di Londra nel 1970: certamente non un modello d’alta fedeltà, ma rispetto agli altri si tratta di inediti.
Oltre ogni disputa per il trono, era veramente nata una Regina.

8 Commenti

  • matteo ha detto:

    Beppe, grazie come sempre.
    Sarai al frontiers Rock festival?

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Matteo, grazie a te che leggi. Intendo venire al Frontiers festival, anche se non credo sarò presente a tutte le tre serate.

  • Lorenzo ha detto:

    Buonasera Beppe
    Su Queen e Motley Crue c’è poco da aggiungere a quanto tu hai scritto.
    Queen I non è il mio preferito ma ha già parecchie caratteristiche che in seguito renderanno celebre la band.
    Dr.Feelgood è secondo me il miglior disco dei Crue, davanti al successivo e bistrattato omonimo con John Corabi (prima o poi bisognerà rivalutare questo disco), e i Crue stessi sono stati probabilmente la migliore e più iconica band hair metal (la definizione personalmente non mi piace ma gli americani la usavano per identificare quel tipo di sonorità). Molti hanno provato a stare al loro livello, ma nessuno ci è riuscito…forse solo i Ratt si sono avvicinati.
    Queste deluxe edition ben vengano, come sempre, se possono ancora contribuire a divulgare la musica seria soprattutto presso i più giovani.
    Per quanto riguarda le proposte più contemporanee che citi, non le ho ancora ascoltate, anche perché onestamente mi manca sempre di più la voglia di avventurarmi nell’ascolto di nuove band, nonostante siano ascrivibili in generi che apprezzo. Non è solo per pigrizia, ma anche per parecchie delusioni, devo dire soprattutto nel rock melodico.
    Certo, ci sono le eccezioni…mi permetto di segnalarti un disco che secondo me meriterebbe la tua attenzione, nonché una tua recensione su questo blog: Reset, ultimo disco dei Radioactive, la band di Tommy Denander. Che ci fosse ancora qualcuno capace di proporre un disco risolutamente AOR, ma originale, vitale, suonato e cantato splendidamente e prodotto con eguale maestria, mi ha grandemente sorpreso.
    Saluti

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, giungendo ai Motley Crue, e all’omonimo album di “ripartenza” del ’94, non ricordo se sia stato bistrattato o meno e da chi. Era un disco ben suonato e altrettanto ben prodotto (prevalentemente con uno stile formale più anni ’90 però), ma il cantante incide in modo decisivo in una formazione, e John Corabi (che avevo apprezzato negli Scream) induceva ad un autentico cambio di personalità. In altri termini, non era paragonabile ai Crue degli anni ’80, perché piaccia o meno, Vince Neil li caratterizzava moltissimo. Per quanto riguarda l’AOR, non era oro tutto ciò che luccicava negli ’80, ma gli autentici campioni (dai Touch ai Giuffria fino ai Bad English, senza considerare le stelle assolute) erano “ingiocabili” se confrontati con i loro epigoni. Nessuno oggi li equivale, ma ci sono formazioni che meritano per la loro proposta di qualità. Molti apprezzano i Nestor, tu caldeggi i Radioactive, altri appassionati stimano The Night Flight Orchestra. Tutto ciò dimostra che il rock melodico è tuttora vitale, sebbene troppi gruppi gettati sul mercato appaiano più che altro ripetitori di una formula. Grazie

  • Roberto Torasso ha detto:

    Ciao Beppe è sempre un piacere leggere il tuo blog anche se purtroppo i tempi frenetici cui viviamo lasciano rare occasioni per interagire con le discussioni agli argomenti esposti…
    Apprezzo moltissimo lo sforzo di segnalare nomi nuovi nel panorama musicale odierno ma devo dire che, sarò io retrogrado, è tanto che non riesce ad accedersi la scintilla che mi fa entusiasmare e appassionare al rock di oggi…
    Sarà perché ormai il mercato è saturo di proposte ancora più che in passato che è difficile trovare qualcuno che dica qualcosa di originale o che denoti una personalità artistica spiccata.. quindi mi ritrovo sempre a tornare a ritorso a scandagliare il passato perché è lì che riesco a ripristinare emozioni affievolite o dimenticate…
    Dei Queen ormai si è detto e scritto tantissimo, però volevo fare una considerazione… quando hanno unito le forze con Paul Rodgers hanno gridato in molti di lesa maestà…mi piacerebbe sapere quanti sapessero chi era veramente e se fosse uscito “Cosmos rocks” con un monicker diverso quanti l’ avrebbero ascoltato o acquistato… però il biopic “Bohemian Rhapsody” è stato acclamato anche da chi conosce quelle 2-3 canzoni famose del gruppo e il tour che hanno fatto con il sosia Adam Lamberto accolto con entusiasmo…
    I Motley crue pur riconoscendo il ruolo scardinante per la scena americana del ritorno del glam rock ,a mio avviso hanno giocato un po’ troppo sul fattore trasgressivo perdendo di vista il lato musicale che a parte l’ esplosivo esordio è stato alquanto altalenante negli album successivi compreso “Dr.Feelgood”,e pur apprezzandoli ho preferito altri esponenti contemporanei…

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Roberto. Hai ragione, oggi non c’è dato tempo da perdere, quindi ti ringrazio per averlo trovato, esprimendo lucidamente la tua opinione. Che non corrisponda alla mia poco importa, basta avere le idee chiare. Certo non sei il solo che non riesce ad appassionarsi al rock attuale, tacciandolo di scarsa originalità. Ed il mercato è saturo, quindi si è creata una situazione “massificante”. Propongo alcune scelte nella gran quantità di uscite, e prossimamente ne chiarirò meglio gli intenti in un’introduzione alle “Riviews”. Grazie comunque per apprezzare lo sforzo. Certamente May e Taylor hanno voluto proseguire con il vantaggioso “marchio” regale, pur sapendo che senza Freddie non sarebbe più stata la stessa band. Immaginate i Led Zeppelin senza Plant? I Queen hanno voluto sostituire colui che molti considerano il più grande front-man della storia, con quello che tanti altri considerano il miglior cantante inglese. Troppo differenti, troppo “unici”, non ha funzionato. E hanno proseguito con un replicante. I Motley sul fattore trasgressivo (più che trastullarsi) hanno rischiato la pelle, condanne etc. Molti eccessi da rockstar, vero, ma anche un carisma unico, ben identificabile anche quando plagiavano importanti predecessori. Penso che il tuo giudizio sia un pò troppo severo verso di loro, ma i pareri sono soggettivi, ci mancherebbe. E fa piacere riceverli, sono un feedback che non trascuro affatto.

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe. Dr Feelgood è ancora oggi uno degli album più amati dei Motley ed è giusto celebrarlo. Come sempre, tu riesci ad esprimere qualcosa di nuovo ed interessante anche su album per i quali, in teoria, non ci sarebbe più nulla da dire. Il riferimento agli Angel in Time For Change, ad esempio: grande! Una domanda suoi The Big Deal: Nevena è la stessa che avevi trattato in una tua precedente puntata sull’AOR al femminile e che aveva pubblicato un album solista? Molto incuriosito dalla segnalazione di Cory Marks, la cui descrizione potrebbe incontrare i miei gusti. Un caro saluto, ed avanti sempre con i tuoi scritti!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro, entrando in merito alle tue osservazioni, a distanza di decenni mi piace riconsiderare alcuni album “vissuti” all’epoca della pubblicazione, alla luce degli anni trascorsi. Alcuni possono apparire obsoleti, altri conservano invece la loro freschezza. E’ un pò l’esame del tempo che passa, come per tutti noi. Penso che i Motley da giovincelli abbiano verosimilmente ascoltato gli Angel a L.A. Nevena Brankovic dei Big Deal non è la stessa Nevena Dordevic dell’album solo su Frontiers a suo tempo recensito. Anche la Dordevic è una pianista preparata. Cory Marks è certamente consigliabile per ascoltatori che amano la sua tipologia musicale, ed è un ottimo compositore. Ti ringrazio come sempre dell’attenzione.

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