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ALBUM & CD

RIVIEWS – Ottobre 2024

Di 15 Ottobre 20244 Commenti

Ormai non occorre presentarle: come già nelle precedenti, una serie di Riviews alla mia maniera, rivendicando spazi espressivi adeguati, con qualche lungaggine di troppo rispetto ai contenitori prestabiliti da esigenze di redazione, nelle riviste professionali. Nessuna polemica, non fraintendete, amo e rispetto la carta stampata, ma quantomeno su un Blog (certamente da scovare fra mille altri) l’indipendenza creativa è in omaggio ai propri criteri.
Come sempre, vi presento alcune novità nella mia sfera d’interesse, oltre alla puntuale riedizione di un classico. Spiace escludere altre attuali uscite di rilievo (non certo per trascuratezza); intanto la formula è questa, si vedrà se riusciremo ad essere più “inclusivi”. Nel frattempo Giancarlo è tornato all’opera occupandosi dell’album forse di più vasto interesse globale negli ultimi chiari di luna, l’avrete già notato.
Un saluto e grazie a chi continuerà a leggere.

HOUSE OF LORDS. “Full Tilt Overdrive”

Sgombriamo subito il campo da equivoci: toglietevi dalla testa di ritrovare negli House Of Lords del dopo -”Demons Down” le peculiarità esclusive degli originali, ampiamente celebrati alle prime luci del nostro Blog; altra epoca, altra freschezza creativa, altri protagonisti, benché l’encomiabile James Christian sia tuttora il portabandiera della formazione.
Se ai tempi del classico debut-album omonimo (1988) si configuravano al rango di “supergruppo” per qualità ed esperienza dei musicisti, era preponderante il Fattore GG (niente X, spiacente!) nell’indirizzare gli House Of Lords verso una formula che mescolava sapientemente slanci pomp-rock, AOR e heavy metal americano, quello “di una volta”, sia chiaro. L’artefice a cui mi riferivo era naturalmente Gregg Giuffria, responsabile di preludi di tastiere sinfoniche fra i più affascinanti che sia dato ricordare (da “The Fortune” degli Angel a “Oh Father”, canto del cigno dei suoi H.O.L.). Il mago delle tastiere dalla chioma spettacolare, invidia di ogni coiffeur impegnato in “creazioni” hair metal, da anni è in tutt’altre vicende affaccendato, quindi il testimone è impugnato dall’unico superstite, Christian appunto, ammiraglio nelle acque tumultuose del terzo millennio. A dargli man forte soprattutto il chitarrista Jimi Bell, più incline verso le sonorità metal veementi seppur melodiche, ma ben diverse dalle soluzioni espressive del passato. A parte qualche sussulto, la sequenza di album degli anni 2000 non mi ha mai impressionato, ma devo fare un’eccezione per “Saints And Sinners” del 2022, nel quale Bell e Christian (che ormai assomiglia all’attuale Renato Zero) coinvolgevano un altro grosso calibro delle tastiere – della stessa generazione di Giuffria – ovvero Mark Mangold: recentemente lo abbiamo elogiato per la seconda prova nei Keys. L’ex Touch ha inoltre prodotto l’album insieme al cantante; benché fosse da escludere un restauro di “tastiere dominanti”, la creatività degli H.O.L. ha ricevuto una benefica scossa, realizzando una serie di inni da stadio, dalla title-track a “Dreamin It All”, passando per “Road Warrior”, in grado di ridestare sopiti entusiasmi.
A conferma dell’apprezzabile risultato, il quartetto si ripresenta due anni dopo senza variazioni: completato dal batterista svedese Johan Koleberg e con lo stesso binomio di produzione auto-gestita. Il nuovo album “Full Tilt Overdrive” (Frontiers) è inaugurato da “Crowded Room”, ritmicamente serrata e contraddistinta da una chitarra prettamente heavy metal, che soffoca un po’ il contributo delle tastiere con quei riffs ed assoli virtuosistici a cui siamo abituati, pur rispettando l’efficacia di Jimi Bell. James Christian è certamente più in forma di quanto appare, e regge assai bene l’avanzare degli anni intonando l’accattivante refrain di “Bad Karma”. Preferisco lo stile più vintage della title-track – alla Ted Nugent d’annata – con l’organo sibilante di Mangold, che si produce anche in rapido assolo rispondendo alla chitarra d’assalto di Bell.

Piacevolmente nostalgica la ballata “Taking The Fall”, che rievoca la magistrale cover di “Can’t Find My Way Home”, esibita dagli H.O.L. ai tempi di “Sahara” e punteggiata da ariosi, atmosferici cori tipici del rock melodico anni ’80. Il tocco oscuro di “You’re Cursed” e “Not The Enemy” strizzano l’occhio al pubblico degli attuali festival heavy europei: potenti, d’effetto, non particolarmente originali…Più interessanti a mio avviso le fasi conclusive: “State Of Emergency”, con gli arrangiamenti di Mangold più evidenti in un contesto di hard rock melodico, e soprattutto il finale maestoso di “Castles High”, che sfiora i dieci minuti di dimensione mitologica, corroborata da scenari strumentali pomp-rock e cori dall’enfasi soul.
“Full Tilt Overdrive” cristallizza la formula del predecessore, arduo aspettarsi un nuovo coup de theatre, ma questi veterani sanno regalarci momenti emozionanti.

MC 5: “Heavy Lifting”

Della leggenda degli MC 5 avete letto quanto giudicavo indispensabile nel Tributo recentemente pubblicato sul Blog.
A drammatica conferma del fatal destino che ha tormentato i superstiti di una delle più influenti bande rock in assoluto – a lungo osteggiata dall’America conservatrice – gli MC 5 sono stati introdotti nella Rock Hall Of Fame solo quest’anno: troppo tardi per Wayne Kramer, protagonista della celebrazione di cui accennavo, scomparso in febbraio. Paradossalmente, anche gli ultimi testimoni originali della loro storia, il manager/mentore Richard Sinclair ed il batterista Dennis Thompson, sono deceduti (rispettivamente in aprile ed in maggio) ricongiungendosi ai compagni nell’Aldilà, dove li hanno preceduti Rob Tyner, Sonic Smith e Mike Davis. Dunque nessun membro dei Five parteciperà alla cerimonia, in cui saranno onorati ben oltre il mezzo secolo dal terzo ed ultimo album “High Time”.
Resta però l’eredità finale, un nuovo disco registrato nel 2022, 50 anni dopo lo scioglimento del gruppo. Pur attribuito agli MC5, “Heavy Lifting” (Ear Music) è basilarmente un album solo di Kramer, impegnato nel ravvivare l’essenza ribelle dei rivoluzionari rockers di Detroit; lo ha assistito il celeberrimo produttore Bob Ezrin (Deep Purple, Lou Reed, Kiss) con il quale aveva già lavorato nell’album di Alice Cooper consacrato alla Motor City, “Detroit Stories”.
In un paio di brani suona lo stesso Thompson, fedele allo stile travolgente che lo fece soprannominare Machine Gun, e nel resto del gruppo appaiono fra gli altri il vocalist Brad Brooks, il batterista Winston Watson (già con Bob Dylan) ed il chitarrista Steve Salas, che oltre a collaborazioni famose (Rod Stewart etc.) ricordiamo per un album molto rappresentativo della svolta crossover hard rock/funky, “Steve Salas Colorcode” (1990). Se vi pare poco, aggiungo che ospiti illustri si sono spesi per il ritorno del prime-mover Kramer: fra questi Tom Morello, l’ubiquo Slash, William Duvall degli Alice In Chains e Vernon Reid (Living Colour).
E’ ben nota la fama di iconoclasti ispiratori del punk attribuita agli MC5, e Kramer affermò che il nuovo album riproponeva la stessa attitudine musicale, ripartendo dove “High Time” si era arrestato, ma la sua coscienza sociale rifletteva gli anni che stava vivendo; lo stesso Ezrin (con lui nella foto) ha dichiarato che si tratta di un album di solido rock chitarristico, con componenti heavy metal e funky. Dunque al di là del conflitto fra i generi, “Heavy Lifting” conferma l’irrinunciabile vena rock & roll ad alta energia degli MC 5, che resta il loro marchio di fabbrica.
Il primo singolo, “Boys Who Play With The Matches” ne testimonia la vena a tinte forti, con un ardente assolo di chitarra e cori che si rifanno alla black music (Detroit era la culla della Motown); quello stile sporco, tuttora selvaggio, si rispecchia anche in “Barbarians At The Gate”, conclusa da una jam con armonica blues. La title-track ospita l’illustre Tom Morello, fra i chitarristi più riconoscibili dell’evo moderno, perché il suo riff incalzante ne svela subito l’identità.

In “The Edge Of The Switchblade” (remake del brano tratto da “The Hard Stuff”, primo solo di Kramer, il nuovo link non è ancora disponibile) è un altro chitarrista di vertice a presentarsi assai bene; Slash rinfocola il più abrasivo street R&R, ben interpretato da Duvall: certamente il brano destinato ai favori degli heavies. “Change No Change” è una ballata dall’anima soul, mentre “Can’t Be Found”, con Thompson e Vernon Reid sugli scudi, è a sua volta fra i più potenti esemplari della collezione. Per finire non potevano mancare capillari omaggi al funky dei musicisti di colore, con “Blessed Release” e soprattutto “Hit It Hard”, dove spiccano gli slanci jazz del sax di Joe Berry e le evoluzioni vocali femminili.
Il testamento degli MC 5 non può esser paragonato alla statura dei loro classici, a cui è dedicato il bonus CD (o LP) dal vivo, dieci brani tratti dal tour MC50 del 2018. Ne è però fedele discendente per chi li ha amati.

DAYTONA: “Garder La Flamme”

Daytona non è certo un nome ricorrente fra i cliché dell’hard rock; identifica semmai un circuito automobilistico americano ed un orologio fra i più ambiti di una famosa marca svizzera. Appare invece un nuovo gruppo svedese che aspira ad acquisire crescente notorietà, nell’ambito di quella congestionata scena e più generalmente fra gli appassionati, che la reputano una sorta di  Ultima Thule del rock, esploso ai tempi ed al traino degli Europe.
Daytona sono infatti un quintetto di musicisti dai già consistenti trascorsi – che non sto ad elencare – riuniti con l’obiettivo di far rivivere alla loro maniera il “sogno americano” del rock melodico degli anni ’80. Facile a dirsi, ma in realtà molti vichinghi negli ultimi decenni ci hanno provato, naufragando nel mare della prevedibilità. Non solo loro ovviamente, ma è arduo distinguersi attualmente in un genere come l’hard/AOR, che ha dato il meglio con le grandi produzioni yankee del favoloso decennio rievocato. C’è un quid, difficile a definirsi, che distingue opere di maggior qualità, se non proprio di spiccata originalità, dalla media più uniforme, e recentemente abbiamo ritenuto di promuovere i Nestor in quest’ottica.
Dunque i Daytona si sono presentati a fine giugno con il primo singolo per la Escape, “Where Did We Lose The Love”; poteva apparire l’ennesima ode sentimentale, invece i musicisti vivono in un mondo drammaticamente attuale, dove la follia e l’odio bellico hanno sopraffatto l’amore ed il rispetto fra le differenti comunità, come spiega il chitarrista Erik Heikne, e non occorre aggiungere altro. Invece l’intro di chitarra “siderale” mi ha idealmente ricollegato al fugace start di “I’m A Believer” dei Giant; poi però il brano si illumina di luce propria, con la stentorea voce di Fredrik Werner – riecheggia maestri come Lou Gramm e Mark Free, Signal-époque – che conduce una melodia dall’impeccabile arrangiamento, a cui molto contribuiscono le tastiere di Johan Berlin.
L’album, in uscita il 25 ottobre (Escape), s’intitola “Garder La Flamme”, sorvegliare la fiamma in francese, che poi è l’equivalente del “Guardians Of The Flame” dei Virgin Steele, devoti alla causa heavy metal. Sempre di anni ’80 si tratta, ma l’attenzione dei Daytona è concentrata sulle sofisticate atmosfere dell’AOR storico, immediatamente evocate da “Welcome To The Real World” (lo ribadiscono, e non è la stessa dei Mister Mister): lussureggianti aperture di tastiere, riffs incisivi che però non rinunciano ad illustrare “spazi aperti” ed una voce in grande spolvero. Tutti gli elementi strumentali contribuiscono a riconsegnarci con classe quel suono mai tramontato, per chi non si rassegna alle tante miserie dei trend moderni.

Naturalmente i Daytona non inventano nulla, ma l’ispirazione conta ancora parecchio e nel loro caso occorre riconoscerla. La si evince anche nella classica power ballad melodrammatica “Through The Storm”, dal refrain avvincente e sostenuto da impeccabili cori. Piacciono anche i successivi singoli: nella spettacolare “Looks Like Rain”, l’influsso contagioso dei Signal si ripropone elegantemente, con un assolo sempre calibrato di Erik; “Slave To The Rhythm” si distingue per personalità con un irresistibile crescendo e l’innesto del sax (riproposto ad esempio in “Downtown”) che conferisce un tocco distintivo, come tempo addietro insegnarono i Foreigner. C’è anche la title-track che nel finale insiste sul verso Still Alive! a conferma del fervido amore per un genere ormai raro a trovarsi nell’arena rock contemporanea. Se siete cultori dell’AOR e ne auspicate la sopravvivenza, concedetevi “Garder La Flamme”.

VAN ZANT: “Always Look Up”

Torniamo idealmente sulle piste del southern rock dopo la retrospettiva dedicata all’antologico “Fifty” dei Lynyrd Skynyrd nel novembre 2023; circa un anno dopo, dall’albero genealogico di quel gruppo fondamentale, rifiorisce la ramificazione Van Zant, che accomuna i fratelli Johnny (già erede dello scomparso Ronnie negli Skynyrd) e Donnie, che si era imposto in autonomia dalla seconda metà anni ’70 in avanti con i suoi 38 Special.
Johnny ha dichiarato senza reticenze che la nuova musica dei Van Zant “non è probabilmente ciò che il pubblico si attende da loro”. Effettivamente, l’ipotesi più scontata poteva essere un mix fra le precedenti esperienze dei fratelli, mentre quella più ardita (con il beneplacito della loro etichetta, Frontiers) una restaurazione dell’originale sigla Van Zant, che ricordiamolo, con Johnny alla voce aveva realizzato un classico dell’AOR, epoca aurea anni ’80, l’omonimo album dell’85. Anche Donnie nello stesso decennio si era orientato verso quella tipologia musicale con i 38 Special, dando credito a questa eventualità.
Il nuovo album “Always Look Up”, è invece di ben altra natura, ed i fratelli Van Zant si rivelano a tutti gli effetti “sudisti per grazia di Dio”, riallacciandoci al titolo del famoso Tour Tributo del 1987. Pare che la “conversione” di Donnie al Cristianesimo sia avvenuta ad opera di John Elefante dei Kansas, che notoriamente ha consacrato al suo credo religioso i Mastedon, rilevante gruppo costituito col fratello Dino, all’esordio discografico nell’89. Johnny ha invece ammesso di aver vissuto per anni con il Diavolo al suo fianco, convincendosi infine della necessità di diventare una “persona migliore”. I fratelli hanno accresciuto insieme la loro fede in Gesù Cristo e la rinnovata vena musicale riflette completamente l’attuale identità degli ex-ribelli del Sud.
Dunque, nulla a che fare col celeberrimo inno degli Skynyrd “Sweet Home Alabama”, risposta  stizzita (e fraintesa) a Neil Young per le sue accuse di razzismo verso le popolazioni “sudiste” americane, oppure con il clima rissoso da Far West in “Saturday Night Special”.
L’obiettivo consiste nel coinvolgere l’ascoltatore a livello emozionale e spirituale, ed è rivelatore il logo Van Zant in copertina, dove la T stilizzata a croce è rivolta verso l’alto, non certo rovesciata! Il primo singolo, “Jesus Christ”, rilasciato a fine agosto, è la miglior introduzione possibile per il nuovo album, testimonianza credibile del loro fervore religioso, dall’impronta musicale che non trascura affatto la robusta tradizione rock-blues del passato…I Van Zant sono accompagnati da un coro gospel e quando il brano sembra dissolversi, si ricompone in un crescendo di armonie vocali francamente elettrizzante. Il brano d’apertura è invece “Awesome God”, che inizia come una ballata acustica per acquistare vigore nell’emozionale refrain. “Stand Up” esibisce una vena cantautorale – come il nuovo singolo “Speak His Name” – tanto sognante quanto incisiva, con brillante contributo femminile alle polifonie vocali e Hallelujah finale.

Uno stile musicale più spiccatamente southern si riaffaccia in “Warrior”, che esibisce rock elettrico sempre sostenuto da enfasi vocale d’indubbio effetto, mentre “Why God Brought Me Here”, introdotta da una dolce melodia pianistica, conferma il marchio di fabbrica dei nuovi Van Zant, ossia i crescendo melodici che accentuano la vena spirituale dell’ispirazione, con le tastiere sullo sfondo a rimarcarla.
Ballate elettro-acustiche, retaggio di rock sudista, fervore gospel, ovvero christian music: una formula che può essere snobbata dalla critica radical chic, ma che invito gli ascoltatori di buona volontà ad avvicinare senza pregiudizi, in tempi in cui c’è urgenza di riflettere su un mondo alla deriva, dove si agita lo spettro della terza guerra mondiale.

TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS: “Long After Dark” Deluxe Edition

La mia duratura passione per un’autentica istituzione del rock americano risale alle origini, ossia all’indimenticabile album d’esordio “Tom Petty & The Heartbreakers” (Shelter) del 1976. Curioso fu l’aneddoto che la innescò…Erano anni ben lontani dalla diffusione in tempo reale su internet ma anche dai natali di MTV, pertanto occorreva arrangiarsi con i mezzi a disposizione. Ero abbonato al mensile francese Rock & Folk, e lessi la recensione del disco. Vari collaboratori della rivista erano invaghiti di heavy metal dell’epoca, elogiando incessantemente Aerosmith e Blue Oyster Cult; una frase accennava al “taglio metallico del suono” e ne fui colpito, anche perché lo sguardo insolente del leader in copertina, con giubbotto di pelle nera e cartucciera a tracolla – oltre al logo del gruppo – un cuore trafitto da una Gibson Flying V, suscitavano la mia curiosità. Mi affrettai ad assicurarmi l’LP e non me ne pentii affatto, sebbene Tom Petty fosse tutt’altra bestia! Certo, il disco esibiva un suono d’impatto, ma non circoscrivibile nei canoni heavy e la sua voce inconfondibile esulava da qualsiasi stereotipo. Nulla di problematico per l’allora ventenne ascoltatore: non ero affatto digiuno del rock sixties che influenzò gli “Spezzacuori” inoltre brani come “Breakdown”, “Fooled Again”, “Anything That’s R&R” e naturalmente la famosa “American Girl”, che suggellava l’album in chiave (elettrica) byrdsiana, mi conquistarono istantaneamente. Tant’è che acquistai senza indugi anche il secondo “You’re Gonna Get It” (fra i vertici l’irruenta “I Need To Know” e l’ipnotica “Listen To The Heart”). Poi il passaggio forzoso alla MCA osteggiato da Tom con battaglie legali in nome della sua indipendenza professionale. Nonostante i “tempi duri”, il terzo album “Damn The Torpedoes”, prodotto da Jimmy Iovine, si imponeva come il classico per eccellenza della sua discografia, inaugurato da un brano che tutti dovrebbero conoscere, “Refugee”, profondamente emozionale quanto irresistibilmente radiofonico.
L’occasione d’attualità giunge però dall’ultra-quarantennale ricorrenza del quinto Tom Petty, “Long After Dark” (novembre 1982), rimasterizzato in deluxe edition – 2 CD più Blu-Ray, doppio LP in vinile nero e colorato – in uscita il 18 ottobre (Universal). Si tratta dell’ennesimo grande album di rock U.S.A. lasciato in eredità dall’artista, scomparso nell’ottobre 2017, e dai suoi Heartbreakers.
“Straight To The Darkness”, linea melodica sempre disegnata con innata eleganza, potrebbe essere un seguito crepuscolare della stessa “Refugee”. “You Got Lucky” è rock soffice con arrangiamento di tastiere tendente all’AOR dell’epoca (e per me è un pregio), senza tradire la netta personalità dei protagonisti; un arrangiamento di quella specie si ritrova anche nel ritmo dettato dal piano di “We Stand A Chance”. “Change Of Heart” riflette l’anima rock & roll del quintetto con un refrain decisamente attraente, e lo stesso vale per “A One Story Town”, dove traspare il retaggio degli anni ’60 o per “The Same Old You”, quando Petty rende omaggio agli Stones.

La mia canzone preferita è però “Finding Out”, fonde dinamismo rock e armonie vocali davvero magiche.
In entrambi i bonus CD/LP, sono compresi dodici brani, in prevalenza inediti. Si distinguono la matrice southern di “Ways To Be Wicked”, scritta da Petty e Benmont Tench ma incisa in origine dai Lone Justice (1985) ed una sequenza di brani registrati per la televisione francese; oltre alle citate “Finding Out” e “Straight To The Darkness”, segnaliamo “Stories We Could Tell”, intensa ballata westcoastiana in chiave elettro-acustica. Un plauso anche al vibrante mid-tempo di “One On One” e alla versione di “Wild Thing” dei Troggs, resa meno ruvida dai flussi di tastiere. Non altrettanto caratteristica la cover di “Never Be You”, successo di vertice di Rosanne Cash, figlia dell’eroe country Johnny. Ma è un dettaglio.

4 Commenti

  • Paolo Migliardo ha detto:

    Ciao Beppe
    Grazie per aver portato alla nostra conoscenza un ottima band come i Daytona.
    Purtroppo anche i siti specializzati non hanno il tuo fiuto…
    D’altronde chi scrisse per primo in Italia di Queensryche,Manowar,Guns e 1000 altri gruppi?

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Paolo, sei gentile. Quelli erano altri tempi, per la nosta musica preferita ed anche per me. Tornando a scrivere sul blog volevo semplicemente ripristinare il rapporto di fiducia che si era instaurato con i lettori, che a quanto pare non mi hanno dimenticato. Grazie per quei ricordi.

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe. House Of Lords ha colpito positivamente anche me, e come per Saints And Sinners, la collaborazione con un mago delle tastiere ha portato grandi benefici. Che gli HOL non avessero un keyboard player fisso ed importante, era qualcosa di “anomalo”, contrario alla loro stessa “natura” originaria. Inoltre Mark è (stato) pure un hit maker, quindi meglio ancora. Ascolterò molto volentieri anche i Van Zant bros, a mio parere Johnny ha fatto rivivere una bella fase agli Skynyrd, anche se questo disco sarà sicuramente meno “elettrico”. Riguardo a Petty, io lo scoprii ai tempi di Full Moon Fever ed andai poi a ritroso: condivido assolutamente la tua stima nei suoi confronti e verso Long After Dark.
    Grazie Maestro.
    Alessandro

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro. Sicuramente Mangold sarebbe stato un valore aggiunto in qualsiasi formazione, ed è un degno erede di Giuffria di cui gli HOL avevano bisogno. Dei Van Zant – l’album uscirà in novembre – ascolta i singoli che ti prospetteranno qualcosa di diverso rispetto al loro background. Tom Petty non si discute, rimarrà sempre nei nostri cuori, poi ogni preferenza nella sua discografia è lecita. Grazie della tua costante attenzione.

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