Iniziando a collaborare ad una rivista di musica rock al tramonto dei ’70, pur abbagliato dai riflessi scintillanti del “nuovo metallo”, ho avuto subito chiaro un presupposto. Dopo più che decennale militanza nelle vesti di appassionato acquirente di LP, il mio intento era: conoscere il passato, approfondirlo, per capire il presente e a volte, immaginare il futuro.
Si parla ovviamente di competenze definite, l’onniscenza non è virtù dei comuni mortali, anche se c’è chi presume di emettere verdetti irrefutabili, e se non vi allineate siete lacunosi. Nel corso della mia intensa attività su Rockerilla negli anni successivi, ho elaborato un prima serie retrospettiva (vista la favorevole accoglienza riservata dal pubblico a precedenti monotematici su gruppi seventies), ovvero: Hard Rock, Unknown Classics (aprile 1984), inaugurata dagli High Tide e con pesanti infiltrazioni prog (EL&P, Quatermass). Sul primo numero del fortunato supplemento Hard’n’Heavy (gennaio 1985) abbiamo addirittura esagerato: quattro paginone di mirabilie dei tempi andati, prevalentemente finite nell’oblio, riunite sotto il titolo High Life In Ruins. Così, quando Giancarlo in versione gladiatore romano fondò Metal Shock, concordammo fin dal primo, “leggendario” numero con Ozzy in copertina (aprile 1987), l’istituzione di una rubrica, Shock Relics, dedicata alla “vastissima tradizione precedente alle conquiste hard’n’heavy degli anni ’80”, con l’intento di stimolare anche i lettori più giovani all’approfondimento di tale lezione.
Le due pagine dedicate ebbero regolare scadenza mensile, me ne occupai a lungo ed ottenne effettiva risonanza; infatti, quando cedetti il testimone dopo qualche annetto, la rassegna fu impugnata da altri autori. La mia linea era prevalentemente focalizzata su meno note formazioni da culto e l’ho portata avanti negli anni ’90, sia su Thunder, sia ereditando un’altra rubrica, Perfumed Garden, su Rockerilla, specifica per il crescente mercato delle ristampe di irreperibili classici underground, o comunque fuori catalogo.
Oggi, mi è sembrata una buona idea ripresentare una (prima?) serie di Shock Relics tratta direttamente dall’archivio dell’epoca, con limitate, opportune modifiche, che non alterano lo spirito ed il testo originale.
In più, ho “rivisitato” gli stessi dischi (scelti con criterio non di importanza, ma di differenza stilistica e di tempi l’uno dall’altro), con un commento strettamente attuale: uno sguardo rivolto ai tempi che inesorabilmente si allontanano, quando non era una moda né un fattore commerciale riscoprire i dischi del passato, e nessuno ipotizzava le ristampe dei più famosi in versione super de luxe.
BLUE CHEER: “Vincebus Eruptum” (Philips, 1968)
Liberamente tratto da Metal Shock n.16, febbraio 1988
È oggi San Francisco la patria del più heavy di tutto il metal (mi riferivo al thrash della Bay Area – n.d.a.) ? Se è così, non si tratta di un’assoluta novità, poiché accadde anche alle origini del sound durissimo e superamplificato.
Nel 1968 la West Coast del flower power assisteva attonita all’esordio discografico dei Blue Cheer, forse la prima heavy metal band della storia, giunta in anticipo anche rispetto ai profeti inglesi che le sottrarranno le massime attenzioni del popolo dedito all’impatto virulento.
Immaginate tre ossessi che agitano le loro lunghe criniere sotto l’influsso delle droghe mentre sommergono di watts il classico di Eddie Cochran “Summertime blues”, massacrato dalla rabbrividente distorsione della chitarra e dal cacofonico, convulso agitarsi della sezione ritmica.
Questi erano i Blue Cheer, figuri tanto “teneri” da affidare il loro management agli Hell’s Angels di Frisco, finendo per essere banditi da una mecca del rock come il Fillmore West perché giudicati troppo assordanti.
La line-up originale, che firmò i lavori più famosi, era un power-trio formato da Dickie Peterson, basso e voce, Paul Whaley, percussioni e dal chitarrista Leigh Stephens, un enfant prodige capace di dare lezioni a chiunque in tema di chitarra distorta ed uso del pedale wah-wah, una tecnica allora molto sfruttata.
L’immortale debut-album “Vincebus Eruptum” viene trainato dall’insospettabile successo del singolo “Summertime Blues”, che irrompe nelle classifiche U.S.A.: fu la versione dei Blue Cheer, e non viceversa, ad ispirare un analogo trattamento di quel classico agli Who, di cui resta ben più celebre la rilettura nell’album “Live At Leeds”.
Quella dei Blue Cheer è forza bruta ma non ignoranza, il loro suono deriva dal R’n’R e dal blues elettrico professato dalle grandi formazioni triangolari in voga sul finire dei Sixties, però lo stile di “Vincebus Eruptum” è definitivamente (proto)heavy metal per il poderoso amalgama degli strumenti, uniti e commisti in un’urtante valanga sonora. L’andatura galoppante di “Summertime Blues”, in apertura, ne è la più evidente dimostrazione: dalla cortina sonora satura d’elettricità emerge solo occasionalmente la tensione esasperata della chitarra del killer Leigh Stephens.
“Rock Me Baby” mostra le stimmate del blues dopo un bagno nell’acidità e nella violenza: affiorano similitudini con grandi contemporanei della Costa Est come MC 5 e Stooges, e soprattutto la voce di Dickie Peterson è paragonabile a quella di Rob Tyner, con maggior raucedine e altrettanta alienazione.
Dove il suono va letteralmente in agonia è in “Doctor Please”: voce sopraffatta dall’angoscia, lungo excursus strumentale guidato dalle paranoiche deformazioni della chitarra solista, con il rimbombo disturbante del basso e l’esagitata azione della batteria. Sul retro, l’impatto di “Out Of Focus” è canalizzato in un tipico riff heavy rock, mentre in “Parchment Farm” c’è ancora spazio per una durissima improvvisazione strumentale: di lì a poco i Grand Funk sbancheranno il mercato U.S.A. con una formula simile. I Blue Cheer cavalcano incessantemente la tigre del “metallo che pesa” fino al sesto atto, “Second Time Around”, ed il disco si chiude improvvisamente sull’ennesimo effetto di chitarra deragliante: come se solo un taglio operato in cabina di regia potesse porre fine a questo calvario di suoni straziati, che risulta a tutt’oggi controindicato per timpani non avvezzi ad un’espressione più che heavy. Stento ad immaginare quale eccidio fonico avrebbe realizzato “Vincebus Eruptum”, se in luogo di una produzione ormai quasi ventennale, fosse concepito con le risorse tecniche dei giorni nostri.
Dopo questo esordio, i Blue Cheer si ripeteranno allo stesso livello sempre nel ’68, con il secondo LP “Outside Inside”, che include a sua volta una fragorosa cover version, quella di “Satisfaction” degli Stones, insieme ad altri classici del trio californiano come “Sun Cycle” e “Babylon”.
Probabilmente non potevano resistere oltre, a tali indici di pressione sonora, così nel terzo album “New! Improved!”, l’ultimo capolavoro del gruppo, fa la sua comparsa l’organista Ralph Burns-Kellogg, che poi entrerà stabilmente nei Blue Cheer. Leigh Stephens vi presenzia per una sola facciata, poi lascerà per fondare un altro gruppo durissimo, gli Aspen, che però non troveranno soluzioni contrattuali.
La sua ascia viene raccolta dall’ex-Other Half, Randy Holden, che fa in tempo a suggellare un brano eccezionale e persino sognante, “Piece Of Mind”, prima della decadenza dei Blue Cheer.
Infatti nei tre album successivi la band si allontana dalle matrici da essa stessa generate, senza approdare a nulla di risolutivo. La sua carriera discografica si chiude nel 1970, prima del clamoroso ritorno di 15 anni dopo: “The Beast Is Back” annuncia il titolo del nuovo LP su Megaforce (1985), naturalmente all’insegna dell’heavy metal.
Un commento, oggi
“Vincebus Eruptum” è un conclamato classico, scalò la classifica di Billboard fino all’11° posto, nonostante la sua natura tutt’altro che accessibile. Il mio elogio a quella Reliquia del passato è stato scritto quando il grunge non era ancora esploso, e nemmeno si parlava di stoner rock. Invece l’heavy metal risultava pienamente in auge, e proprio a metà anni ’80 Jon Zazula (mentore dei Metallica!) rilanciava i Blue Cheer con la sua etichetta-cult Megaforce.
Ma di lì a poco anche il movimento di Seattle sarebbe diventato dominante, e al passaggio di testimone fra i due decenni (1990), gli antesignani di San Francisco venivano affiancati da un profeta del grunge, Jack Endino degli Skin Yard, che produceva il loro ottavo lavoro di studio, “Highlights And Lowlives”. Sia il grunge, sia lo stoner rock rivendicheranno a loro volta l’eredità dei seminali californiani. Anzi, il nuovo orientamento verso un suono a tutto volume, ma più retrospettivo ed “imperfetto” (senza la cura maniacale di tante produzioni heavy metal) renderà di palpitante attualità la lezione dei nostri. A tal riguardo, ricordiamo che un’eccellente fanzine italiana consacrata allo stoner, veniva battezzata Vincebus Eruptum proprio in onore dei Blue Cheer (collaborai anch’io per qualche tempo). Scrivendo la presentazione del doppio LP “Blue Explosion – Tribute To Blue Cheer” della Black Widow, concludevo dicendo: “nei paraggi del Terzo Millennio, l’eco del tuono Blue Cheer non si è ancora spento.” Con la scomparsa del leader Dickie Peterson nel 2009 è stato definitivamente sancito l’epilogo; ma se oggi di loro si parla poco, è perché latitano nuovi redentori del rock in grado di cantarne le gesta.
DAVID JOHANSEN: “David Johansen” (Blue Sky, 1978)
Liberamente tratto da Metal Shock n.12, dicembre 1987
Lo spunto nacque dalla retrospettiva sugli Aerosmith apparsa nel nº9 della nostra rivista (Metal Shock, novembre 1987 – n.d.a.): ripercorrendone le tappe e giungendo all’album “Draw the Line”, riferivo che era stato concepito parallelamente al primo album “solo” di David Johansen, e che i musicisti avevano fraternizzato nel corso delle sessions di registrazione negli stessi studi, i Record Plant di New York City.
Purtroppo non si verificò la prevista produzione di Joe Perry per il disco di Johansen, ma l’atmosfera esalata dai suoi solchi incandescenti è comunque pregna di tuonante rock alla newyorkese, molto aerosmithiano.
Non solo: come ben sapete, il cantante di Staten Island è lo stesso che aveva capitanato i New York Dolls con il suo inimitabile stile da “Mick Jagger straccione”, incitandoli all’azione musicale come una banda di teppisti all’assalto. Ebbene, il collegamento con l’immagine dura e scurrile dei Dolls è giustamente a sua volta sancito dall’LP; attenzione dunque…Se avete scoperto il trash-rock’n’roll nel ritorno di fuoco decretato dalla L.A. Street Scene, sulla scia degli LP di Guns’n’Roses e Faster Pussycat, recuperate questo “David Johansen”. È una reliquia che vi viene riproposta partendo da fenomeni d’attualità, ma al di là di questa legittima considerazione si tratta di un gran disco di rock americano, unico anche nella discografia di Johansen, che successivamente si sposterà verso orizzonti differenti dal rock duro.
Il Group che accompagna David in quest’esordio come solista posa superbamente come una gang di italo-americani vestiti per “uccidere” rigorosamente in nero, e si compone del terremotante binomio solistico Thomas Trask e Johnny Rao, che suonano in maniera conforme al maestri Joe Perry e Johnny Thunders, e della rodata sezione ritmica sottratta alla Staten Island Band della cantante punk Cherry Vanilla, ossia Buz Verno al basso e l’eccellente drummer Frankie La Rocka, che ritroveremo allo start di un’altra carriera solista, nell’album “Ignition” di John Waite.
Collaborano inoltre personaggi dell’entourage dei Dolls: il tastierista Bobby Blain e soprattutto l’amico Syl Sylvain, tipicissima chitarra ritmica, che si affianca a David anche come compositore e pianista. Messer Johansen infine, è semplicemente fantastico: canta come un principe della strada, con la sua voce macho, emozionante, dove si riflette un artista autentico, calato in reali situazioni esistenziali. L’album è infatti ricco di riflessioni autobiografiche: ad esempio “Donna”, una ballata dall’estrema ortodossia melodica che a detta del suo autore “non poteva proprio fare con i Dolls”; rappresenta una love song su una passione finita, che simbolicamente esprime il rammarico dovuto allo scioglimento della sua vecchia formazione.
Il cantante può finalmente dar sfogo ai suoi rancori lungamente repressi, nei confronti di chi gli negava un’opportunità contrattuale dopo la fine dei “volgari” e contrastati Dolls, ed esplode nell’eccezionale “Lonely Tenement”: le chitarre vibrano di una grandiosità epica che acquista i toni di agognata e trionfale rivincita, la voce di David risuona come investita di un’eroicità pura, senza false enfasi, su quel testo ancora simbolico, ma spietatamente realistico: “Tutto solo presso la sede del sindacato/loro aspettano che il suo prezzo ribassi/l’hanno messo con le spalle al muro/lui ha dato tutto ciò che aveva/ed essi vogliono vederlo strisciare…”.
L’eredità dei Dolls si riflette esplicitamente in brani come “Girls”, che già faceva parte del loro repertorio live e nel clima turbolento e goliardico di “Cool Metro”. Invece “Funky But Chic”, con il contributo vocale della star di colore Nona Hendryx, è rimasto un titolo-manifesto della commistione fra hard rock e rhythm’n’blues e “Not That Much” presenta come ospite d’eccezione proprio Joe Perry degli Aerosmith, che dà l’impronta con il riff teso della sua chitarra ritmica.
Per finire un altro grande episodio, “Frenchette”, la cui sognante melodia sfuma sotto le percosse di un crescendo chitarristico entusiasmante, mentre Johansen urla letteralmente la frase finale, “Let’s just dance…” trasmettendo brividi d’eccitazione con la sua istintività, divenuta totale come in un rito catartico.
Questo LP è stato gratificato di un’insperata replica nel promozionale registrato dal vivo al Bottom Line di New York nel luglio 1978: “David Johansen Group Live” è francamente uno dei più brillanti live-non ufficiali di sempre, ripresentando quasi integralmente i brani del disco in questione, più un paio d’eccezioni, fra cui spicca il remake di “Personality Crisis” dei Dolls.
A partire dal secondo album di studio “In Style”, David avvicinerà forme stilistiche più affini a Springsteen, Little Steven o Bryan Adams, ma senza troppa fortuna, nonostante la qualità artistica del personaggio, forse destinato a rimanere un “grande perdente” della storia del rock.
Un commento, oggi
“Ben oltre 35 anni dopo quella recensione, non è cambiato il finale: David Jo resta un “perdente” a livello di successo di massa, perché non si può definir che tale un artista mai andato oltre il 40° posto della classifica di Billboard (paradossalmente con il primo album a nome Buster Poindexter, suo alter ego di tutt’altro stile), ma è levitata la statura di personaggio da culto, indiscutibilmente “grande” ed ufficializzato proprio quest’anno dal documentario “Personality Crisis: One Night Only”, opera di un regista del calibro di Martin Scorsese, che finora si era speso solo per rockstar di fama planetaria quali Rolling Stones, Bob Dylan e George Harrison! Scorsese ha dichiarato di essere un fan di Johansen dall’epoca dei Dolls (1973) e che la sua musica sprigiona tutta l’energia di New York! Conclusione sulla quale non si può che concordare. Nell’ultimo numero della rinomata rivista Record Collector (ottobre) che celebra l’anno di grazia 1978, il primo “David Johansen” è inserito nei migliori 50 album dell’anno: non c’è graduatoria, solo elenco.
A mio avviso, resta un disco fondamentale per i devoti dell’hard rock’n’roll americano del suo tempo, imperdibile per chi ama Aerosmith, Kiss ante-Dynasty, The Godz e Starz.
Segnalo anche la ristampa in CD dell’energetico promo “David Johansen Group Live” (Lemon/Cherry Red 2004), che raddoppia i brani presenti su LP (18 a 9), aggiungendo straripanti cover di classici, da “Reach Out” dei Four Tops a “It’s A Heartache” di Bonnie Tyler.
REO SPEEDWAGON: “Nine Lives” (Epic, 1979)
Liberamente tratto da Metal Shock n.7, ottobre 1987
Come Foreigner, Journey, Boston, Toto, i REO Speedwagon sono sovrani dell’AOR, il rock radiofonico americano che sottomette ad un appeal commerciale i ritmi del rock duro, e pertanto sono banditi dagli headbangers oltranzisti, che dietro alla popolarità di queste superstar ravvisano compromessi ed astuzie inaccettabili.
Per lo Speedwagon dell’Illinois l’epoca della svolta soft e spesso edulcorata è però giunta in tarda età, allo scoccare del 1980, quando il calo di tensione heavy e l’easy listening di “Hi Infidelity” li catapultava al vertice delle classifiche U.S.A. Prima del boom commerciale la band aveva maturato una carriera decennale seriosamente impegnata nel battere le piste del rock’n’roll americano, con un eclettismo che le consentì l’avvicinamento alle posizioni del rock sudista e del country (il quarto LP “Lost In A Dream” fu affidato al produttore di Crosby, Stills, Nash & Young, Bill Halverson).
A sintetizzare la varietà di orientamenti e l’energia del gruppo esce nel ’77 il raccomandabile doppio LP live “You Get What You Play For” (Epic), poi il suono si sposterà chiaramente verso l’heavy rock, avidamente consumato nello spazio di un solo album, “Nine Lives” del ’79.
Anche l’immagine di copertina è tipica del rock duro americano con un tocco glamour: i musicisti posano in compagnia di conturbanti donne-pantera munite degli accessori di rito: bodies con coda, calze a rete, tacchi a spillo, ed altre piacevolezze; ma quando parte “Heavy On Your Love” (buon titolo, vero?) non è più una questione di look. I fendenti del riff sono propriamente metallici, e le saette della chitarra sostenute dall’immenso background delle tastiere e da un basso rotolante.
La musica è forte, sensuale, come le evidenti allusioni del vocalist Kevin Cronin, ormai padrone del ruolo – risolte le conflittualità del suo ingresso iniziale – mentre l’allora longilineo Gary Richrath sprigiona uno degli assoli più torridi ed eccitanti dell’annata. “Drop it” è trascinante rock’n’roll, spronato dal piano martellante del gangster Neal Doughty, alla maniera dei Legs Diamond di “Chicago”, e un pò anticipa il futuro metallo di classe.
Un paio di episodi preludono con più robustezza all’AOR del successivo “Hi Infidelity”: sono “Easy Money”, che però mantiene una solida base riff’n’roll – quasi una replica americana agli Status Quo – e la ballata “I Need You Tonight”, scandita da una soffice slide guitar. Per contro, “Take Me” è un brano potente e raffinato, da incutere rispetto a molto hard de luxe dei giorni nostri, “Back On The Road Again” è un’altra implacabile mistura di heavy rock con tastiere, e la versione di “Rock & Roll Music” di Chuck Berry è ufficializzata senza risparmio di watts.
Questo nono Reo Speedwagon è degno di figurare in ogni discografia “americana” che si rispetti, è una testimonianza della band al meglio che ci fa rimpiangere le troppo facili scelte di li a venire (in quell’epoca, l’ho detto recentemente, eravamo tutti più headbangers…- n.d.a. ).
Un commento, oggi
Mi ricollego al finale della recensione dell’epoca. La glorificazione di “Nine Lives” (omonimo del ben più celebre album 1997 degli Aerosmith) passava inevitabilmente dalla maggior attitudine heavy di quegli anni in Europa, che ovviamente coinvolgeva anche lo scrivente, ma questo non può esimerci da un’oggettiva rivalutazione di “Hi Infidelity”, non solo perché nella riedizione – con bonus CD di demos – del 30° Anniversario, è stato segnalato come il più grosso exploit commerciale del 1981 (la pubblicazione risaliva a fine novembre ’80), raggiungendo la vetta della classifica di Billboard e vendendo oltre dieci milioni di copie in America (disco di diamante!).
Difficilmente un successo di tali proporzioni, almeno all’epoca, non s’innalzava da basi consistenti. Infatti canzoni come “Keep On Loving You”, “Take It On The Run” e “Follow My Heart” restano evergreen del pop-rock ed hanno profondamente influenzato l’AOR del decennio.
Ma risalendo a “Nine Lives”, non per questo è da ridimensionare! A sua volta ha riscosso un decoroso successo – certificato disco d’oro in USA – e tuttora risulta altamente rappresentativo di una fondamentale generazione hard rock della seconda metà Seventies (1975-1979) che ha gettato le basi per il ben più fortunato pop-metal, o se preferite, hair metal – per utilizzare una definizione ricorrente – degli anni ’80. In quest’ottica “Nine Lives” non ha perso nulla del suo smalto e resta una pietra miliare di una formazione particolarmente longeva, tuttora sulla scena, nonostante la prematura scomparsa di Gary Richrath.
RECKLESS: “Reckless” (EMI, 1981)
Liberamente tratto da Metal Shock n.7, ottobre 1987
I pochi che non avevano dimenticato la grande riserva di superbi esemplari heavy che è sempre stata l’America, nell’epoca in cui era la dura legge dei conquistatori inglesi a monopolizzare l’attenzione (all’inizio degli Ottanta – n.d.a. ), conservano gelosamente nella propria collezione il primo album dei canadesi Reckless.
Naturalmente NON si tratta degli omonimi newyorkesi che hanno pubblicato il trascurabile LP “No Frills” (1987), ma di una formazione nata all’inizio del 1980 a Toronto, l’epicentro dell’hard canadese, e che curiosamente aveva cambiato il suo nome originale, Harlow, proprio per non essere confusa con un’altra band americana così chiamata.
Non poteva essere confuso invece il suo stile, che pur avvicinandosi spesso ai confini con l’heavy metal, conservava un inestinguibile senso della melodia non-edulcorata. Scaturiva dal “matrimonio” di due personalità così differenti eppur complementari come Steve Madden, un devastante chitarrista proveniente da Boston, e la platinata vocalist Jane Melanson, la Marilyn Monroe (o Dolly Parton?) del’hard rock. Jane era capace di squarciare con aperture vocali da “brivido caldo” il rovente tessuto chitarristico del classico “Victim Of Time”, oppure di adagiarsi sensualmente sull’elegante drappeggio d’ambiente di “Too Much To Bear”, un altro vertice dell’opera prima. Nell’originale line-up dei Reckless figurava anche Danny Bilan, l’ex drummer dei Moxy, ma all’epoca d’incisione del debut-album era sostituito da Gil Roberts, mentre Gene Stout (basso) completava il quartetto.
In sala di registrazione i Reckless godettero dell’eccezionale ausilio tecnico di Paul Gross, produttore dei Saga, che ha conferito al suono uno spessore inossidabile e tuttora esplosivo, con gli strumenti in netta evidenza: a beneficiare del trattamento è soprattutto la prorompente chitarra di Steve Madden, che nel singolo – ed apripista – “Victime Of Time”, suona come una bufera di metallo al cobalto, colpendo prima con un monumentale riff da Sabbath-day rivisitato, infine con un assolo fra i più emozionanti e poco conosciuti che ci sia dato ascoltare.
Estremamente peculiare è anche “Ready For Action”, dove Jane canta come una Cherie Currie (Runaways) dalla voce più matura, su una pulsante base di rock’n’roll stradaiolo alla Mötley Crüe. In “Too Much To Bear” emerge invece tutto il respiro melodico dell’hard canadese, e Steve è costretto a limitare la sua esuberanza mentre un suggestivo crescendo di tastiere fa da sfondo alla maliosa recita della Melanson.
Se “Reckless” è ancora animata da un anelito violento, le armonie tornano intriganti in “Child Of The Night” e nella conclusiva “Searchin’ For A Dream”, una vera fitta al cuore per il nostro Paul Suter (all’epoca l’insigne giornalista collaborava anche per Metal Shock – n.d.a.), che la selezionò per la compilation della Music For Nations “Stricktly For Konnoisseurs”.
E come non capirlo, basta l’indimenticabile riff d’apertura per rapirci incondizionatamente.
Purtroppo all’entusiasmo della critica non fece seguito un altrettanto fortunato responso di pubblico, e questo minò il rapporto fra Madden e la Melanson, la quale cercò senza successo di mettere in orbita una propria band.
Gene Stout (che lavorerà anche con Lee Aaron) e Danny Bilan costituiranno la sezione ritmica dell’emulazione Zeppeliniana The White, tornata agli onori della cronaca per la risonanza dovuta all’album del leader Michael White (1987).
Lazzaro-Madden era invece risorto alle soglie dell’85, con una nuova edizione più heavy ma meno caratteristica dei Reckless: incisero l’album per la H.M. America, “Heart Of Steel”, con due ex-Witchkiller (grande epic-metal band canadese) nella line-up prima di scomparire.
Un commento, oggi
Indubbiamente i Reckless sono stati una meteora, un arco non proprio di trionfo che univa la tradizione delle formazioni hard rock (americane e canadesi) “dimenticate” della seconda metà Seventies alle nuove tipologie metal degli anni ’80. Il primo album del gruppo di Steve Madden è giunto troppo presto, all’inizio del 1981, nonostante il sostegno di certa stampa specializzata inglese (Sounds) che non si limitava ad osannare il fenomeno patriottico della NWOBHM, mirando con attenzione al di là dell’Atlantico. Al punto che Paul Suter, responsabile del basilare doppio LP antologico “Striktly For Konnoisseurs” (MFN) lo presentava scrivendo: “si dice che l’erba del vicino sia sempre più verde…” alludendo al fatto che l’esplosione new wave aveva oscurato gli esponenti del rock duro in Gran Bretagna, ed i cultori di quel genere dovevano pertanto rivolgersi verso l’America settentrionale. “SFK” includeva classici allora misconosciuti di Angel, Starz, Legs Diamond, Moxy, Trillion (fra gli altri) e degli stessi Reckless, a conferma della reputazione guadagnata dall’omonima opera prima. Ma nonostante la formula anticipatrice di tendenze eighties fra heavy rock ed appeal melodico, il quartetto di Toronto non ha avuto fortuna, finendo licenziato dalla EMI.
Peccato la rapida scomparsa dalle scene di Jane Melanson che avrebbe meritato almeno un’altra chance, mentre Steve ha insistito a lungo (con Marshall Law e Prime Rockers) senza risultati eclatanti. Ma provate a riascoltare “Victim Of Time”: non ha perso nulla della sua forza espressiva.
DARK STAR: “Dark Star” (Avatar, 1981)
Liberamente tratto da Metal Shock n.19, marzo 1988
Contrariamente a quanto suggerirebbero nome ed iconografia di copertina, i Dark Star non incarnavano l’ennesimo caso di simpatia per le arti magiche e per il lato oscuro del metal. Nel suo multiforme estrinsecarsi, la NWOBHM ha prodotto anche ibridi interessanti come questo, che pur partendo da solide matrici di heavy rock britannico (i Dark Star provenivano da Birmingham, la città che ha dato i natali a Black Sabbath e Judas Priest), le contaminava con riferimenti all’hard americano, benché solo raramente rigonfio di tastiere.
Occorre aggiungere che non è comunque necessario oltrepassare l’Atlantico per spiegare il versante pomp della loro ispirazione. Infatti, quando suonarono in Italia da support-band all’eroe di Woodstock, Alvin Lee, non esitarono a rivelarci la stima che nutrivano verso i concittadini Magnum.
In origine i Dark Star si chiamavano Berlin, ma all’inizio del 1980 assumevano il loro monicker definitivo per incidere il primo singolo indipendente; il brano conduttore, un incalzante classico NWOBHM con echi di UFO e Iron Maiden,”Lady of Mars”, viene selezionato per la seconda kermesse di “Metal for Muthas”, dove i Dark Star contendono ai Trespass la palma dei migliori. Questa prova di valore convince l’etichetta Avatar a scritturarli, e nel maggio ’81 esce l’omonimo LP d’esordio, a mio avviso una delle più originali e sottovalutate opere della resurrezione heavy metal inglese.
Il songwriting è illuminato e godibile ad anni di distanza, e questo fa la differenza rispetto a tante opere minori dell’epoca, ma il sound non tradisce il fervore ed il tipico punch britannico dell’heavy rock di qualità. “Kaptain Amerika” non ha proprio nulla da invidiare ai migliori Def Leppard, con quei solidi riffs intagliati efficacemente dai due chitarristi Dave Harrison e Bob Key, e con le linee vocali seriamente indiziate di contagio anthemico.
Il cantante Rik Staines, giovane e ricco di feeling come il ben più celebre Joe Elliott, si conferma trascinatore anche nella rampante “Backstreet Killer”, e dopo aver palesato tutta la loro forza d’urto, i Dark Star si rilassano in una raffinata ballata semi-folk, “The Musician”. C’è naturalmente la più gotica “Lady of Mars”, che si discosta dalla media stilistica dell’album, mentre la seconda facciata è inaugurata da un bollente pop-metal che con più fortuna avrebbe potuto far saltare il mercato americano: si chiama “Louisa” e se non vi mette voglia di scuotervi preoccupatevi per la vostra salute.
Davvero i Dark Star non falliscono un colpo, “Rockbringer” manifesta ancora l’impatto emozionante della band, e “Lady Love” prosegue benissimo sulle stesse coordinate. Il tanto proclamato pomp-rock del quintetto emerge di fatto solo in chiusura, nelle aeree armonie della splendida “Green Peace” dove peraltro l’eccellente assolo di chitarra è quasi Floydiano. Lasciamo stare i raffronti con Angel e Styx, i Dark Star reggono valorosamente senza scomodare questi signori.
Un anno dopo però Dark Star congelavano i loro sogni di gloria; si sono ripresentati nell’87 con un album deludente per la FM, “Real To Reel”.
Rimasero inesorabilmente patrimonio di pochi.
Un commento, oggi
Da una meteora all’altra, stavolta la Stella Oscura ha irradiato con la sua scia il cielo della Terra d’Albione.
Eppure il quintetto di Birmingham è stato sintomatico di una tendenza presto in atto anche nella resurrezione “metallica” inglese, nell’accentuare un’ispirazione melodica di stampo prettamente americano. Dopo i primi, violenti colpi ben assestati, soprattutto Def Leppard, ma anche Tygers Of Pan Tang, persino i Saxon di “Crusader”, senza dimenticare Girl o Wrathchild, già partiti da presupposti glam-metal, avevano rivelato quest’attitudine.
Certo i Dark Star sono rimasti un onorevole gruppo di “nicchia” per cultori della NWOBHM, movimento da cui prendevano in parte le distanze, essendo contrari alle etichette di genere. Raccolsi personalmente questa dichiarazione – riportata sul numero di Rockerilla del dicembre 1981 – al Rolling Stone di Milano, quando vennero in tour al seguito di Alvin Lee (un gentleman, riconobbero!). Altrettanto certo è che devono la loro pur ristretta notorietà all’esplosione della “nuova onda” heavy metal; per i collezionisti di quella scena resta un miraggio dalla quotazione imprecisabile il loro primo EP 12” (tre brani) autoprodotto su etichetta Steel Strike nel 1980, di cui sono sopravvissute rarissime copie. Non a caso il brano guida è il loro classico da culto “Lady Of Mars”, poi ripubblicato dalla Avatar. Dopo gli auspici favorevoli dell’esordio, per loro – come s’è detto – il secondo album “Real To Reel”, non all’altezza delle aspettative, ed una fine anonima.
Grandissimo Beppe, Fulvio (in particolare) e gli altri lettori del blog mi hanno praticamente “rubato” le parole di bocca ed io non saprei esprimere meglio i sentimenti e le emozioni suscitate da questo articolo che mi ha riportato ad una adolescenza musicale in cui il tempo era scandito dall’uscita dei tuoi pezzi e dalla successiva avida ricerca delle sacre reliquie da te mirabilmente illustrate! Solo per restare ai dischi in questione, quanta fatica per mettere le mani sugli album di David Johansen e dei Reckless! E che colpo al cuore la citazione di Strictly For Konnoisseurs (che ancora fa bella mostra nella mia discoteca, pur se posseggo praticamente tutti gli album rappresentati)! che dire? hai ragione che nessuno possiede l’onniscienza, ma in campo hard rock nessun altro è più vicino di te ad averla, non smettere mai di condividerla con noi! grazie Beppe!
Eh, “quasi omonimo” Giuseppe, il tuo intervento stuzzica la mia vanità, e ti ringrazio perché complimenti sinceri fanno bene allo spirito. Preferisco però soffermarmi sulla tua giusta attenzione verso “Striktly For K”. Il bello di un’antologia così è che ne ascoltavi le selezioni e subito ti veniva voglia di accaparrarsi l’album da cui erano tratte. Poi succedeva come a te (nel miglior dei casi) che uno finiva per possedere tutti gli LP in questione! Quel che mi è piaciuto di questo remake di Shock Relics a distanza di decenni, è che ho potuto condividere e rivivere con tanti di voi (anche nei messaggi personali di chi non ama esporsi sul blog) la passione per quei tempi e quella musica. È stato molto bello, quindi un particolare ringraziamento a chi, a beneficio di tutti i lettori, ha voluto esprimere in questa sede il proprio interesse a riguardo. Ciao!
Ciao Beppe,
Non posso che unirmi al coro di ringraziamenti per il tuo fondamentale supporto in tutti questi anni.
Chi non ha vissuto il periodo può solo immaginare ma non completamente capire cosa volesse dire poter leggere i tuoi articoli e le tue recensioni 35 o 40 anni fa: un faro nella nebbia…in assenza degli odierni e ridondanti canali di informazione erano l’unica garanzia per un acquisto sicuro. Leggevi e sapevi già che poi avresti ascoltato esattamente quanto ti eri immaginato dopo la lettura.
Certo, poi… e senza sapere esattamente quando, perché iniziava la caccia al disco tra i negozi più forniti in città ed i vari “mail order”.
Anzi a dire il vero per me che abitavo in un piccolo paese la caccia iniziava già per reperire Rockerilla, altro che i dischi in esso recensiti.
Tutto questo aveva però un fascino particolare ed irripetibile: ricerca, attesa, desiderio, la puntina che scende e che finalmente rivela il tutto in anteprima assoluta.
Ora è tutto diverso ma siamo ancora qui a parlarne e, soprattutto, a poterne parlare ancora con te.
Ancora grazie, di cuore!
Un saluto
Ciao Fulvio, le tue parole sono toccanti, perché sono davvero lo specchio di un’epoca e rappresentano in modo personale un tuffo nel passato. Per questo mi è sembrato di riviverne alcuni momenti ma non perché mi hai reso protagonista (ovviamente fa piacere). Penso anch’io che sia difficile immaginare quel periodo per chi non l’ha vissuto. A mia volta, grazie di cuore.
Ciao Beppe non finirò mai di ringraziarti con le tue splendide rubriche mi hai fatto conoscere grandi gruppi e musicisti di altissimo valore che senza la tua competente divulgazione sarebbero davvero finiti nell’oblio grazie davvero per avermi aiutato a creare una così bella cultura musicale keep on
Ciao Stefano, mi ricordo di te come assiduo “cacciatore di piste discografiche” negli anni 80, quindi ce l’avresti fatta comunque. In ogni caso, grazie a te e a chi si ricorda del sottoscritto come “guida” per la ricerca…È un riconoscimento che non tutti ricevono, specie a distanza di tanti anni.
Ciao Beppe. Anche io, come Fabio, mi sono “fatto le ossa” sfogliando le tue “reliquie/delizie” su Metal Shock. Ricordo perfettamente, per citare Giancarlo, quanto cercare certi album era un’impresa che richiedeva pazienza, agganci giusti, ed un’esborso economico non indifferente. Oggi, rispetto ad allora, è rimasto solo l’esborso economico, se possibile ancora più cospicuo (business, appunto). Tra tutti quelli citati nell’articolo, dovessi sceglierne uno solo, sono legatissimo all’album dei Reckless. Ma ovviamente si tratta di una cosa soggettiva.
Ciao Alessandro, grazie per le conferme che mi dai. Anche tu applaudi questi Reckless, che proprio ieri sera (5 ottobre), nel corso dell’appuntamento mensile con Linea Rock su Radio Lombardia, avevo scelto per rappresentare l’articolo con un raro video di “Victim Of Time”. Questo accadeva prima che ricevessi i vostri commenti, che menzionano in serie il gruppo canadese. Una bella sorpresa, quando pensavo di esporre i più sconosciuti della serie…
Ciao Beppe , l’argomento che hai trattato è uno dei più belli che potessi scegliere perché grazie a te e i tuoi scritti passati nelle varie riviste, soprattutto MS ,ho scoperto e valutato dischi e gruppi che avevo solo sentito nominare e da lì ne ho comreso l’importanza storica per l’evoluzione del genere apprezzando ciò che è venuto prima di quello che in quel periodo era il mio gradimento.
Ed è secondo me quello il fine perché in genere i neofiti tendono a non considerare il passato ritenendolo poco interessante e sorpassato o peggio vetusto in relazione a quello che è il suono attuale, non riuscendo a capire quale poteva essere l’impatto all’epoca di dischi come quello dei Blue cheer per esempio.
Grazie a te ho anche riscoperto e non credo solo io dischi e gruppi che non meritavano di essere condannati all’oblio della memoria,e detto per inciso personalmente non ho mai apprezzato più di tanto i gruppi con voci femminili..beh quello dei Reckless è uno dei pochi che mi entusiasmano veramente ed è un peccato che sia passato inascoltato, tanto più che non l’ho mai visto inserito nelle varie polls dei migliori female records dai vari sedicenti esperti..
Ciao Roberto, dal come ti dichiari sei l’esemplificazione del risultato che mi sarebbe piaciuto ottenere occupandomi di queste Relics (usando il termine ricorrente): stimolare appassionati propositivi al recupero di materiale discografico significativo e non necessariamente di dominio pubblico. Sorprende positivamente questa diffusa attenzione verso i Reckless, che non credevo fossero tanto considerati: a me piacciono le voci femminili, peccato che Jane (anche da te apprezzata, a differenza di altre) sia scomparsa dalla scena. Grazie dell’opinione.
Ciao Beppe, Shock Relics rubrica a dir poco mitica! Era una delle prime cose che leggevo sfogliando M.S., ma ti seguivo in queste retrospettive sin dai tempi di Rockerilla e, se non ricordo male, il grande disco di Marcus era da te stato riproposto per ben due volte ( Rockerilla e M.S. ), d’altronde come si fa a dimenticare un disco del genere? Tra quelli esposti da te in questo articolo sono particolarmente legato ai Reckless. Sul fatto che sia di moda o meno recuperare dischi storici, dico semplicemente che uno dovrebbe aver vissuto le uscite ‘in diretta’, altrimenti rischia quello che chiamo appiattimento storico. Un caro saluto e continua a deliziarci!
Ciao Fabio, anche non conoscendoti è evidente che sei un appassionato di lungo corso, altrimenti non ricorderesti con tanto fervore Marcus (si potrebbe ipotizzare un non c’è 2 senza 3…) e Reckless. Risalendo a quei tempi può apparire paradossale, ma quanti oggi rievocano questi artisti? A chi può interessare? Io non posso che rallegrarmi del fatto che ci sono esperti di settore che plaudono questo genere di recuperi. Quindi, tante grazie.