Le radici molteplici del nostro rock meritano approfondimento.
Nel 1975 ero un quasi ex-teenager che al di fuori dell’hard rock e del blues accettava pochissime eccezioni. Una potete immaginare facilmente quale fosse, se mi conoscete. Però devo ammettere che la bellezza dei sessanta appena finiti e la meraviglia di quegli anni settanta mi spingeva a ricercare tutte quelle tracce di una storia coloratissima di cui, per forza di cose, mi ero sicuramente perso molti segnali.
Cerchiamo di essere onesti fin da subito : io sono fermamente convinto che non esistano i tuttologi in musica. Chi abbia il coraggio di sentirsi tale mente a se stesso e a chi lo stia ad ascoltare. La musica popolare ha così tante sfaccettature e mescolanze, radici e deviazioni che non solo non è possibile fisicamente riuscire a stargli dietro…nemmeno dedicandogli la propria vita per intero…ma non è neppure possibile saperle gustare ed approfondirle, imparando anche ad amarle tutte. Non mi fate fare nomi, sarebbe sgradevole, ma avrei parecchi esempi da elencarvi e non mi parrebbe carino mettermi a polemizzare in modo da dar vita a una faida senza più fine.
Perché chi si sente tuttologo, non solo spazia dai Beatles a Davis, dalla Bonzo Dog Band ai Voivod, da Hawkwind a Bathory, a Coltrane, a Simon e Dylan con la medesima naturalezza con cui ordina un caffè al bar, ma è pure convinto di poterne dare giudizi trancianti, magari avendo trent’anni appena compiuti o pensando di essere una fonte certa solo perché si è avuto il coraggio infame di lordare pagine web con sedicenti enciclopedie di riferimento… dai, che con un po’ di sforzo, senza far nomi, ci potete arrivare da soli…
Così, vi dicevo, ero e resto assolutamente consapevole che, nonostante una età non più verde, ed avendo avuto la fortuna di crescere ed essere influenzato dalla musica più bella del mondo, quella della mia generazione, ho la certezza di essermi perso ugualmente molto. E qualsiasi tentativo io possa continuare a fare per eliminare certi vuoti, non riuscirò mai…in tempo… a colmarli. Ma torniamo a quel 1975.
Ricordo perfettamente che passando davanti alla vetrina di un negozio della mia città che rappresentava una tappa obbligatoria e quotidiana per sbavare davanti alle mille cose che sfoggiava dietro un centimetro di vetro infrangibile, venni colpito da un cofanetto che vantava un titolo ed una immagine per me affascinante : Electric Muse, The story of folk into rock. Il disegno di copertina era quanto di più stimolante per chi aveva voglia di…andare oltre. Su un ponticello immaginari menestrelli medioevali, carri in legno, dame campagnole attraversavano suonando strumenti d’epoca. Nell’acqua del fiumiciattolo le loro immagini riflesse erano rappresentate da musicisti rock che con strumenti e vestiti moderni ne riprendevano le movenze, a testimoniare che le radici folk erano speculari a quelle rock che io stavo vivendo.
I nomi di alcuni musicisti contenuti nella raccolta mi erano noti, alcuni sconosciuti erano e sconosciuti restano a distanza di 46 anni, a riprova che nonostante la buona volontà, difficile resta conoscere e approfondire tutto. Ricordo che pagai quel box di quattro dischi 12500 lire, che recuperai con difficoltà dopo essermi assicurato che i miei sforzi trovassero ancora quell’unica copia lì, in vetrina ad attendermi. L’ascolto fu però un delusione. I miei gusti erano ancora troppo rozzi e poco propensi a seguire l’evoluzione che dal folk irlandese, celtico, scozzese portava ai Fairport Convention o ai Traffic, ma giuro che provai, provai a lungo. Poi misi da parte quel cofanetto per molti anni. Ogni tanto un nome riaffiorava, o un altro ne incontravo per strada ed andavo a sbirciare dentro al libretto interno, alle sue note, alla musica.
La consapevolezza di una connessione che andava ben oltre quei quattro pezzi di vinile iniziò ad emergere quando mi resi conto che molto altro che semplici indizi si nascondevano dentro alla musica che ascoltavo ed amavo. Così Paul Simon, Bob Dylan, Thin Lizzy, Jerry Garcia e i Dead, i Quicksilver, i Jefferson, Traffic, Zeppelin senza contare le dozzine di artisti dichiaratamente folk rock… i Lindisfarne, i Fairport Convention, Incredible String Band e altre dozzine, mostravano di avere non solo nelle radici ma nei geni della loro musica, elementi di musica folk.
Dimenticatevi internet e mettetevi nei panni di chi volesse andare oltre le fesserie che potevi leggere sui giornali dell’epoca : non avevi speranze. Così la mia fortuna ebbe un nome ed un cognome irlandese : Rory Gallagher. In un modo assolutamente casuale, così come mi era accaduto con Bob Weir…e questo credo di avervelo già raccontato… venne fuori una domanda sulle canzoni acustiche che lui sceglieva di suonare nel mezzo di un concerto rock. E fu lui, reso ciarliero dalla voglia di parlare di musica e dal Four Roses, che mi dette gli elementi per riflettere, in seguito, su quella connessione che avevo chiaramente percepito un tempo ma che non avevo saputo collegare.
Cosa c’era, prima della musica pop in circolazione ? C’erano le orchestrine che vestite tutte nel medesimo modo, suonavano arie popolari nelle feste, nelle occasioni di ritrovo, alle grandi riunioni. E quelle arie cosa erano se non musiche della tradizione popolare irlandese, scozzese, inglese ? Musiche da suonare intorno a un fuoco al ritorno dai campi, racconti in rima che diventavano canzoni se si aveva in mano un violino, un flauto, una chitarra acustica, racconti di paese di vicende d’amore, di tradimenti, di amori non corrisposti o contrastati, racconti della vita di campagna, sugli animali ed i raccolti, sulla povertà e ricchezza dei nobili, racconti di sofferenza e sopravvivenza, di lavoro che ti teneva lontano dalla persona amata. Storie e vicende che si tramandavano di generazione in generazione, che poco alla volta mutavano con l’aggiunta di uno strumento e l’adattamento a testi che servivano a ricordare intorno a un fuoco gli accadimenti del tempo.
Avete presente i canti del Maggio toscano o delle mondine nelle risaie, le canzoni popolari della musica, quella vera, napoletana ? Ecco questi erano i diretti corrispondenti anglosassoni.
E Rory raccontava, aggiungeva nomi e canzoni e poi spiegava come fossero stati loro, per primi, a colonizzare le Americhe. Perché in fondo i coloni americani non erano altro che gli inglesi che erano andati a cercare fortuna altrove ed avevano portato con sé violino, tamburello e mandolino e che, diventati mandriani e coloni, avevano solo adattato le proprie vecchie strofe alla nuova terra. Perché lì c’erano da raccontare nuove storie. Ecco come erano nate le canzoni country statunitensi, da lì, dalla tradizione, evolute nelle varie correnti…perché l’America era grande, immensa, piena di avvenimenti e la canzoni erano il modo di tramandarle. Rappresentavano i giornali del tempo.
Facile da capire no? Più difficile farlo per un italiano, che non aveva mai voluto, non saputo, fare un parallelo tra le canzoni napoletane, le canzoni del maggio toscano, i canti delle mondine, le canzoni sacre siciliane : quelle le nostre radici popolari che avevano dato vita alla nostra musica popolare fino a che non avevamo imparato ad ascoltare le canzoni pop anglosassoni e a tradurle facendo finta di averle inventate…una storia che un giorno dovremo approfondire.
Certamente, questa una versione non breve, ma brevissima, dell’evoluzione del folk al rock con il passaggio ed il rimbalzo tra le due sponde degli oceani della matrice anglosassone. Ma per me era sufficiente. Diciamo che mi serviva da spunto per ricercare gli indizi un po’ alla Poirot. Ma senza i baffi.
E seguendo il famoso detto di Sherlock Holmes…”se vuoi nascondere una cosa, mettila in evidenza dove non la noterà mai nessuno”… iniziai a vedere con lucidità tutte le connessioni che avevo mancato. Che Dylan nei suoi primi album, avesse saccheggiato la tradizione folk e le versioni di artisti già in circolazione, mi era noto perché avevo divorato la biografia di Anthony Scaduto. D’altra parte undici dei tredici pezzi che componevano il suo esordio erano tradizionali o brani altrui; alcune versioni, poi, eseguite sullo stile degli autori originali. E se nel secondo disco, grazie alla presenza della fidanzata del tempo, aveva già elaborato una coscienza sociale e politica, mi stupivo che Girl From The North County, un brano che adoravo, fosse sostanzialmente sovrapponibile alla Scarborough Fair che avevo conosciuto da Simon and Garfunkel : la situazione del tipo che suggerisce all’amico che sta andando in un luogo dove vive la sua vecchia fiamma, di salutarla per lui che ne è sempre, evidentemente, innamorato era identica; anche se in Dylan il liricismo e la poesia del testo era toccante. E il brano di Simon era un tradizionale. Ma di vedere riaffiorare il cadavere di quel brano nella bellissima, delicata, commovente If You See Her, Say Hello, proprio nel disco del 1975, Blood on the tracks, non me lo sarei aspettato.
E poi altri indizi, altre tracce.
Ascoltata la Shady Grove dei Quicksilver, annata 1969, era impossibile non collegarla alla versione di Jerry Garcia , di molto più recente che, seppur con testi differenti, ne ricalcava la medesima estrazione. E che a monte non poteva non riportare come minimo nella melodia alla Matty Groves dei Fairport Convention, una lunghissima ballata con classica storia di adulterio e tradimenti, con i classici mariti che ritornavano a casa nel momento sbagliato su indicazioni dei servi ciarlieri. E lì, nella Matty Groves cantata dalla melodiosa e indimenticabile voce di Sandy Denny, stava la chiave di quello che mi era stato messo sotto il naso. La canzone aveva chiare radici scozzesi ed un classico nome da ballata intorno al focolare, Little Musgrave and the Lady Barnard, che nel traversare l’Atlantico si era trasformata in Matty Groves, per ritornare indietro con quel nome e quella vicenda ed essere nuovamente ripresa dai Fairport.
Andando oggi ad approfondire nei meandri del web, è facile trovare mille possibilità di individuare ulteriori connessioni, come una intera strofa della canzone risalente al 1600 scozzese, e volendo è possibile anche confrontare le differenze del testo dovute al passaggio di zona in zona, ma ciò che affascina è la incredibile attualità delle esecuzioni e della musica.
Lo so bene : non è questo il modo di banalizzare e circoscrivere con eccessiva facilità il lungo passaggio dalla tradizione popolare cantata al nostro musicare odierno, ma non è questo il luogo per filosofeggiare e neppure tentare di dare precise indicazioni circa il passaggio dal folk al rock. Qui si vuole semplicemente gettare un seme, così come venne fatto occasionalmente con me, troppi anni fa, e stimolare una ricerca ed un ascolto di musiche e vicende che probabilmente non avreste mai scelto di approfondire. Eppure anche i rocker disattenti avrebbero dovuto avere sotto il proprio naso la possibilità di riflettere…la Whiskey in a Jar dei Metallica, un classico ripreso dalla versione dei Thin Lizzy, altro non è che una antica cantilena scozzese, dove un carcerato ripensa alla sua Molly, al furto operato nei riguardi di un tal Capitano Farrell e che viene ambientata di volta in volta in diverse località dell’Irlanda e che ha lontane radici nella tradizione locale, così come le aveva la famosissima John Barleycorn dei Traffic, la lunga storia del Signor Chicco d’orzo, quella che pare una promessa di un omicidio, che sembra la vicenda di un uomo quando in realtà si sta raccontando la filiera della nascita del Whisky. Una canzone che difficilmente vi sarà sfuggita e che anch’essa viene fatta risalire alla tradizione del sedicesimo secolo. Una storia narrata con una dimestichezza del testo da far pensare che sia derivata da uno scritto nobile e poi tramandata sotto forma di canto.
Per farla breve perché sarebbe presuntuoso sperare di racchiudere in poche righe trattati sulla evoluzione della musica popolare e non sarebbe neppure giusto banalizzarla, direi che nella nostra musica siano racchiuse storie e vicende che sarebbe doveroso approfondire. Non tanto per il piacere della scoperta, ma proprio per tentare di ricostruire le tessere di un puzzle che se non accettassimo di iniziare dai primi pezzi, resterebbe sempre e comunque incompleto.
Il nostro approccio alla musica “degli altri” è istintivo e tutto sommato, di cuore. Nel senso che abbiamo imparato ad amare tutto quello che provenisse dall’altra parte della Manica e dell’Oceano senza aver voglia di ricercarne la radice. Al contrario dileggiando e rifiutando le nostre che, magari, venivano apprezzate ed approfondite all’estero. Facile sfottere i nostri cantori locali con il mano il disco degli Iron Maiden; più difficile cercare di capire come si fosse arrivati a tutto questo. La musica popolare di cui abbiamo accolto la frange finali ha storie e musiche bellissime che meriterebbero di essere conosciute con mente aperta e disponibilità. Perché nei pochi esempi che vi abbiamo fatto stanno racchiusi secoli di evoluzione musicale e metrica e che gruppi più prossimi a noi hanno saputo far coincidere con tecniche di canto e registrazione attuali. Il messaggio, che sia chiaro, è : non siate razzisti. Non pensiate che ascoltare Fairport Convention o altri sia un decremento della vostra passione per il rock, anche più estremo. Proprio perché “quel” rock non solo lo ha ben assimilato, ma quando possibile lo ha adattato alle proprie esigenze.
Questo è accaduto con il folk, quello che negli Stati Uniti ha dato vita a dozzine di etichette, fino alla finale… finale ? …”americana” che dovrebbe far sembrare che un filone possa sembrare originale quando è il terminale di cento altri, ma in realtà è accaduto pure per il blues, da cui molto più direttamente tutto il rock and roll e i suoi derivati, provengono. Il blues nero, le cui radici stanno nei canti popolari figli di quello che i deportati cantavano nella loro terra, è stato prima replicato per un pubblico di colore e poi elettrificato e venduto a un pubblico bianco, con rimbalzi da una sponda all’altra dell’oceano con cambiamenti che ogni volta ci venivano venduti per originali. La storia del blues elettrico gronda di esempi che stanno alla base, inevitabilmente, di quello che ascoltiamo ogni giorno, certamente molto decodificato, appesantito.
E il blues non è vissuto a fianco del jazz che ne deriva, fino a contaminare il “nostro” rock ? Non è il caso di essere ingenui, dunque, e il consiglio è di avvicinarvi con passione al folk, al blues nero, al jazz per finire di scoprire poi che, in fondo, la bellezza della musica sta proprio nell’aver saputo replicare se stessa mescolando ingredienti noti a nuovi suoni di cui noi percepiamo solo quelli che sentiamo più prossimi forse solo per pigrizia mentale.
Provate a centellinare la Matty Groves, a ricercarne sul web le varie, colorite, versioni che sono molte. Comprendetene le differenze, seguite le tracce di chi ne ha modificato i contenuti, trovate la “vostra versione” e amatela. Mettete i dischi di questi, per voi, nuovi eroi, a fianco dei vostri vecchi…Fatevi questo regalo… per comprare l’ultimo disco dei Maiden o dei Greta siete sempre in tempo.
E poi fateci sapere : siamo qua.
Buonasera Giancarlo,
bell’articolo-riflessione. Mi rivedo nell’identikit iniziale, e da anni sto cercando di colmare la mania del tuttologismo concentrandomi su generi e stili affini alle mie inclinazioni senza rinchiudermi in essi. Spero sia anche il senso di questa tua introduzione a un modo, a un percorso, un’attitudine che è qualcosa a metà strada fra filologia e istinto. Grazie per il contributo al pensiero di tutti.
Ciao Luca, spero sia stato chiaro che non avevo alcuna intenzione di scrivere un trattato sul passaggio da certe radici musicali al rock. Più semplicemente stimolare la curiosità di chi avesse avuto voglia di approfondire dopo aver notato che queste radici sono ben evidenti ed emergono spesso all’ascolto di molti nostri artisti preferiti. Se qualcuno si sarà sentito spinto a farlo, ne sono felice, perché credo sia interessante e piacevole scoprire nuovi suoni ed orizzonti. Grazie a te.