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C'era una volta HARD & HEAVYTimeless : i classici

Successi Super Pop, in versione Heavy: The Beatles, Kinks, Van Halen, Queensrÿche etc.

Di 27 Ottobre 202225 Commenti

Le cover version sono già state oggetto di un articolo, “Under Cover!” (pubblicato sul Blog nell’agosto 2021), ma in quell’occasione ci eravamo esplicitamente occupati di reliquie da riscoprire, non proprio di vasta risonanza, prevalentemente edite negli anni ’80 e di derivazione hard rock.
Oggi il panorama presentato è più vasto, e si vuole istituire un ideale ponte di collegamento fra brani che rappresentano un patrimonio universale della cultura pop, e rispettivo “restauro” in chiave heavy, ma senza confini pregiudiziali; dunque grandi successi, specialmente dei favolosi anni ’60, che hanno colpito al cuore anche artisti di estrazione ben differente, abili nell’interpretarli alla loro maniera.
Qualche lettore ci ha chiesto anche spunti più retrospettivi del solito, e questa può essere una risposta.
La morale della rassegna di dieci originali e relative versioni, sì potrebbe riassumere così: una grande canzone è per sempre, resiste immacolata all’erosione del tempo (che anzi ne aumenta il valore) e può mostrarsi affascinante anche risolta in tutt’altro stile.
Per questo il fenomeno delle cover è da tempo diventato di moda, instaurando la prassi di album che numerosi gruppi e artisti hanno dedicato esclusivamente a rifacimenti di classici del passato. Ho preferito evitare questo genere di lavori, perché a mio avviso, spesso “prefabbricati” in omaggio ad una tendenza. Reputo più sincere scelte isolate nell’ambito di un’opera di pezzi originali, anche se non ne nego affatto eventuali scopi commerciali: altra ottica però rispetto ad un “insieme massificato”, coniato per l’occasione.
Come sempre, sottolineo che non di una classifica si tratta, ma di scelte esemplari fra le tante possibili.
Buona lettura, se può interessarvi.

“CATS IN THE CRADLE”

Ugly Kid Joe

POPular Hit: HARRY CHAPIN (1974)
Cover version: UGLY KID JOE (1992)

Alzi la mano chi non si è mai spazientito di fronte all’incalzare degli inserti pubblicitari che spezzano la continuità di un programma televisivo. Eppure non tutta la propaganda vien per nuocere; recentemente sono infatti stati riproposti due grandi brani ormai trascurati: “Four Horsemen” degli Aphrodite’s Child e, meno nota in Italia, ma al primo posto della classifica americana di fine 1974, “Cats In The Cradle” del cantautore newyorkese Harry Chapin. In entrambi i casi, se non erro, sono lodevoli “colonne sonore” di pubblicità per nuovi modelli d’auto.
Harry Chapin era essenzialmente un folk-singer, generosamente impegnato in progetti benefici per combattere la fame nel mondo, ed aveva scritto “Cats In The Cradle” con la moglie Sandy; si tratta di una splendida melodia acustica sapientemente orchestrata, il cui tema non poteva non toccare anime sensibili; parlava infatti dell’occasione mancata di un padre di accompagnare da vicino la crescita del figlio, dovuta ad impegni di lavoro e di carriera, non per scelta ma per necessità.
Detto che anche il leggendario Johnny Cash interpretò questo classico nel 1990 (sull’album “Boom Chicka Boom”), può forse sorprendere che ragazzacci scapestrati come gli Ugly Kid Joe, figli della generazione di confine fra tipico hard’n’heavy e nuove istanze crossover anni ’90, ne fecero a loro volta un singolo di successo, tratto dal primo album completo, “America’s Least Wanted”. Il quintetto trasforma “Cats In The Cradle” in una power ballad, pienamente riuscita, in stile hard rock ed il cantante Whitfield Crane riesce a somatizzarne l’intensità emozionale. Bello anche il video-clip, che allude al tempo trascorso inesorabilmente; il bambino la cui sagoma viene tratteggiata su un albero, si ritrova adulto, naturalmente con un profilo di altezza ben superiore. Gli Ugly Kid Joe sono tuttora attivi, è appena uscito il loro quinto album “Rad Wings Of Destiny” (!?!), dove non hanno perso il vizio di cimentarsi in cover: “Lola” dei Kinks luccica infatti nella collezione.

“ELOISE”

Damned

POPular Hit: BARRY RYAN (1968)
Cover version: DAMNED (1986)

Figli di una cantante famosa negli anni ’50, i gemelli Paul & Barry Ryan avevano esordito come duo vocale nel 1967 per la Decca, ma la formula non riscuoteva successo, così Paul di ritirava dietro le quinte, impegnandosi nella composizione, lasciando a Barry il fronte del palco. A quel punto il tandem, consacrato dall’album “Barry Ryan Sings Paul Ryan” (MGM 1968), funzionava benissimo, soprattutto con lo sbalorditivo successo del 45 giri “Eloise”. Brano particolarmente lungo per i tempi, ben oltre i cinque minuti, raggiungeva il numero uno nella classifica di 17 paesi, fra cui l’Inghilterra e la stessa Italia (ma la versione nella nostra lingua é sconsigliata). Comunque la si pensi, è stata una delle grandi hits degli anni ’60, all’insegna del pop “sinfonico” caratterizzato dal dirompente arrangiamento orchestrale e da altisonanti cori vocali, nel sottolinearne l’atmosfera romantica e melodrammatica. La voce di Barry è superlativa, a proprio agio in un soffuso bridge melodico come nell’urlo disperato del travolgente finale, anticipato dall’impeto degli strumenti a fiato. Poteva essere il nuovo Tom Jones, invece è rimasto One Hit Wonder – specie al di fuori dell’Inghilterra – incapace di replicare quell’esplosivo successo. La sua parabola si è conclusa con un mesto congedo il 28 settembre 2021, quando Barry era vicino ai 73 anni. Stupisce che “Eloise” servì a rilanciare, dopo qualche crisi di identità, un gruppo apparentemente agli antipodi ossia i Damned, punk band inglese della prima ora. Dalle selvagge origini molto era però cambiato per Dave (Transyl)Vanian ed i suoi, che avevano abbracciato lo stile “goth rock” dalle inflessioni pop, ben rappresentato dalla rinnovata immagine lungocrinita del vampiresco cantante.
La versione di “Eloise”, del gennaio 1986, regalava ai Damned la più elevata posizione mai raggiunta nella classifica britannica (al numero 3) e non si discostava nettamente dall’originale.
Infatti ne riproponeva un adeguato arrangiamento pomposo, irrobustito dalla presenza delle chitarre elettriche ed un pathos vocale in linea con l’interpretazione di Barry Ryan, senza gli stessi picchi virtuosistici.

“SCARBOROUGH FAIR”

Queensryche

POPular Hit: SIMON & GARFUNKEL (1966)
Cover version: QUEENSRŸCHE (1990)

Quando si parla di magia acustica del folklore delle isole britanniche, una delle più insigni rappresentazioni è “Scarborough Fair”, antico brano tradizionale ispirato ad una fiera famosa in epoca medievale della città di Scarborough, nello Yorkshire. A riaccenderne la fiamma negli anni ’60 fu la versione di Simon & Garfunkel, che la aggiornarono con l’innesto di una componente propria (“Canticle”); alle liriche della bucolica fiaba permeata di sofferenza per un amore impossibile e ricca di simbolismi, il duo americano poneva in contrasto un testo ispirato alla Guerra nel Vietman: comun denominatore un doloroso sentimento che pervadeva l’intimismo della suggestiva ballata. Assolutamente inconfondibile era l’interazione fra le angeliche voci degli artisti (il termine si addice in particolare a quella di Art Garfunkel) che agivano da splendida corale.
Fra le varie versioni che si sono succedute di questo classico, ce ne sono anche in chiave metal: l’ultima credo sia il remake particolarmente ferale dei My Dying Bride (del 2016) ma a mio avviso la più emblematica resta quella dei Queensrÿche, in origine relegata a facciata B del singolo “Empire” (1990), quindi bonus dell’omonimo album.
Su un arpeggio acustico affine all’originale, Geoff Tate si presenta con voce ieratica, poi si innesca un ritmo marziale (forse un’allusione alla follia delle guerre?) che ne accelera l’andatura ed entra in scena la chitarra elettrica, mentre l’ugola di Geoff raggiunge vette di inaudita maestosità. Memorabile! Fortunatamente la loro “Scarborough Fair” è presente nell’edizione Deluxe 2021 di “Empire”, di cui vi abbiamo diffusamente riferito sul Blog.

“WOODSTOCK”

Bobby Kimball

POPular Hit: MATTHEWS SOUTHERN COMFORT (1970)
Cover version: BOBBY KIMBALL (1994)

“Woodstock” è il festival che sublimò l’epoca d’amore & pace del movimento hippie, ed una canzone omonima ne interpretò magistralmente lo spirito, scritta dalla grande artista canadese migrata a Laurel Canyon, Joni Mitchell, che pur rinunciò a parteciparvi con decisione dell’ultima ora.
Il brano apparve per la prima volta su “Déjà Vu” dei Crosby, Stills Nash & Young (marzo 1970), dove militava il suo compagno di allora, Graham Nash, che le aveva raccontato l’evento; un mese dopo venne pubblicata la versione della stessa Mitchell. Queste due restano di gran lunga le più rinomate, ma nel Regno Unito ebbe persino maggior successo la cover degli inglesi Matthews Southern Comfort – capitanati dall’ex Fairport Convention, Ian Matthews – a sua volta bellissima ed all’insegna del soft rock raffinato, che raggiunse il primo posto in classifica. L’eco del trionfo giunse fin da noi, ed in Italia (parlo sempre del 1970) fu maggiormente programmata e diffusa quella stessa versione: alla quale oggi rendiamo omaggio. perché con il passare del tempo è finita un po’ nell’oblio.
Esiste anche un rifacimento hard rock che segnalo con piacere, ad opera di Bobby Kimball, voce storica dei Toto del primo classico, “Hold The Line”. Ascoltai la rediviva “Woodstock” proprio in apertura dell’album solo “Rise Up” (Mausoleum, 1994) ed è una delizia per timpani addestrati al rock duro ma melodico.
Una versione decisamente elettrica la sua (più vicina a quella di CSN&Y), squadrata nei riffs ed incisiva, con la voce di Bobby al top della forma, comunque valorizzata da ineccepibili coristi, organo Hammond e taglienti slanci della soliste: vi suona anche l’autorevole Bruce Gowdy, di fama Stone Fury, World Trade, Unruly Child.
La “Woodstock” di Kimball è un restyling da riscoprire.

“MIGHTY QUINN”

Gotthard

POPular Hit: MANFRED MANN (1968)
Cover version: GOTTHARD (1996)

E’ inattaccabile il ruolo di Bob Dylan quale simbolo totemico della cultura giovanile dagli anni ’60 in poi, avvalorato anche da un Premio Nobel per la Letteratura, “irriguardosamente” non ritirato nel 2016. Anche lui però ha subito l’onta di aver scritto brani che hanno avuto più fortuna in versioni altrui.
Le irresistibili armonie vocali dei Byrds hanno reso leggendaria, non solo in America, la loro “Mr. Tambourine Man”, più famosa di quella dell’autore; in Inghilterra, il gruppo del tastierista Manfred Mann, di origine sudafricana, raggiungeva l’ennesimo primo posto in classifica grazie all’ultimo di una serie di omaggi a Mr. Bob Dylan, “Mighty Quinn (Quinn The Eskimo)”.
L’arrangiamento squisitamente pop, caratterizzato dall’innesto del flauto e da un fluido organo Hammond, oltre all’accattivante interpretazione del cantante Mike D’Abo – che in seguito apparirà nella colonna sonora di “Jesus Christ Superstar” – faceva breccia nel grande pubblico ed il singolo veniva esportato con successo anche negli States. Un boom che diede origine ad una serie di versioni, fra le più tempestive anche quella dei Dik Dik, protagonisti del beat italiano, ribattezzata “L’Eschimese”.
In questa sede è appropriato chiamare in causa un’istituzione dell’heavy rock svizzero e più generalmente europeo, i Gotthard, prodotti da un altro luminare di quella scena, Chris Von Rohr (Krokus). Al di là della loro granitica essenza, i Gotthard hanno ripetutamente attinto dal rock classico. Nel terzo album “G.” del 1996, avevano rivisitato alla loro maniera “Mighty Quinn” in stile pop-metal, scandita da un riff geometrico prettamente “teutonico” che certamente non difetta d’energia nell’inneggiante refrain armonizzato dal rimpianto vocalist, Steve Lee, tragicamente scomparso nel 2010. Qualche anno dopo riproporranno anche la superba ballata degli Stones, “Ruby Tuesday”. Un’ulteriore dimostrazione di come le formazioni di matrice metallica non ignorino affatto le radici sixties, offrendo il loro legittimo tributo.

“ELEANOR RIGBY”

Ethel The Frog

POPular Hit: THE BEATLES (1966)
Cover version: ETHEL THE FROG (1978)

Soffermarsi sulla portata rivoluzionaria dei Beatles è persino superfluo, in termini di innovazione ed influenza esercitata su musica e cultura giovanile; è il gruppo che ha mostrato la strada da percorrere alla sua generazione, esordendo con il rock’n’roll quintessenziale, poi il cosiddetto beat e il pop sofisticato, fino ai nuovi orizzonti psichedelici e progressive dal 1967 in avanti.
Una tappa particolarmente significativa della loro fulminea ascesa è stato l’album del 1966 “Revolver” – sono d’attualità le nuove ristampe Deluxe, in uscita il 28 ottobre – dove si intensificavano gli slanci sperimentali. Sicuramente il brano più rappresentativo è “Eleanor Rigby”, ammaliante melodia sottolineata dall’arrangiamento della sezione d’archi, non nuovo per i Beatles (i violini di “Yesterday”…).
Un brano tanto popolare è stato oggetto di una quantità di versioni, addirittura di giganti della musica americana del ‘900 del calibro di Ray Charles e Aretha Franklin, ma a noi interessa rilevare come la sua onda lunga sia giunta anche ai primordi della NWOBHM. Ethel The Brog, nome stravagante tratto dalla fortunata serie televisiva della BBC “Monty Python”, sono stati fra i primi gruppi della “resurrezione metallica” inglese a rendersi noti; infatti il deejay Neal Kay li aveva selezionati per la prima, storica compilation “Metal For Muthas” della EMI (1980), insieme a formazioni destinate a ben altra risonanza (Iron Maiden, Angel Witch, Samson). Già nel 1978, Ethel The Frog pubblicavano il primo singolo indipendente: la loro versione di “Eleanor Rigby”, rilanciata un anno dopo dalla stessa EMI, che li aveva scritturati, sia come singolo (“Eleanor Rigby”/”Fight Back”), sia in apertura dell’omonimo album, uscito nello stesso anno di “Muthas”, 1980.
Trascurato dalla label, il quartetto guidato da Doug Sheppard si è presto estinto, ma la sua rilettura del classico dei Beatles è sintomatica di come si possono trattare successi del passato senza orpelli, ma con la necessaria energia ed armonie vocali più eleganti di quanto si supporrebbe; infine l’inevitabile, lancinante assolo di chitarra. Sul piano melodico questa é superiore alla versione dei Jeddah, NWOBHM band da culto responsabile di un solo singolo (ancora “Eleanor Rigby”!) preferito da “specialisti” del genere per la sua carica proto-speed.

“SOLITARY MAN”

HIM

POPular Hit: NEIL DIAMOND (1966)
Cover version: HIM (2004)

Quando si parla di intramontabili “canzoni popolari” degli anni ’60, non si può non menzionare il classico di Neil Diamond “Solitary Man”. Riconosco serenamente di averlo conosciuto nella versione italiana di Gianni Morandi del 1967 (“Se Perdo anche Te”), arrangiata dal maestro Ennio Morricone, che – non dimentichiamolo – ha ispirato persino i Manowar!
In seguito ho scoperto l’originale, composizione autobiografica di uno dei cantautori americani più celebri della sua epoca, che aveva regalato ai Monkees il numero uno in classifica “I’m A Believer”; in “Solitary Man”, Diamond esibisce una straordinaria vena intimista che valorizza la sua interpretazione suadente ed ipnotica, accompagnata dalla chitarra acustica, con un immaginifico spunto orchestrale ad impreziosire ulteriormente un incantesimo di tre minuti.
A testimonianza della superba qualità del brano, una sua cover del 2000 cantata da Johnny Cash è valsa un Grammy al mitico ”uomo in nero” del country: fantastica rappresentazione squisitamente unplugged, inclusa nell’album “American III: Solitary Man”, prodotto dal celebre Rick Rubin per la American Recordings.
Ma per contemplare una versione in chiave hard rock di questo evergreen bisognerà attendere l’uscita di “And Love Said No: Greatest Hits 1997-2004” antologia dell’affermato gruppo finlandese di sola apparenza “satanica”, gli HIM; esibivano un peculiare gothic rock/metal che fondeva simultanea attrazione verso erotismo e macabro, mescolati nello stile torbido e sensuale del front-man Ville Valo. Uno dei due inediti ivi inclusi, immortalato anche in video-clip, è proprio la rielaborazione di “Solitary Man”, originale, intensa e ritmicamente pulsante ma caratterizzata dalla voce perversa di Ville, che nel finale ne esaspera i toni fino al liquido sgretolarsi del feedback. Il singolo è balzato nei Top Ten inglesi, ma nonostante il successo, gli HIM si sono sciolti cinque anni fa.

“THE SOUND OF SILENCE”

Disturbed

POPular Hit: SIMON & GARFUNKEL (1965)
Cover version: DISTURBED (2015)

Un altro capolavoro di Simon & Garfunkel, che rappresentarono un’autentica supernova del firmamento pop dei favolosi anni ’60. Aggiungiamo che “The Sound Of Silence”, oltre ad essere il loro primo grande successo (la versione elettrica del 1965 giunse al numero uno della classifica dei singoli in U.S.A.), è probabilmente LA canzone per eccellenza del duo newyorkese. Può sorprendere che una melodia folk fra le più belle e memorabili del secolo scorso sottenda liriche dai toni dark che molti “adepti delle tenebre” sognerebbero di aver scritto di proprio pugno. Il protagonista si aggirava solitario nella fredda notte, quando abbagliato dalla luce al neon si trovava circondato da “diecimila e più persone” che parlavano senza dirsi nulla, udivano ma senza ascoltare…Ed il silenzio che li circondava è addirittura paragonato ad “un cancro che cresce”. Una sorta di parabola sul tema dell’alienante incomunicabilità, che in qualche modo preconizza i giorni nostri, fa pensare all’”isolamento tecnologico” di chi si apparta con il proprio smartphone (o con il computer), e sembra indifferente a tutto ciò che gli succede intorno.
Lo spirito del brano di Paul Simon è ben focalizzato nel video della versione dei Disturbed, una delle più famose formazioni americane degli anni 2000, inclusa nel loro sesto album del 2015, “Immortalized”.
Si tratta di un tenebroso filmato in bianco e nero, dove la voce di David Draiman risuona sullo sfondo di un desolato paesaggio agreste e paludoso; improvvisamente vi appaiono una moltitudine di silenziose figure spettrali, quasi fossero impassibili zombi, ed il timbro del cantante si impone in un crescendo potente ed esacerbato, di rimarchevole intensità drammatica. Non sono propriamente un estimatore del nu-metal, ma si tratta di un’eccellente versione, che onora con attitudine e sonorità moderne un indimenticabile classico.

“I AIN'T GONNA EAT OUT MY HEART ANYMORE”

Angel

POPular Hit: THE YOUNG RASCALS (1965)
Cover version: ANGEL (1978)

Di questa cover abbiamo accennato alle origini del Blog, con il ritorno in scena di un mio gruppo-cult per eccellenza, gli Angel. Bello ricordare che grazie anche alla mia predilezione nei loro confronti, l’insospettabile “Enciclopedia Rock Anni ’70” dell’Arcana, inaugurò così la scheda che li riguardava: “Uno dei gruppi più significativi nello sviluppo dell’hard rock americano, tenuto in grande considerazione dagli studiosi del fenomeno.”
La loro “I Ain’t Gonna Eat Out My Heart Anymore” è importante perché si tratta di uno dei primi tentativi in assoluto da parte di un gruppo di versatile matrice heavy, di riallacciarsi alla tradizione pop delle hits anni ’60.
The Young Rascals erano un quartetto italo-americano di soul “bianco” scritturato imprevedibilmente dalla Atlantic nel 1965; il loro singolo d’esordio, proprio la canzone citata, fu propedeutico all’esplosione del successivo “Good Lovin’”, al primo posto in America. Preferisco però “I Ain’t Gonna Eat Out My Heart Anymore”, dotata di una melodia vocale estremamente riconoscibile, con squarci di chitarra fuzz e organo Farfisa; è stata oggetto di un remake del ’67 in lingua italiana, abbastanza pedissequo ma efficace, degli inglesi “d’importazione” Primitives. Rinominata “Yeeeeeeh!”, metteva in luce la voglia di emergere di Mal, futura celebrità della nostra musica leggera.
La versione degli Angel era decisamente brillante, introdotta da un riff di chitarra (affine agli Sweet) di Punky Meadows, protagonista anche di uno squillante assolo. Un faraonico mix fra glam e pomp-rock, dotato di indubbio appeal commerciale, con le armonie vocali pilotate da Frank Dimino di gran lunga superiori all’originale.
Effettivamente fu l’unico singolo degli Angel ad irrompere nei Top 50 di Billboard, ma non bastò a regalare al quintetto “in seta bianca” un successo di primo piano. Ciò che assolutamente va a loro riconosciuto è il ruolo di grandi antesignani del pop-metal, ed in termini di immagine dell’hair metal, degli anni ’80.

“YOU REALLY GOT ME”

Van Halen

POPular Hit: YOU REALLY GOT ME (1964)
Cover version: VAN HALEN (1978)

Concludiamo con quella che nell’articolo “Under Cover!” avevamo indicato come candidata al titolo di “più grande cover version di sempre”. Sicuramente “You Really Got Me” ha fatto epoca sia con l’originale dei Kinks, sia nel rifacimento dei Van Halen, ma in quell’occasione venne solo citata come esemplare, perché il tema riguardava versioni più “oscure” e non era certamente il loro caso.
Nacque come terzo singolo del quartetto londinese dei fratelli Davies, balzato inaspettatamente al numero uno in Inghilterra nell’estate 1964, dopo il flop dei precedenti due. Un grande successo “popolare” del beat ribelle dunque, basato sulla struttura minimale di un riff ripetitivo e sulla voce insolente di Ray, che getta le basi del rock duro di almeno un lustro a venire, dunque una sorta di archetipo “heavy metal”. Affine al successivo 45 giri “All Day And All Of The Night”, ma ben distante da quelli che saranno i lavori della maturità degli stessi Kinks, dal pop-rock quasi aristocratico e da cabaret squisitamente inglese, degli album  “The Kinks Are The Village Green Preservation Society” e “Arthur Or The Decline And Fall Of British Empire”, sintomo delle maggiori ambizioni al tramonto anni ’60.
Proprio i Van Halen, con il loro fulminante album d’esordio del 1978, fra i più importanti esordi hard’n’heavy di sempre, consacrarono “You Really Got Me” fra i modelli d’ispirazione primari del rock duro. La casa discografica, Warner Bros, aveva suscitato il loro disappunto decidendo di realizzare come primo singolo la versione dei Kinks e non un brano originale, tant’è che con noncuranza, Eddie Van Halen aveva fatto ascoltare la registrazione ultimata del primo LP a Barry Brandt, batterista degli Angel, a loro volta residenti a Los Angeles. Leggenda vuole che il gruppo della Casablanca, già affermato con tre album all’attivo, abbia tentato di rubare l’idea ai Van Halen, andando in studio per incidere la propria versione di “You Really Got Me”. Scoperto il piano dei concorrenti, il produttore dei VH, Ted Templeman, e la Warner si affrettarono ad anticiparli nella pubblicazione del singolo, avvenuta all’inizio del 1978. Non fu un successo sbalorditivo, ma andò in classifica in U.S.A. e in Inghilterra, oltre a conquistare una notevole rotazione radiofonica. Le premesse per la conquista del mondo da parte dei Van Halen erano così garantite, da una cromata rilettura heavy deluxe, preceduta dall’eruzione vulcanica della solista di Eddie; già in primo piano anche le vanità provocatorie di David Lee Roth, accompagnato dalle efficaci armonie vocali dei compagni. A sua volta un classico scolpito fra i monumenti scultorei del rock. Della cover degli Angel non risulta sia rimasta traccia.

25 Commenti

  • Armando Astegiano ha detto:

    Molto bello il suo scritto ho 70 anni e conosco molto bene tutti gli originali,che mi piacciono molto, ricordo addirittura tante versioni italiane di tanti di questi brani, molto interessanti tante cover rock duro alcune troppo simili all’originale esempio Eloise,non condivido assolutamente,tra i vari commenti,considerare you really got me dei van hallen , bisogna pensare il periodo di quando uscì l’originale allora la musica giovane età ancora tutta da inventare e quello fu un pezzo eclatante quasi come Satisfaction due inizi strepitosi forse solo eguagliati da Smoke and water dei Deep Purple .Chiudo ringraziando per le buone cover ascoltate e complimenti per l’articolo originale e interessante per le notizie sui gruppi hard ,che non conoscevo.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Armando, mi fa molto piacere che tu abbia apprezzato. Ho un amico della tua età ferratissimo in materia di cover italiane (anni 60) di classici anglo-americani, basti ricordare i Camaleonti o i Dik Dik che rifacevano i Procol Harum, l’Equipe 84 alle prese con Sonny & Cher o Caterina Caselli con i Monkees. Ce ne sono centinaia;anch’io, nato nel 1956 come Giancarlo, ero all’epoca un teenager curioso di ascoltare queste canzoni. Ne ho voluto celebrare le versioni in chiave heavy proprio per parlarne a generazioni successive. Poi è chiaro, gli originali restano tali per la loro portata storica e chi le conobbe a suo tempo non sempre può apprezzarle in differenti interpretazioni. Comunque hai colto in pieno lo spirito dello scritto. E ti ringrazio, ciao!

  • Massimo ha detto:

    Bellissimo articolo ma piccolo “inciampo” nei video, segnatamente l’ultimo, quello di Van Halen. Il brano non è You Really Got Me, o meglio: il video parte con Eruption e prosegue con You Really Got Me. È la sequenza del LP, e l’attacco del video proposto ne segue la linea, quindi…parte con quel che è in realtà un brano a se, Eruption per l’appunto , che in molti scambiano per l’intro di You Really Got Me.

    • Beppe Riva ha detto:

      Massimo, sinceramente sapevo che quel video era “mendace”, figurati che ho il primo Van Halen dall’epoca d’uscita. Ma se il video ufficiale di “You Really…” era preceduto da “Eruption”, non ho voluto fare tanti distinguo. Ho parlato di “eruzione” iniziale proprio in quest’ottica. Cercate di concedere qualche “licenza poetica”. Grazie

  • Roberto Torasso ha detto:

    Ciao Beppe, ogni tanto riesco ad interagire commentando ma sono puntualmente in attesa di un tuo scritto che sinceramente è una delle cose più interessanti che leggo su internet in materia di musica rock soprattutto perché poni argomenti non scontati… Anche Giancarlo scrive cose molto coinvolgenti e condivisibili ma il tempo per partecipare per esprimere un parere sul vostro pensiero è sempre ristretto, ciò non toglie che ogni volta è u piacere che si rinnova leggere un nuovo articolo sul vostro blog.. Detto questo condivido il fatto che una bella canzone rimane tale in qualsiasi veste la si proponga anche se personalmente penso che l’originale rimanga ineguagliabile nella maggioranza dei casi…. Come trovo assolutamente inutili le troppe pubblicazioni dei vari tribute album sia da parte dei singoli che da un insieme di artisti…. Trovo ragionevole il fatto di riproporre un brano lontano dal genere proposto e sinceramente anche ovvio, voglio dire un gruppo metal che coverizza i Priest per esempio che altro potrebbe aggiungere in merito?… Proprio per questo le cover più sorprendenti sono quelle più lontane dai canoni stilistici di un’artista, poi il risultato non sempre funziona… I Priest che omaggiano Johnny B. Goode per esempio hanno rasentato il comico e i Van Halen con Pretty woman hanno fatto il loro compitino e nulla più, You really got me ha avuto ben altro trattamento… Concordi?

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Roberto, ringrazio anche a nome di Giancarlo per le belle parole spese da parte tua sul Blog. Sicuramente si cerca di evitare argomenti scontati, anche se personalmente mi piace dire la mia su alcune importanti uscite discografiche. Mirate però, infatti se vedo esposte in edicola copertine di riviste rock con i “soliti noti” mi chiedo: a che pro scriverne su un Blog? Appunto, se ci si tiene ad esprimere la propria visione in merito. Si, una bella canzone è per sempre, ma non sempre una versione è ben riuscita: poco ma sicuro. Occorre sempre distinguere. Le canzoni originali meritano comunque un trattamento di riguardo. Sulle due cover che citi, meglio la “Pretty Woman” dei Van Halen, ma non super. Alla prossima, spero.

  • Antonello ha detto:

    Buongiorno Beppe, articolo interessantissimo. Ti segnalo che i blackster greci Rotting Christ hanno fatto una cover, secondo me notevole, di “The four horsemen” con un taglio doom-gothic.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Antonello, non sono onestamente un seguace della scena black metal, però tempo fa ho ascoltato i Rotting Christ, trattandosi di un gruppo “storico” del movimento. Mi sembra interessante che abbiano offerto un tributo al primo gruppo greco famoso, che con l’album “666” aveva trascurato spunti più commerciali per addentrarsi nell'”oscurità”…Grazie.

  • Paolo Rigoli ha detto:

    Caro Beppe, un approfondimento davvero originale, interessante e molto ben documentato. Complimenti! Per contribuire alla discussione aggiungo solo che i Kinks hanno continuato ad eseguire “You Really Got Me”, irrobustendo molto il suono rispetto all’originale (1964). Si può per esempio ascoltare in rete la versione eseguita nel 1977 durante la trasmissione Old Grey Whistle Test. Senza nulla togliere agli ottimi Van Halen che hanno reinterpretato il brano da par loro, trovo più corretto paragonare la versione dei VH con quella dei Kinks di uno/due anni prima e si scoprirà che improvvisamente le differenze si assottigliano. Nutro per i Kinks un grande rispetto e mi dispiace che vengano spesso sottovalutati. Un caro saluto, Paolo.

    • Beppe Riva ha detto:

      Caro Paolo, nessuno si permette di sottovalutare la rilevanza storica dei Kinks, che poi è stata rilanciata da gruppi di altra tendenza (britpop) come ad esempio i Blur. Anzi, il loro ruolo di pionieri è conclamato. Che poi i Van Halen abbiano fatto furore fra i proseliti dell’hard’n’heavy (e non solo) è un merito innegabile, perché una “brutta” cover poteva rivelarsi un flop. Ovviamente qui si è parlato di incisioni discografiche, succede che versioni live in tempi diversi siano sostanzialmente differenti. Ma recepiamo con interesse la tua segnalazione. Grazie, ciao.

  • Fulvio ha detto:

    Ciao Beppe,
    Monumentale! Posso solo immaginare quanto lavoro ci sia dietro la stesura di un articolo del genere: vivissimi complimenti e grazie per la miriade di informazioni e curiosità che sempre ci elargisci.
    Concordo riguardo gli “insiemi massificati” in cui inserirei anche i “tribute album”, moda che si è abbastanza affievolita ma che non mi è mai andata troppo giù.
    Un saluto ed un grazie di cuore!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fulvio, il tentativo è sempre quello di scrivere cose che possano poi suscitare riscontri di questo tipo! Permetti la battuta, ma è senz’altro gratificante per l'”autore” ricevere commenti tanto positivi. Sui Tribute Album è innegabile, piacciano o meno sono stati una moda. Come tutte le mode rischiano poi di essere sorpassate. Senza per questo negarne eventuali qualità interessanti. Grazie mille.

  • Giovanni Loria ha detto:

    buongiorno Beppe,
    e complimenti per l’articolo, godibilissimo nello stile e assai interessante nei contenuti.
    ironico, trattandosi di cover, che l’idea di fondo del pezzo sia assolutamente… originale!
    ho scoperto tante cose che non conoscevo, e mi hai invogliato ad ascoltare artisti che non avrei mai pensato un giorno di sottoporre ai miei sempre ardimentosi padiglioni auricolari, da Barry Ryan a Harry Chapin.
    la cosa che più mi stuzzica di articoli come questo è lo sconcerto che possono causare in coloro che, pur apprezzandoti, ti suppongono relegato alla mera propaganda di metal (nelle sue più variegate forme), hard rock e prog.
    quando si è dei veri appassionati e cultori di musica come te, si riescono a trovare gioielli ovunque, soprattutto tra le pieghe delle decadi d’oro, con buona pace dei monomaniaci che adorano gli House Of Lords ma non hanno mai considerato i Traffic, o viceversa.
    un caro saluto,
    Giovanni

    • Beppe Riva ha detto:

      Buongiorno Giovanni, non hai bisogno di presentazioni perché sei ben conosciuto per la tua attività su riviste specializzate. Mi fa davvero piacere il tuo commento, anche perché hai colto il tentativo di originalità della proposta ed il fatto di andar oltre quella che hai chiamato “propaganda…”, cercando di stimolare l’attenzione anche nei confronti di buona musica differente. Penso che non ci sia nulla da eccepire, tutt’altro, su quanto hai scritto; mi auguro solo di non “sconcertare” troppo. Grazie, ricambio il caro saluto.

  • Stefano cesarini ha detto:

    Ciao Beppe complimenti, articolo davvero interessante esaustivo e pieno di preziose informazioni a quando una retrospettiva su I grandi golden earring.un caloroso saluto

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Stefano, mi ricordo di te come appassionato di musica rock di lunga data. La mia grande stima verso i Golden Earring è testimoniata dal recente inserimento della loro “Twilight Zone” nell’articolo “Nostalgia del Rock degli Anni ’80”. Trattare la loro “opera omnia” sarebbe abbastanza ingombrante (o superficiale se si riduce in sintesi) ma aspetto l’occasione giusta – riedizioni discografiche o altro – per parlarne sul Blog. Buone cose a te e grazie.

  • meo ha detto:

    beppe , un parere : non ritieni che i van halen potessero avere una carriera diversa e molto piu alta , qualitativamente parlando , oppure sei dell’avviso che quelli erano e la discografia rispecchia la qualità della band ? ciao e grazie

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao, i Van Halen hanno avuto i loro alti e bassi, ovvi adeguamenti commerciali, ma il meglio è da gruppo Top e seminale. Anche con Hagar, cantante di spicco del rock americano, hanno realizzato lavori di livello come “OU812”. Non mi è piaciuto il finale di carriera, ed il ritorno con Roth in “Different Kind Of Truth”. In estrema sintesi…grazie.

  • Andrea C. ha detto:

    You keep me hangin’ on – The Supremes – Vanilla Fudge – The Rods!!!!
    Ciao Beppe

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Articolo strepitoso per ricerca di dati, fatti e gragniuola di nomi. Fra tutte quelle citate, la mia cover preferita resta probabilmente quella degli Angel, ma ovviamente sono gusti personali. Complimenti maestro, pezzi di simile cultura non sono certo reperibili altrove, nel mare magnum del web.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro, ti ringrazio molto perché lo sforzo è stato effettivamente significativo, e per fortuna c’è chi ne tiene conto. Sulle preferenze lo sai bene, ognuno ha i propri gusti ed è giusto prendere posizione. Alla prossima, spero.

  • Lorenzo ha detto:

    Buongiorno Beppe.
    Argomento spinoso.
    Personalmente non sono amante delle cover in assoluto, ma effettivamente l’abbondanza di queste versioni alternative è talmente enorme e trasversale che qualcosa di buono senza dubbio c’è. Tra le svariate che hai descritto conosco bene quella dei Queensryche, e ovviamente You really got me dei VH, talmente migliore dell’originale da potersi considerare più un pezzo dei VH stessi che dei Kinks.
    Ti segnalo in relazione a The sound of Silence, anche la ferocissima e trasfigurata (ben più che nei Disturbed) versione dei Nevermore su Dead Heart in a Dead World.

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