Ci sono album e artisti di cui dimentichiamo solo di mantenere fresco il ricordo. Tre dischi dal vivo di altrettanti gruppi da non gettare nel dimenticatoio.
Ci sono due diverse scuole di pensiero nell’approccio al parlare di rock and roll : gli appassionati che nel rispetto dei classici (e definiamo tali quelli che realisticamente facciano parte della Storia) dimostrano un doveroso occhio di riguardo nei loro confronti citandoli e indicandoli quasi sempre come riferimenti per “gli altri” e gli appassionati che, guardando con superiorità alla musica “che conoscono tutti”, dedicano il loro affetto e la loro ricerca di nuove iperboli ed aggettivi superlativi a gruppi se non minori praticamente del tutto sconosciuti.
Perché, ritengono questi ultimi, è più importante dare spazio all’ignoto e allo sconosciuto che parlare prevalentemente dei medesimi nomi. Esiste poi una zona di confine dove l’ignoto si mescola al dimenticato e credo, personalmente, che ben più interessante sarebbe recuperare invece di sforzarsi a sprecare aggettivi qualificativi e dediche amorose a personaggi che oggi neppure loro ricordano di aver inciso un disco. E dato che la mia stella cometa resta sempre la qualità compositiva dei brani (…i pezzi, i pezzi, i pezzi… non dimenticatelo mai !) sforzarsi di trovare metri di paragone per chi non ha saputo comporre UN SOLO brano da ricordare e crogiolarsi su prodotti introvabili e onestamente non minori ma del tutto inutili, mi pare solo un esercizio di snobismo intellettuale, la volontà di nominare qualcosa che nessuno conosce, neppure i genitori dei titolari, per sentirsi dire : eh, beh…cacchio… ora me li vado a cercare.
Molto più divertente, a mio parere, è riaprire capitoli che secondari non sono stati ma che per un motivo o per l’altro hanno fatto scivolare nel dimenticatoio musicisti o gruppi che hanno comunque avuto una reale importanza nelle nostre antiche vicende musicali giovanili, oltre che alle basi della nostra amata musichetta.
Io giuro che non saprei sinceramente dire quale sia stato il mio primo 33 giri acquistato; ho memoria di una quantità di 45 giri che in epoca anche pre-teenager riuscivo ad accumulare o farmi regalare. Intorno al 1967/68 presi coscienza dell’esistenza anche di quel disco grande e ricordo solo che mi tuffai a tentarne l’acquisto (dopo svariati e sanguinosi tentativi di richieste di prestito spesso non andate a buon fine) pur non possedendo altro che un mangiadischi, così si chiamavano, dove i 33 non potevano entrare.
Ho la certezza che una svolta nei miei gusti adolescenziali che vagavano tra Beatles, Stones, Monkees, Troggs, Hendrix… venne rappresentata dalla scoperta di certa psichedelia americana. La scoperta avvenne in occasione della presenza di un gruppo a me del tutto ignoto a una sorta di premio musicale che si teneva a Venezia : la Gondola d’oro.
Agli inizi del 1969, un attimo prima che io cadessi ai piedi dei Led Zeppelin di Good Times Bad Times, ai Vanilla Fudge veniva donato il premio per un brano chiamato Some Velvet Morning. Non so cosa mi spinse ad ascoltare il pezzo che era quanto di più anomalo dalle Penny Lane, Paint it black o Watchtower o Wild Thing che avevo nel mio famelico mangiadischi.
Una voce riverberata, quasi narrante, ti conduceva all’interno di una melodia soffusa, diretta da una base di tastiera Hammond, alti e bassi strumentali e si concludeva con una violenza sonora della durata di non più di due secondi. Mi parve magico. Obbligato a cercare di saperne di più dedicai attenzione alla infame stampa dell’epoca dove non si trovava traccia. Fu in un periodico “da sala d’attesa” che trovai appunto qualche riferimento al premio e ai componenti. Solo anni dopo mi resi conto che la base ritmica Tim Bogert e Carmine Appice avrebbe lasciato il segno nella musica che si andava addensando dentro la mia testa, che il disco d’esordio altro non era che una sorta di mucchietto di cover, che il secondo era dedito alla moda imperante di cercare un riconoscimento tentando l’accoppiata con la musica classica, ma che il terzo, parzialmente dal vivo e contenente la famigerata Some Velvet Morning mi faceva entrare per la prima volta nel mondo delle esecuzioni dal vivo con una lunga alternata esibizione chiamata Break Song.
Sicuramente l’esordio degli Zep, dei Sabbath…quella copertina!… e dei Jethro Tull furono i primi album che mi portai a casa tenendoli come reliquie che non avrei ascoltato fino a che il mio povero babbo, mosso a compassione, non mi regalò un impiantino Pioneer che finii con il modificare poco per volta aggiungendo pezzi e casse nuove, ma ricordo che Near The Beginning dei Vanilla Fudge fu uno sguardo su un mondo “diverso”. Gli altri, in fondo, li conoscevo già a memoria prima ancora di scartarli : la Fondente alla Vaniglia , no.
Ed è proprio questo disco che vi invito caldamente a riscoprire perché figlio della sua epoca : un misto di hard, ingenua psichedelia californiana, prime esperienze di riff tosti, prime batterie picchiate con violenza. Poi la vicenda della Some Velvet, dell’autore Lee Hazelwood e Nancy Sinatra, del gruppo che aveva nella famiglia mafiosa Lucchese la propria copertura (l’episodio viene raccontato con stile ma senza fare nomi anche nella biografia di Hendrix dove si lascia chiaramente intendere che il gruppo godeva di “amicizie particolari” dato che era l’era in cui la mafia americana cercava di…diversificare… gli investimenti e la nascente scena musicale sembrava poter garantire un fiume di denaro, storie che anche nel film di Coppola, Il Padrino, diventa esplicita con l’amicizia tra il padrino e il cantante italiano, sicuramente Frank Sinatra, e la famosa “offerta che non potrà rifiutare” fatta a un produttore) e la qualità di certe composizioni e della tecnica dei componenti verranno con gli anni.
Near the Beginning è un disco che dovete recuperare assolutamente, in un negozio o nella vostra discoteca, perché è musica che ancora oggi ha davvero ancora molto da dire ed emozionare. E per capire quanto poco, perdonate : nulla, capissero i criticini di certi settimanali che descrissero Bogert/Appice come due pericolosi scalzacani. Rendiamo loro merito oggi…Facendo finta di non ricordargli che gli Zep, nel loro primo tour americano fecero da supporto ai Fudge… e che i Cactus, in seguito, erano proprio una figata…
Altre avventure dimenticate fanno quasi non accorgere che è esistita la musica hard ben prima che i “soliti noti” la facessero diventare oggetto comune. Un gruppo che sarebbe scivolato via senza lasciare tracce rilevanti se non avesse indovinato “il riff della vita” prendeva nome dalla volontà di far coesistere un nome leggero e volatile con la durezza dell’acciaio : Iron Butterfly avrebbe davvero potuto essere un nome bello ed importante ed invece ha legato sostanzialmente la propria storia ad un riff e ad una lunga, per alcuni interminabile, canzone che li ha cristallizzati per sempre nella storia del rock americano.
Così come accade che per un attore un personaggio importante e pesante ed estremamente caratterizzante leghi per il resto della carriera quel volto a quel film, per gli Iron Butterfly aver scritto ed eseguito la famosissima In-A-Gadda-Da-Vida è stato lo zenith ed il nadir della loro vicenda. Per un gruppo basato sostanzialmente sul suono della tastiera, trovare l’incontro con la gloria per un riff immortale di chitarra fu quasi un istant karma positivo.
I diciassette minuti di In a garden of eden vennero immediatamente condensati in 2 e 52 diventando un inno alla nuova generazione a metà tra il sogno californiano e il suono delle città della violenza metropolitana, dai Blue Cheer agli Stooges, dai Frost agli Amboy Dukes. Estratti dalla versione lunga divennero parte della sigla di Supersonic, programma radio Rai del tempo, forse l’unica possibilità di ascoltare rock in radio. Il Live degli Iron Butterfly non rende però merito alla versione di studio e il resto del disco non evidenzia in fondo picchi meritevoli di menzione. E’ però un esempio da non dimenticare di come il Dio del Rock possa accarezzare la fantasia di alcuni e renderli indimenticati per sempre per poi abbandonarli a una carriera di normalità, priva di grandi vette. Che si raggiungono in questi casi una volta sola.
I Simpsons, che io adoro e che continuo a chiedermi come possano piacere ai ragazzini, pieni come sono di riferimenti per anziani rocker, riferimenti musicali che emergono spessissimo o che vengono nascosti anche nella grafica… un cartone animato per anziani, hanno una puntata in cui Bart, mefistofelico, scambia lo spartito della vecchietta che suona l’organo in chiesa e i testi delle canzoni da cantare con la versione di In-A-Gadda-Da-Vida : geniale. Se deciderete di riascoltare questo live non dimenticate anche di confrontarlo con la versione di studio, che resta per sempre superiore : un riff alla Sabbath prima che i Sabbath di formassero.
Il bello del recupero di certi dischi di gruppi dimenticati… o lasciati indietro… sta anche nel fatto che andando poi a ricostruirne le vicende, si può scoprire che lungo il loro cammino certi componenti, in un modo o nell’altro, sono diventati parte di altre avventure che restando o non restando nell’Olimpo della musica, hanno pur sempre creato un proprio spazio, lasciando una traccia nella visione di insieme.
Uno di questi gruppi, sicuramente meno noti anche se ha pubblicato per l’etichetta Vertigo, forse la mia preferita di sempre per stile di scelte e per versatilità di proposte, sono stati i May Blitz, trio, talvolta quartetto, in parte canadese in parte anglosassone che mescolava psichedelia, jazz e hard rock. Composizioni avvolgenti, parti di chitarra ipnotiche, brani che erano quanto di più lontano dalla ricerca del singolo di successo, le due copertine degli unici due album …beh…diciamo discutibili ed un live, ignoto sinceramente ai più, risalente al 1970 e registrato in Germania, Essen 1970, fotografia di una vita artistica breve ma che andrebbe conosciuta.
I May Blitz , senza rendersene conto e addirittura prima di diventare un vero gruppo, hanno dato componenti ai Colosseum (Dave Clempson), ai Vinegar Joe e agli Uriah Heep, ai Bakerloo… ed è un crimine che i loro dischi non abbiano venduto probabilmente neppure tra i familiari. Il Live in Essen non è un capolavoro imprescindibile, neppure di qualità sonora, ma se potrà servire di stimolo per recuperare di due dischi di studio, garantisco che sarà tempo ben impiegato.
Non c’è tempo per certa brutta musica attuale. Con un po’ di pazienza c’è un mare di suoni che dal passato bussa alla porta della nostra curiosità. Datevi da fare.
Articoli del genere fanno bene non solo agli scaffali e alla polvere accumulata, ma anche al proprietario dei medesimi scaffali e polvere. Perché ti consentono di tirare fuori quel Near The Beginning e ripiombare a quando a 16 anni (fine anni ’80) comprasti un libro “Hard Rock Story” con un Jeff Beck periodo Wired – dunque quanto più lontano dai territori dell’hard rock – che mi introdusse a 30 gruppi europei e 30 nord-americani la più parte sconosciutissimi (chi era Ted Nugent? E i Black Oak Arkansas? E vogliamo parlare di Uriah Heep, Golden Earring e appunto Vanilla Fudge?!?). Va da sé che la mia vita non è stata più la stessa . Ugual discorso per gli Iron Butterfly. Confesso che il lato A di quel disco l’ho ascoltato una decina di volte. Ma il lato B…E poi è difficile non associarlo a ManHunter-Frammenti di un omicidio (Hannibal prima degli agnelli). Ma almeno questi due dischi li conosco bene, ma i May Blitz? Fanno parte di quella montagna di musica che mi sono portato a casa; che ho ascoltato per il periodo di assimilazione ritenuta sufficiente e quindi, una volta disposti a loro posto, mai più ascoltati. Ecco l’occasione. Grazie; come se ascoltassi un gruppo nuovo.
Paolo… lo scopo è far venir voglia di ascoltare bella musica… se ci riusciamo, non possiamo che essere contenti. Grazie.
Ciao Giancarlo, come sempre ottimi spunti di ricerca e di riflessione. Aspetto sempre con una certa impazienza e curiosità gli scritti tuoi e di Beppe. Continuate ad arricchire questo Blog . Grazie ancora.
Gaetano, i nostri spunti sono sempre un po’ di parte ma spero interessanti. Grazie di darci il tuo tempo.